giovedì 29 settembre 2016

Obice: Preghiera a San Michele Arcangelo

Sancte Michaël Arcangele, defende nos in proelio, contra nequitias et insidias diaboli esto presidium; imperet illi Deus, supplices deprecamur; tuque, princeps militiae coelestis, satanam aliosque spiritus malignos, qui ad perditionem animarum pervagantur in mundo, divina virtute, in infernum detrude. Amen

San Michele Arcangelo, difendici nella battaglia: sii tu nostro sostegno contro la perfidia e le insidie del diavolo. Che Dio eserciti il suo dominio su di lui, te ne preghiamo supplichevoli. E tu, o principe della milizia celeste, con la potenza divina, ricaccia nell'Inferno satana e gli altri spiriti maligni i quali errano nel mondo per perdere le anime. Amen.







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mercoledì 28 settembre 2016

Radio Monte Grappa: Giudizio su Bologna

"Il mio modo di presentare il cristianesimo
 cerca il senso e le ragioni di quel che dice.
 E non si accontenta di accettar niente,
 se non ne ha capito il senso
 e non ne ha ricercate le ragioni”.

Luigi Giussani (Dal temperamento un metodo, BUR 2002) 


Possiamo dirlo con franchezza: la giornata al Santuario della Madonna di San Luca a Bologna, lo scorso 25 settembre, è stata un avvenimento!

Un avvenimento, non per ciò che ne seguirà, perché questo rimane nelle mani di Dio, ma per l’eccezionalità di quello che abbiamo ascoltato e vissuto, per la corrispondenza che ha mostrato avere alla nostra sete di felicità e verità.

I tanti messaggi e mail di chi è tornato lieto a casa lo dimostrano senza equivoci. Eppure, quanta malevolenza aveva sollevato la sua semplice convocazione! Anatemi verso i firmatari della lettera, accuse, ostilità… sebbene pochissimi dei critici avessero veramente letto la nostra lettera di invito.

Ma cosa è accaduto di eccezionale a Bologna? Abbiamo toccato con mano che quello che abbiamo di più caro, Gesù, anche in questo tempo cupo che viviamo, è una presenza viva e misteriosamente presente, capace di con-muovere, illuminare la vita e sollecitare la libertà di ciascuno.

Viene a mente il racconto dell’Anticristo di Solovev...
“L’imperatore si rivolse ai cristiani dicendo: ‘Strani uomini... ditemi voi stessi o cristiani, abbandonati dalla maggioranza dei vostri fratelli e capi, che cosa avete di più caro nel cristianesimo?’. Allora si alzò in piedi lo Staretz Giovanni e rispose con dolcezza: ‘Grande sovrano! Quello che abbiamo di più caro nel cristianesimo è Cristo stesso! Lui stesso e tutto ciò che viene da Lui, giacché noi sappiamo che in Lui dimora corporalmente tutta la pienezza della Divinità!’” (V. Solovev, Il dialogo dell’Anticristo). 
È stato inevitabile constatare – con dolore – quel sentirsi abbandonati, anzitutto da chi avrebbe un compito di guida; abbiamo toccato con mano, ancora una volta, l’attuale situazione del Movimento, con una conduzione che ha abbandonato il metodo di don Giussani, che dimentica o rinnega la storia e cerca supporto nel potere mondano, abbracciandone la mentalità. E poi il dramma di una vita che si spegne perfino con la scomparsa di intere comunità.

Ma a Bologna abbiamo sperimentato, anche e soprattutto, una Presenza che non ci abbandona e che ha utilizzato la libertà e semplicità di alcuni per raggiungerci e chiamarci ancora uno per uno eppure insieme!

Adesso questa comune vocazione, questo riconoscerci compagni di strada, urge in noi la coscienza di una appartenenza reciproca. Ed è illuminante rileggere i primissimi albori del Movimento come li descrive Giussani:
“Iniziando il movimento, il primo giocato ero io. Per cui, quando affrontai i primi tre ragazzi in strada dopo la prima ora di scuola, dopo il primo giorno di insegnamento al liceo Berchet, andai a casa tutto preoccupato di me stesso: con quale responsabilità, con quale autocoscienza, con quale implicazione di me dovevo rispondere e corrispondere a quello che incominciavo ad intuire parlando loro! Capivo che non potevo rivederli il giorno dopo senza prendere posizione di fronte a questa dilatazione della questione: io appartenevo a quei tre ragazzi; appartenevo non a loro, ma all'unità con essi.” 
Ciò che ci tiene insieme, che fa – per Grazia - unità fra noi, è Colui che insieme ci ha chiamati: “Quello che abbiamo di più caro è Cristo stesso e tutto ciò che viene da Lui”.

È la sua presenza, mendicata nella preghiera e nella memoria e che prosegue dentro i volti di una storia sempre nuova, la cui strada non è decisa da noi, ma è nel disegno misterioso di un Altro.

Quella che mendichiamo è la Presenza di Cristo che dice a ogni uomo e a ciascuno di noi: “Donna, uomo, ragazzo, ragazza non piangere perché Io sono con voi, presente e vivo!” Di questa Presenza, che giudica la realtà, tutta la realtà, anche quella del Movimento, come del mondo intero, siamo chiamati a dare testimonianza, a tutti, ovunque ci capita di vivere. 

Anche se l’originalità di una presenza e di un giudizio inevitabilmente creano divisione: “Pour se poser, il s’oppose”. Ovunque e senza timore: la libertà in azione è scomoda e divide, ma anche stupisce e affascina. 

Nella lotta della vita vogliamo aiutarci a non smarrire lo scopo e a farci compagnia a tutti, con semplicità e autenticità, senza censurare nulla e senza sentire nessuno come estraneo. 

La testimonianza reciproca è la forma più efficace della carità. 


Lele Tiscar 
Antonio Socci 
Marco Paglialunga 
Giampaolo Cerri






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Congedo con onore: Qualunquemente: Faremo il ponte, e se il ponte non basta faremo un tunnel







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martedì 27 settembre 2016

Come eravamo: I volti segreti di Pietro

Intervista a cura di Renato Farina, Il Sabato, n. 32/33, 1988

I tre Papi li ha conosciuti da vicino. Ora monsignor Luigi Giussani traccia brevi ricordi e giudizi storici. Ha risposto alle domande mentre, di ritorno da Asuncion in Paraguay - dove si è incontrato con la realtà ciellina in America latina -, attendeva a Zurigo un volo per Milano. È dunque un'intervista «da aeroporto». Pur nella estemporaneità delle risposte si coglie però la fragranza di un uomo che non solo ha vissuto la storia di cui parla, ma l'ha amata e la ama.

Il mese di agosto del 1978 è ricordato come il tempo dei Papi. Morì Paolo VI e venne papa Luciani. Dopo 33 giorni si chiuse la parentesi radiosa di Giovanni Paolo I, e ci fu l'avvento del «Papa venuto da lontano». Ricorda le ore in cui fu annunziato il precipitare delle condizioni di Paolo VI, e poi l'annuncio della morte, quella domenica sera?

Ricordo quei momenti. Fu una pena nuova, ed inattesa, benché gli ultimi mesi avessero in un certo senso fatto presagire la morte del Papa. Ed il dolore fu per me particolarmente grave e drammatico. Grave perché negli ultimi anni Paolo VI aveva avuto come un'improvvisa, lucida apertura verso la nostra esperienza. Drammatico perché ciò che aveva portato la situazione della Chiesa ad una inaspettata apertura verso di noi restava come sospeso in una incognita tremenda.

Ha detto «morte inattesa» , ed «apertura inaspettata». Perché ha usato queste parole di sorpresa?

Fu così grave quella morte, e così piena di lieti presagi quell'apertura che obbligano quasi allo stupore. Versava in tali condizioni la Chiesa che la perdita di quella guida mi parve gravissima. Era stato Paolo VI che, con tutta buona fede, aveva visto favorevolmente una certa evoluzione della Chiesa. Ma tanta era la verità del suo amore alla Chiesa che, ad un certo punto, si è dovuto accorgere del disastro cui la dinamica delle cose - pur approvate - portava. Fu allora che si aprì totalmente all'esperienza di Comunione e liberazione. Che papa Montini venisse meno proprio allora fu come l'assentarsi di una possibile guida. Aveva visto e avallato; conosceva le intime connessioni di quel processo di distruzione. Ora, intendeva andare contro corrente: ed era lui il più indicato a farlo, il migliore...

Da quando data questa volontà nuova di Paolo VI? In passato ha parlato degli «ultimi dieci anni». Quali furono i momenti salienti di questa consapevolezza ?

È a far data dal suo famoso Credo, il 30 giugno del 1968, che avviene la svolta. L' Humanae vitae e gli inauditi attacchi cui fu sottoposto lo confermarono nel suo giudizio. Il culmine della sua disillusione si ha con il referendum sul divorzio in Italia, nel ' 74, quando proprio i dirigenti dell'Azione cattolica e la Fuci, che egli aveva amato e protetto, gli volsero le spalle. È in questo clima, probabilmente, che Paolo VI si accorge della fedeltà alla Tradizione e, nello stesso tempo, della capacità di rinnovamento dell'avvenimento cristiano e di risposta all'uomo che Comunione e liberazione implicava. È dal 1975 che si sono moltiplicati i segni di questa sua nuova e forte simpatia. Per la domenica delle Palme di quell'anno egli chiamò i giovani di tutti i gruppi cattolici a Roma, perché fosse una festa della gioventù e questa presenza quasi lo confortasse così da poterla a sua volta confortare. Chiamò tutti. Si trovò da solo coi 17mila di Cl. Ci fu allora concesso per la prima volta, ed in modo assolutamente inopinato, l'uso dell'aula Nervi.

Come andò la faccenda?

Richiedemmo l'aula Nervi nei giorni precedenti. Insistemmo, ma sembrava richiesta impossibile. Sapemmo che fu grazie anche alle pressioni del cardinal Guerri che il permesso venne. Altri di Curia accampavano dei «no» col pretesto dello stato calamitoso in cui migliaia di giovani ciellini avrebbero lasciato la sala. In 17mila non lasciarono nemmeno la carta di una caramella, nemmeno una briciola. Ma io credo che il «sì» interpretasse il cuore di Paolo VI. Finita la Messa, era circa mezzogiorno, mi sentii chiamare da un prelato. «Don Giussani, il Papa la vuole». Ero nel pronao della basilica di San Pietro, avevo la pisside con le ostie consacrate tra le mani, e sentii quella voce. Tentai di affibbiare, nell'emozione, la pisside ad un alabardiere, che si ritrasse. Finalmente potei correre verso il Papa. Comparvi dinanzi a lui proprio sulla porta della chiesa. Mi sono inginocchiato, ero così confuso... Ricordo con precisione solo queste parole: «Coraggio, questa è la strada giusta: vada avanti così».

Fu, ancora una volta, qualcosa di inaspettato?

Totalmente inaspettato. Ma non furono parole estemporanee di incoraggiamento. Ne ebbi la prova certa dalla viva voce del cardinal Benelli. Alla sua tavola mi disse - mancavano pochi mesi alla prematura morte di colui che fu il più stretto collaboratore gerarchico di Paolo VI - che, negli ultimi anni del suo pontificato, papa Montini gli chiedeva ad ogni sua visita di Comunione e liberazione. E gli diceva: «Eminenza, quella è la strada». Benelli mi commentò: «Se fosse vissuto ancora un anno, le assicuro che tutti i suoi problemi ecclesiastici sarebbero già stati risolti» . Paolo VI avrebbe avuto il coraggio di dirlo e di farlo. Paolo VI, come italiano che aveva scelto tra i suoi assistenti della Fuci molta parte dell'episcopato e che quindi lo conosceva, avrebbe avuto certamente la possibilità di chiarire dove aveva riconosciuto la vera conformità al Concilio e al suo governo pastorale. Una conferma notevole del cambiamento di Paolo VI fu del resto evidente nell'esonero dalla cura dell'Azione cattolica dell'intimo amico monsignor Franco Costa, che aveva determinato il corso dell'associazionismo cattolico negli ultimi decenni.

«Tutti i suoi problemi ecclesiastici sarebbero risolti», le disse Benelli. In tal modo più che indicare le questioni spicciole (e gravi) del riconoscimento di un movimento, Cl, l'antico Sostituto di Paolo VI intendeva esprimere un preciso giudizio sulla Chiesa.

Significava l'affermazione della bontà dell'ispirazione di Cl, come valida per la Chiesa. E questo di fronte all'impostazione di tutto l'associazionismo cattolico che in quegli anni, nel suo corpus dirigenziale, votò e fece votare non secondo i desideri del Papa. La linea della «scelta religiosa» aveva portato l'associazionismo cattolico a rifugiarsi in ogni specie di sinistra politica: e lì, tra l'altro, si propagandò tranquillamente il divorzio.

Negli ultimi anni lei desidera che siano ripetute e conosciute da tutti le parole che Paolo VI disse all'amico Jean Guitton, l' 8 settembre del '77, dove si parla di «un pensiero non-cattolico» e della resistenza di un «piccolo gregge». Perché?

Perché è così che sta accadendo. La prego di rileggermi quelle parole.

Eccole. «C'è un grande turbamento in questo momento nel mondo della Chiesa, e ciò che è in questione è la fede. Capita ora che mi ripeta la frase oscura di Gesù nel Vangelo di san Luca: "Quando il Figlio dell'Uomo ritornerà, troverà ancora la fede sulla Terra?". Capita che escano dei libri in cui la fede è in ritirata su punti importanti, che gli episcopati tacciano, che non si trovino strani questi libri. Questo, secondo me, è strano. Rileggo talvolta il Vangelo della fine dei tempi e constato che in questo momento emergono alcuni segni di questa fine. Siamo prossimi alla fine? Questo non lo sapremo mai. Occorre tenersi sempre pronti, ma tutto può durare ancora molto a lungo. Ciò che mi colpisce, quando considero il mondo cattolico, è che all'interno del cattolicesimo sembra talvolta predominare un pensiero di tipo non-cattolico, e può avvenire che questo pensiero non-cattolico all'interno del cattolicesimo diventi domani il più forte. Ma esso non rappresenterà mai il pensiero della Chiesa. Bisogna che sussista un piccolo gregge, per quanto piccolo esso sia».

Sono le parole sintetiche della riflessione del Papa sulla situazione e il destino della Chiesa. Qui si connette l'apertura a Cl.

In passato erano esistiti rapporti difficili con il cardinal Montini?

No.

Le dico questo perché di recente è stato scritto che il cardinal Colombo, successore di Montini a Milano, aveva ricevuto l'invito da Paolo VI di tarpare le ali a Cl.

È esattamente il contrario. Monsignor Franco Costa aveva chiesto di sopprimere Gioventù Studentesca (come si chiamava allora l'esperienza di Cl, ndr). Il cardinal Montini, dopo aver attentamente ascoltato, rispose osservando che proprio loro, la Fuci, che volevano essere i paladini della libertà adesso domandavano l'abolizione di una realtà semplicemente perché era «diversa». Non è affatto vero che Montini da cardinale o da Papa abbia avuto in animo quel disegno. Se avesse detto al cardinal Colombo di sopprimerci, il cardinal Colombo ci avrebbe soppresso da un istante all'altro. Invece la grandezza d'animo del cardinal Montini si dimostrò quando tutti erano contro di noi, in particolare il clero di Milano. Mi mandò a chiamare, e concluse dicendo: «Io non capisco i suoi metodi e le sue idee, ma vedo gli effetti. E perciò le dico: vada avanti così». È un po' la direttiva che mi diede nel '75: vada avanti.

Le disse quelle parole nel '56-57. E gliele disse pur avendo una sensibilità ecclesiale diversa dalla sua...

Dove sia questa diversa sensibilità ecclesiale non so, quando si legga il discorso che ha fatto ai 300 universitari fiorentini. Mi permetta di proporre questo testo di Paolo VI: «A voi i nostri auguri! Siamo molto attenti alle affermazioni del vostro programma che andate diffondendo, del vostro stile di vita, dell'adesione giovanile e nuova, rinnovata e rinnovatrice, agli ideali cristiani e sociali che vi dà l'ambiente cattolico in Italia. Vi benediciamo, e con ciò benediciamo e salutiamo il vostro fondatore, don Giussani. Vi diciamo grazie delle attestazioni coraggiose, forti e fedeli che date in questo momento particolarmente agitato, un po' turbato per certe vessazioni e certe incomprensioni di cui siete circondati. Siate contenti, siate fedeli, siate forti e siate lieti di portare intorno a voi la testimonianza che la fede cristiana è forte, è lieta, è bella e capace di trasformare davvero nell'amore e con l'amore la società in cui essa si inserisce. Tanti auguri e tante benedizioni!».

Provi a commentarmi queste parole: «L'attestazione forte, coraggiosa e fedele». 

Era l'epoca in cui abbiamo avuto più di 120 bombe contro di noi e molti nostri ragazzi sono finiti all'ospedale, picchiati anche da «fratelli» cattolici... Ma stiamo al nostro tema. Anche se parlando dell'età di Paolo VI non posso dimenticare che erano tutti, letteralmente tutti, contro di noi. L'associazionismo cattolico «religiosamente» si ripiegava sulla famosa scelta, mentre molti dei suoi figli, «attivamente», erano con quelli di sinistra... anche nei pestaggi.

C'è qualche punto di forza dottrinale di Paolo VI che sente centrale nel suo magistero?

L'affermazione assolutamente contro corrente della Chiesa come «entità etnica sui generis». Era il 23 luglio del '75, fu il cuore della sua predicazione, nel corso delle udienze generali del mercoledì, sull'identità della Chiesa. Non per nulla siamo stati quasi i soli a richiamarla.

Già Paolo VI sentiva la distruzione della presenza cattolica nella società. La presenza si nascondeva. Anzi, invece di una presenza cattolica, c'era un rinchiudersi sempre più stanco e astratto nelle sedi delle associazioni, mentre la vita concreta degli stessi giovani seguiva le idee correnti e si metteva in coda. Oppure, invece della presenza cattolica, c'era l'interpretazione (ad ogni costo) intellettuale alla maniera della Lega democratica, della Fuci, dei Laureati cattolici. Costoro teorizzavano una concezione della fede assolutamente elitaria e missionariamente suicida.

In terzo luogo, la posizione della Chiesa veniva identificata nella scaltrezza politica e diplomatica. Credo che furono comunque determinanti le notizie sulla situazione delle università cattoliche e degli istituti cattolici, delle scuole di teologia perché a Paolo VI apparisse nettissimo il baratro verso cui la direzione della Chiesa stava trascinando l'intero suo corpo.

Partendo da considerazioni analoghe alle sue sul «baratro» posto davanti alla Chiesa, e osservando le famose «inquietudini» di Paolo VI, alcuni osservatori giudicano fallimentare il suo pontificato, oppure, più rispettosamente, stendono il velo del silenzio. 

Il papato di Paolo VI è uno dei più grandi papati! Montini aveva dimostrato nella prima parte della sua vita una sensibilità estrema - che nessuno gli potrà mai negare - a tutta la problematica dell'angosciosa vicenda dell'uomo e della società d'oggi. E papa Montini ha trovato una risposta! L'ha data negli ultimi dieci anni. Il papato di Paolo VI è fallimentare solo per chi non lo ha seguito fino in fondo.

È il Papa che ha concluso il Concilio.

Ah, certo. Bisognerebbe far la storia di tutti i suoi interventi che coraggiosamente e impopolarmente hanno fermato la falsa democrazia, l'equivoca dogmatica che molti padri conciliari tentarono di far passare con una pretesa democraticistica. Ma io non mi sono mai fermato su queste cose...

È interessante capire perché non si è mai fermato su queste cose.

Anzitutto perché la storia della Chiesa è nelle mani di Dio. Inoltre: quando uno ha ben chiara la consapevolezza di essere fedele alla Tradizione che gli è stata insegnata, e trova che il Magistero della Chiesa man mano che si evolve risottolinea le stesse cose, e non ha coscienza di averlo mai contraddetto; allora per quest'uomo quel che importa è fare, e basta. È fare coraggiosamente, ed anche giudicando e accusando quello che non è secondo la tradizione vivente della Chiesa.

A proposito di Tradizione, esplose già sotto Paolo VI la questione Lefebvre, che è partito in nome della Tradizione dall'osservazione della distruzione.

Un conto è affermare la Tradizione come «forme, un conto è portarla avanti come contenuti di valore. Comunque la grande regola è che la Tradizione non può sussistere che secondo una novità espressiva cui viene sollecitata dal Padre Eterno attraverso le circostanze in cui la Chiesa viene a trovarsi. La Tradizione non è tradizione se non si rinnova: «Nihil innovetur nisi quod traditum est» (non si può innovare se non quel che è tramandato).

Lefebvre fu una delle spine nel fianco del Papa. Ci fu l'angoscia poi per la secolarizzazione...

Ci fu l'uccisione di Moro. Ricordo con commozione la preghiera per l'amico morto. L'unica parola davvero sincera che abbiamo udita in quell'epoca. L'unica - ed ancora adesso la fine di Moro rimane un enigma altamente equivoco. Paolo VI disse la parola cristiana. A dire quella parola non si sbaglia mai.

Dire «parole cristiane» ...Qual è stato, davanti al dissolversi del popolo cattolico, allo smarrimento delle moltitudini, il metodo di Paolo VI?

È quello del Credo. Il metodo cioè della proclamazione autentica del dogma, sine glossa, con chiarezza e della presenza della Chiesa nel mondo (vedi discorso sul popolo cristiano del 23 luglio 1975, quel mercoledì...).

E la Populorum progressio, con lo slancio nella missione...

...Ma questo è una conseguenza della presenza; in caso contrario ci si fa partecipi del «terzomondismo». Evangelizzazione e missione non sono uno sforzo ulteriore: sono epifania dell'identità.

Paolo VI cominciò ad usare l'espressione «identità» - salvo errori - proprio nell'omelia della domenica delle Palme del 1975.

Non fu quella l'unica volta. Ma che cos'è stato se non l'elogio dell'identità affermata con letizia e forza quel discorso ai 300 studenti fiorentini, un piccolo gruppo in mezzo alle ventimila persone in San Pietro? Quelle parole, l'esaltazione del coraggio cristiano, sono il sintomo della giovanilità che la fede autentica ha anche nel vecchio morente. Vi si coglie l'indice della chiarezza fattasi nella sua mente. E che cos'è questa se non la dimostrazione che Dio non lascia mai la sua Chiesa? Il sommo ruolo della Chiesa non è abbandonato mai da Dio. Il Quale può permettere qualsiasi errore, ma non quello di commettere errori contro la Verità, di insegnare al mondo quel che incrina o contraddice la Verità.

Paolo VI fu bersagliato in maniera ignobile a causa della sua riscoperta di un attore ignorato nell'umana vicenda: il diavolo. Fu lasciato solo anche dai vescovi...

Papa Montini cominciò ad accorgersi del disastro in cui la Chiesa andava scivolando, quando percepì il formalismo con cui il soprannaturale era trattenuto e ripetuto. Perciò il suo discorso sulla presenza nel mondo del diavolo è stato una sfida, così coraggiosa che il temperamento di Paolo VI non la lasciava prevedere al mondo e a tutta la teologia anche cattolica che con il mondo veniva a patti.

Quel mese di agosto, morto un Papa e mentre un altro se ne stava facendo, che cosa si augurava per la Chiesa?

Un uomo che continuasse l'intuizione della tragedia in cui la Chiesa versava. E dell'unico rimedio che è quello di ritornare alla fede nel soprannaturale come determinante la vita della Chiesa: all'autenticità della Tradizione. Insomma aspettavo un Papa che continuasse la strada che Paolo VI negli ultimi anni aveva clamorosamente indicato.

E fu scelto Giovanni Paolo I. Lo aveva conosciuto?

Lo avevo visto una volta, quand'era patriarca di Venezia. Ed era totalmente consentaneo con l'analisi e la terapia che proponevo per la situazione.

Ha un ricordo di quei trentatré giorni?

Mi fece molta impressione quando, appena eletto, lo udii parlare in televisione. Disse qualcosa come: «Era fuori delle mie previsioni essere eletto, ed allora ho domandato consiglio ai miei amici. Essi mi hanno detto di accettare ed io ho accettato». È stato bellissimo. Dio ha voluto - io credo - il sacrificio di quest'uomo (perché è stato un sacrificio reale! e sapremo forse soltanto alla fine del mondo fin dove è stato martirio); Dio ha voluto questo per preparare la Chiesa all'ingresso di Giovanni Paolo II. Un Papa straniero che è l'incarnazione di quello che gli ultimi dieci anni di Paolo VI hanno intuito ed espresso.

Vale a dire, in estrema sintesi?

La chiara certezza di quel che significa il contenuto del messaggio cristiano anche per la storia di questo mondo. La fede cioè nel Dio fatto uomo, con il conseguente entusiasmo per questo Uomo, in cui è possibile riporre tutta la speranza dei singoli uomini e del mondo intero.

Perciò la storia come il luogo in cui si gioca la gloria di Cristo, come formula suprema della storia medesima. E d'altra parte la presenza! La Chiesa come presenza nel mondo dovunque e comunque, e presenza come Chiesa: questo è lo strumento della gloria di Cristo nella storia.

C'è un enigma che accompagna il Papa nei suoi viaggi nel mondo. Non riguarda tanto la sua persona, quanto coloro che si radunano intorno a lui. Le folle vengono e si vede che riconoscono Pietro, eppure molto facilmente questo tesoro si dissipa, è come se lo spostarsi delle moltitudini non facesse rinascere, se non in pochi, una storia cristiana. Come intendere questo?

È come se la Provvidenza facesse vedere l'urgenza che anzitutto il clero e i fedeli stessi abbiano ad avere una coscienza più cristiana ed ecclesiale. Perché se ci fossero un clero ed una realtà di cristiani che partecipasse alla visione, al sentimento e alla metodologia di Giovanni Paolo II, allora anche i suoi passaggi avrebbero una conseguenza molto più grande.

Ma poi è come per Gesù. L'apparizione del Papa, come fu per Gesù, fa sentire per un istante all'uomo dove sia la verità e la pace. Che questo diventi cammino della storia, è nelle mani del Padre.

C'è un altro enigma. L'ho sentita una volta dire: «Adesso il mondo parla perfino bene del Papa». Come lo spiega?

Siccome il mondo non è riuscito nel suo tentativo di impedire o per lo meno di annebbiare l'influsso che il Papa ha sul popolo, allora il mondo - in modo più o meno finto - si è messo ad esaltare il Papa, tentando di isolarlo dal popolo. Dirò meglio: dalle realtà che rappresentano veramente la voce, le necessità, le urgenze del popolo.

Sono parole gravi. Ci sono anche dei cattolici compici in quest'operazione?

Sicuramente il diavolo può lavorare tanto bene da far sì che anche certa ecclesiasticità partecipi a questa manovra. Ma non vorrei sottacere come, ben al di là di queste manovre, sotto l'impulso di Giovanni Paolo II, e grazie al suo personale esempio, c'è un lento ma inesorabile ritorno alla verità amante del cristianesimo. Verità ed amore che trovano in madre Teresa di Calcutta l'incarnazione più alta. Anche qui: ecco la continuità dei Papi. Madre Teresa ha potuto cominciare a crescere sotto Paolo VI e con la sua benedizione.

Provi a sorprendere con un flash la vita concreta di Cl, Giovanni Paolo II felicemente regnante.

Anzitutto: l'esplosione di entusiasmo, la liberazione del cuore, la gioia per la limpida visione della fede portata da Giovanni Paolo II.

In secondo luogo, scorgo l'impeto di dover comunicare a chiunque, in qualsiasi condizione, questa libertà e gioia.

La terza constatazione è l'esplodere della carità come capacità di condivisione, in tutti i campi e in tutti i sensi. Dall'elemosina che puoi fare all'angolo della strada fino al gesto del più povero fratello della Calabria che manda la sua piccola offerta per realizzare una grande opera educativa. Fino a Margherita, la quale ha accolto in casa per otto mesi una ragazza malata di Aids.

A Margherita, giovane sposa, era morto il marito. Saputo di questa ventenne, abbandonata da tutti, l'ha portata con sé. Era disperata, non credente, quella ragazza. È morta nella pace.

Non genera in lei angoscia vedere che il gregge si riduce, vedere che ormai i cattolici sono minoranza?

Il dolore è grande, certo. Ma la certezza che la risposta a tutta la vita umana è Cristo dà tranquillità. Cristo, che vive nel presente, permette di instaurare un rapporto con la gente in cui, senza giudicare nessuno, ti coinvolgi nei rapporti con gli uomini, li coinvolgi nella proposta che ti dà la vita. Gli uomini si legano.

Nasce un clima diverso in un ambiente sociale. Le preoccupazioni pastorali di recupero e cose simili finiscono per trattare la Chiesa come la propria organizzazione, quando non partito.

Ma la Chiesa è mistero. Ed allora perché esaurirsi in programmi e strategie pastorali (politiche, in realtà)?

Dobbiamo soltanto preoccuparci di annunciare Cristo, così da radunare gli uomini in nome di Cristo e con essi affrontare la storia. La grande trama di rapporti che ne nasce, il «successo» o il fallimento umani, sono cura del Padre. S'arrangia Dio. E non tocca a noi giudicare se uno risponde o no alla chiamata di Cristo. Noi dobbiamo esaltare la santa Chiesa.






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