A differenza di quanto accade nel resto d'Europa, da noi si rischia di allargare inutilmente il diritto di cittadinanza, e di dare l'impressione di “regalarla senza obblighi”, con un diritto di nascita che, qualora fosse approvato, vanificherebbe gli effetti di un ragionevole ius soli già vigente. Si tenga presente che in Francia e in Olanda vige lo ius soli ma non il diritto di nascita, e come nella legge Martelli del 1992, i minori possono acquisirla solo al compimento del diciottesimo anno. In Germania, Spagna, Regno Unito il diritto di nascita è temperato da un periodo di residenza del genitore più lungo di quello previsto dalle norme italiane. Non si citano gli Stati Uniti giacché hanno un'altra situazione politico-sociale ma una cosa è certa: nemmeno lì regalano la cittadinanza.
E se nel resto del mondo ricordare quanto detto non è prova di discriminazione, tutt'altro accade in Italia. Chiunque compia tale gesto di buon senso, è gettato al bailamme mediatico e accusato di “essere un cattivo”. In tale contesto si sprecano gli slogan pietistici e gli slogan urlati in opposizione, che purtroppo prevalgono sulle riflessioni di merito.
Ora, a chi non vuole annegare in quel mare di “fake-news” non resta che una sola cosa da fare: affidarsi a qualcuno di autorevole con cui approfondire per davvero la questione e stare ai fatti, lontani da ogni mistificazione ideologica. Ed è quello che chi scrive ha fatto per VitaDiocesana Pinerolese, chiedendo un giudizio ad Anna Bono, autorevole africanista e docente di Storia e Istituzioni dell'Africa presso la Facoltà di Scienze Politiche dell'Università di Torino.
Una nuova legge sulla cittadinanza è necessaria? Ci aiuti ad approfondire la questione...
Premesso che non sono un’esperta in questioni giuridiche, credo che sia importante capire la distinzione fondamentale tra ius soli e ius sanguinis. Il primo stabilisce che chi nasce nel territorio di uno stato ne è cittadino, anche se i suoi genitori non lo sono. Il secondo fa dipendere la cittadinanza dal sangue, quindi dalla nazionalità dei genitori. L’Italia garantisce a tutti i minori residenti, autoctoni e stranieri, gli stessi diritti fondamentali – primi fra tutti, quello all'assistenza sanitaria e quello all'istruzione. Probabilmente la formula più ragionevole e che meglio tutela i diritti dei bambini e dei loro genitori, è quindi quella già in vigore: uno ius soli per così dire temperato in base al quale, raggiunta la maggiore età, i figli di stranieri nati e residenti in Italia stabilmente possono scegliere di diventare cittadini italiani.
Per quale motivo “lo slogan” che porta a equiparare l'emigrazione italiana di allora con quella di chi giunge oggi sulle nostre coste va sfatato?
Per prima cosa gli italiani che emigravano in passato, e quelli che lo fanno tuttora, emigrano regolarmente, rispettando le leggi nazionali e internazionali, mentre gli emigranti che arrivano in Italia lo fanno illegalmente.
In secondo luogo gli emigranti italiani del passato sceglievano come destinazione paesi in crescita, che chiedevano forza lavoro, mentre gli emigranti illegali attuali scelgono come destinazione un paese in forte crisi economica, con elevati tassi di disoccupazione (quella giovanile supera il 40%) e di povertà assoluta: una scelta irrazionale, del tutto anomala.
Tito Boeri, presidente dell'INPS, è d'accordo con quanto sostenuto dal monsignore; in una conferenza stampa, ai primi di luglio, ha dichiarato: “l'Italia ha bisogno degli immigrati per sostenere il welfare. La giovane età degli immigrati compensa il calo delle nascite nel nostro paese, la minaccia più grave al nostro sistema pensionistico”. Come commenta queste parole?
Non abbiamo bisogni di giovani, ovviamente, visto che tanti se ne vanno e milioni restano disoccupati. Abbiamo bisogno di lavoro, occupazione, crescita economica.
La quasi totalità degli immigrati illegali non lavora e non troverà lavoro, quindi non paga e non pagherà contributi. Se anche fosse, il nostro sistema previdenziale è contributivo. Quindi, quelli che lavorano, con i contributi versati maturano la loro pensione e il loro trattamento fine rapporto, non quello altrui.
Perché occorre riconoscere, oltre al diritto di emigrare, il diritto di vivere a casa propria? Come lo si può garantire, attraverso quali tipi di aiuto?
Premesso che il diritto a emigrare non comporta il diritto di andare dove si vuole, entrando in un paese a forza, con espedienti e senza rispettarne le leggi, il diritto primario è effettivamente vivere in dignità e sicurezza nel proprio paese. Ogni governo, ogni popolo dovrebbe impegnarsi a far valere questo diritto. Come? Occorrono prima di tutto governanti responsabili, preparati, disposti a contrastare corruzione e malgoverno. Aiuti dall'esterno sono possibili, ma non essenziali e men che meno risolutivi, se mancano le condizioni interne per garantire crescita economica e sviluppo.
Questa intervista verrà pubblicata sul giornale della Diocesi di Pinerolo, nel prossimo numero.
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