martedì 15 settembre 2020

Cinematografo dell'alpino: Joker: Tra genialità cinematografica e visione luciferina

Ha conquistato la critica e sbancato i botteghini: dietro il successo del film del 2019 sulle origini dell'anemico di Batman c'è grande arte cinematografica e il fascino di una visione "ironica", ma distorta


È un dato di fatto, inequivocabile: Joker è stato un vero e proprio successo di massa. Probabilmente lo possiamo inquadrare come un cult contemporaneo: una pellicola iconica, dove battute movenze e scene restano impresse nella memoria dello spettatore, e che al tempo stesso diventano un pezzo di storia di tutto il cinema fino ad oggi. È una pellicola che si aggancia al genere dei superhero movie, ma con delle movenze, cadenze, ritmo completamente diverse, uniche nel pantheon del genere. Infatti, non si caratterizza per scene d'azione rocambolesche o per giochi di effetti speciali travolgenti, né tantomeno mette in mostra scene di violenza eclatanti come poteva accadere per il Joker di Nolan interpretato da Ledger. Sia chiaro: la violenza è una dei grandi protagonisti della storia, ma mentre nelle precedenti rappresentazioni (Nolan appunto o Tim Burton) questa si manifestava in mosse e colpi di scena a ritmo incalzante, qui invece e sottesa e silenziosa, ma presente, in un crescendo che va di pari passo con quella che è la "maturazione" del personaggio. Joker quindi è un film lento, graduale, più introspettivo: non cerca l'improvvisazione o l'impatto a colpo d'occhio, preferisce semmai una narrazione quasi "dall'alto"; o ancora meglio: è un ritratto (nel senso prettamente artistico del termine) che si racconta, che ci spiega man mano i passaggi per arrivare al risultato finale. Tutta la pellicola, se da un lato sa anche districarsi in una descrizione dell'ambiente circostante alle vicende del suo protagonista, dall'altro lo mette completamente al centro: ogni personaggio comprimario, ogni panorama, sfondo, scena si riconduce al solo scopo di essere un tratto del Joker, e solo di lui. Il Joker è centro e fine del film: tutto va ricondotto a lui e ha valore perché è un pezzo di lui.

Il merito di questo meraviglioso gioco cinematografico (perché lo spettatore a questo assiste) va indubbiamente ai tre elementi, pilastri, che con ottima sinergia, hanno lavorato a favore di tale successo: la regia del bravissimo Todd Phillips; la magistrale interpretazione di Joaquin Phoenix; il personaggio del Joker stesso. A Philips, va indubbiamente il merito di aver elaborato una strategia cinematografica con i fiocchi, creando un film che (come detto prima) se da un lato doveva chiaramente essere un cinecomic, dall'altro doveva sapersi differenziare. Soprattutto dopo l'evidente strapotere dimostrato negli anni dalla Marvel/Disney, ormai padrona del genere, e cristallizzato con i bellissimi Infinity War ed Endgame, e il fallimento del piano Dc Comics/Warner avvenuto con Justice League (dove non bastarono i successivi buoni risultati ottenuti con Aquaman e Shazam!), si profilava una sfida molto ardua. Da non sottovalutare anche la presenza nelle sale in contemporanea di un altro film di indubbia bellezza: C'era una volta a … Hollywood di Tarantino. Insomma, una pellicola che sa emergere in una situazione molto complessa, e Phillips riesce proprio nell'impresa grazie a una personale «ridefinizione» del genere, donando allo spettatore un film "diverso" dai precedenti. Tutto il lavoro di regia è inoltre impreziosito proprio dallo stesso Phillips che lo arricchisce con la sua pretendete esperienza di documentarista: Joker infatti è un ritratto proprio grazie a questa narrazione stilizzata sul modello dei documentari; la storia si muove insieme alla telecamera stessa che riprende il suo protagonista quasi a estraniarsene e allo stesso tempo immedesimandosi con esso. Altro punto di forza si trova nella stretta collaborazione che il regista trova, per ciò che riguarda la definizione del soggetto (personaggio), con tre mostri sacri del mondo del fumetto Dc Comics: Jerry Robinson, Bill Finger e soprattutto il grande Bob Kane (il creatore di Batman per intenderci).

Come detto prima, c'è ovviamente Joaquin Phoenix: Oscar come migliore attore protagonista più che meritato. La sua recitazione è toccante per naturalezza delle espressioni, l'immedesimazione nei gesti pure quelli più semplici (coinvolgente pure quando accende la sigaretta oppure nel guardare la televisione), nel sottendere una continua tensione del personaggio, così da descriverne negli sguardi tutta la sua evoluzione: da animo mite che sopporta le ingiustizie a criminale, quasi un rivoluzionario, soprattutto clown che ironizza sadicamente sulla sua stessa condizione fino alla società stessa. L'interpretazione di Phoenix è magistrale non per un piano meramente estetico (basti pensare che l'attore per interpretare Joker ha perso ben 25 chili di peso!), dalla corporatura alla semplice mimica facciale, ma anche nel farci immergere in un grande paradosso del suo personaggio: una condizione di follia, di malattia mentale che, come evolvendosi, diventa una forma di guarigione. Ne parleremo dopo al fondo di questo, ma, tornando a Phoenix, è notevole come lui riesca in un continuo susseguirsi di sguardi del protagonista a dare spessore e autorità a una trama semplice ma che racchiude tutta la complessità del ritratto del protagonista: Joker è di fatto un ritratto che si delinea in un climax dualistico (ascendente e discendete allo stesso tempo) che si disegna tramite gli sguardi, appunto, del suo interprete; sguardi che Phoenix realizza alla perfezione. È impressionante d'altronde proprio la naturalezza con cui riesce: l'attore lo aveva già dimostrato con il suo Commodo ne Il Gladiatore, ma qui il livello è di gran lunga superiore: lo spettatore fa i conti con un'espressività che è segno distintivo proprio dello stesso Phoenix.

E a chiudere il trittico c'è poi, ovviamente, tutta quella complessità, di paradossi, contraddizioni, dicotomie, che si incontrano proprio nel personaggio del Joker. Apparso per la prima volta sulle pagine di Detective Comics nel 1940, il personaggio non aveva trovato una piena definizione delle sue origini fino al 1988 nella storia di Alan Moore e Brian Bolland The Killing Joke: qui è presentato come un comico fallito che lavora nei locali di seconda e terza categoria come cabarettista, che a seguito di due profondi traumi (la perdita della moglie incinta e una fatidica caduta dentro lo scarico di un'industria chimica che gli deforma il volto) diventa il Joker.

Elementi, quelli di Killing Joke, che fungono da base funzionale all'ideazione della trama e del protagonista del film: Arthur Fleck è un aspirante comico che occasionalmente si esibisce nei piccoli locali; tuttavia vengono introdotti anche elementi nuovi: egli si guadagna da vivere principalmente lavorando come pagliaccio; in più è un individuo alienato, affetto da un disturbo psichico che lo costringe a ridere nei momenti di profonda tensione. Punto però focale, una grande novità rispetto alle varie rappresentazioni del personaggio, è però un suo sotteso desiderio di affettività, di voler essere voluto bene. Arthur infatti sogna ad occhi aperti un abbraccio paterno con il presentatore televisivo Murray Franklin (Robert De Niro) oppure immagina nella sua testa una storia d'amore con la vicina di casa Sophie (Zazie Beetz); addirittura si precipita a villa Wayne quando per un momento crede di essere un figlio illegittimo di Thomas Wayne. Tutto questo, riportato negli sguardi di Phoenix, si raffronta in un tema malinconico oltre che in esiti quasi sempre negativi: nessuno infatti risponde a questo grido di affetto di Arthur. La Gotham City di Joker infatti è realtà perennemente fredda, indisponente, senza inclinazioni al bene se non sotto forma di promesse politiche o visioni molto borghesi. È un po' il cliché (forse unica pecca del film) di un cattivo che emerge inevitabilmente in una società che è allo stesso tempo cattiva.

La pellicola infatti dà quell'impressione di una sorta di determinismo sotteso a cui il protagonista sembra non potersi sottrarre. Eppure, proprio perché abbiamo a che fare con il personaggio Joker, questa dinamica è anche, in parte, accettabile. "In parte" perché è anche vero che il passaggio da Arthur Fleck a Joker è fatto con lucida consapevolezza: il suo passaggio al male è consapevole, è la scelta di chi risponde al male con il male stesso. Va anche precisato che Fleck se da un lato desidera l'affetto, dall'altro si accontenta delle immagini nella sua testa, delle sue fantasie, e anche quando troverebbe le occasioni è indubbiamente rinunciatario. Su questo, vive proprio la condizione diabolica di chi non accetta fino in fondo la durezza della realtà, il «lavoro» dell'affettività (cioè la fatica che gli affetti implicano), ma che da eterno bambino pretende o sogna le forme più disparate. Quindi si patteggia per il Joker per essere umano che desidera il bene, ed è molto facile, ma a riflettere bene si riesce anche a prendere le distanze.

Interessante è anche vedere come la pellicola descrive un'altra convinzione "luciferina": basta desiderare il bene, la vita nuova, per trovare la svolta, o meglio che la domanda stessa sia già la risposta; o ancora che basti una convinzione "borghese" del bene per salvarsi dal male. Ma più di tutte: che l'unica forma di liberazione dal male, da un mondo violento, da un passato violento e menzognero, è il male stesso. Ecco in questo il Joker di Phoenix e sia eroe che antieroe della trama: Fleck da un lato eroe perché vuole essere libero dall'ingiustizia di una menzogna, e in questo anche la sola aspirazione all'affetto, a dei legami buoni, ma alla fine, paradossalmente, aderisce alla menzogna stessa del male, diventando l'antieroe, un'incarnazione della violenza stessa che lui odiava, cioè Joker. Uno che desiderava la vita finisce per diventare uno che desidera toglierla. Un destino che accomuna tanti personaggi tragici, pure antichi: chi non ricorda la follia di Aiace scaturita dall'ingiustizia subita per non aver ricevuto le armi di Achille? Però attenzione: Joker capovolge letteralmente questa dicotomia tra bene e male nell'ingiustizia. Nella sua trasformazione, Fleck sembra assumere una nuova lucidità, consapevolezza, che sa mascherare tutta l'ipocrisia che permea la violenta città di Gotham: una follia che discerne tra verità e bugia, così che arriva ad un'altra diabolica conclusione, cioè che tutti siamo mostri malvagi. Ovviamente anche questa è una visione depravata luciferina, eppure non c'è spettatore che stando dietro alle vicende di Fleck non trovi una certa corrispondenza a quest'ultima … Allora ricordiamo una cosa: è il Joker, cioè un uomo votato alla violenza, e soprattutto un clown nella sua migliore interpretazione: l'interpretazione della vita secondo il male.


Antonello Di Nunno






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