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sabato 10 febbraio 2018
mercoledì 7 febbraio 2018
Obice: Il presunto scoop dell'Espresso sul degrado della Torino grillina
Qualche giorno fa, l’Espresso ha pubblicato un articolo sul degrado della periferia torinese, che altro non è che una scoperta dell’acqua calda.
L’argomento mi ha colpito particolarmente, dato che ho vissuto a Torino per tre anni durante il periodo degli studi universitari, e ho visitato e frequentato personalmente molti dei luoghi descritti nell’articolo.
Ebbene, avendo vissuto a Torino dal 2012 al 2015, direi che i nostri amici dell’Espresso sono arrivati con un notevole ritardo, dato che i fenomeni riportati erano tranquillamente visibili (almeno) già 6 anni fa.
Negli anni in cui ho abitato a Torino (che ricorderò sempre con grande affetto, anche grazie ai tanti amici conosciuti e ai legami che sono rimasti col passare degli anni) ho visto praticamente di tutto, e ricordo con precisione alcuni episodi e situazioni che in alcuni casi fanno ridere, ma ci sarebbe da piangere. Aggiungo che, per fortuna, ho sempre abitato in quartieri tutto sommato buoni dove non succedeva niente di così drammatico, ma bastava capitare nei posti giusti al momento sbagliato per vedere di tutto. Ad esempio:
- Tram 4, quello che taglia Torino da nord a sud (e viceversa). I controllori dovevano salire in coppia o addirittura a gruppi di tre perché una volta uno di loro era stato malmenato da alcuni passeggeri; lo stesso tram diventa praticamente un quartiere nordafricano non appena si esce dal centro per andare verso la Barriera. L’ho visto di persona perché l’ho preso praticamente tutte le mattine per un periodo di circa due mesi, e lo usavo per andare allo stabilimento della Iveco in zona Barriera;
- Porta Palazzo e Corso Giulio Cesare. È assurdo come appena si esca dal centro la vetrina della città si trasformi nella latrina della città. Il mercato di Porta Palazzo è una autentica giungla, dove è possibile essere borseggiati al minimo calo di attenzione. Tutta la zona di Corso Giulio Cesare è diventata di fatto un quartiere islamico, con zone di degrado assoluto e di spaccio. È tutto un fiorire di macellerie halal e negozi etnici, ed è come non essere più in Italia. Le numerose “sale di preghiera” musulmane sono diventate delle “safe houses” per i numerosi spacciatori della zona quando devono scappare dai poliziotti; un sondaggio di qualche anno fa fatto in quella zona della città riportava che molti dei suoi abitanti di fede musulmana fossero a favore dell’instaurazione della sharia in Italia e si dichiaravano supporter del Califfato Islamico di Raqqa;
- San Salvario. Zona famosa per la movida, cioè per risse a base di alcool e droghe varie, che è possibile reperire dai numerosi spacciatori non autoctoni presenti nelle vicinanze;
- Corso Massimo. Prostitute ovunque;
- Ex-Villaggio Olimpico. I palazzi che ospitarono le varie delegazioni nazionali alle Olimpiadi Invernali del 2006 sono ormai fatiscenti, e sono diventati rifugio di immigrati clandestini, microcriminalità e feccia varia. Esiste un vero e proprio racket gestito dai caporioni della mala africana per “l’assegnazione” delle unità abitative dei vari palazzi. La zona è tristemente famosa anche per alcuni stupri avvenuti nel corso degli anni.
Corso Giulio Cesare, 2015. I cittadini erano già stanchi, ma nessuno li ha ascoltati |
La lista potrebbe andare avanti ancora per molto, ma non è questo il punto. La questione è che se Torino oggi è in queste condizioni, qualcuno è responsabile di ciò. Sarebbe disonesto attribuire lo sfascio solo all’attuale amministrazione grillina, che pur ci sta mettendo del suo. Così come sarebbe disonesto attribuire lo sfascio al PD renziano, dato che le responsabilità vanno molto più indietro.
La colpa è sicuramente attribuibile alla classe dirigente della città (pare che a comporla siano 100 famiglie), liberale sotto i Savoia, legata al PCI durante la “Belle époque” agnelliana, e ora post-comunista radical chic. Per inciso: il sindaco Appendino proviene da questo mondo, che come ha foraggiato il PD, foraggia anche il M5S. Un sistema che regna e… governa attraverso di essi. Grillo lo sa bene, la rivoluzione si ferma per il tè nei salotti borghesi.
Tale classe dirigente non ha saputo frenare la fuga degli uomini d’impresa – gli Agnelli in primis – dando così avvio alla crisi della città. Nemmeno il cavallo (non) vincente della loro retorica finto-ottimistica, i Giochi Olimpici Invernali hanno portato la luce tanto promessa; anzi, ai torinesi hanno lasciato debiti e strutture abbandonate. Certo, una riqualificazione è stata fatta ma solo dei quartieri più importanti, mentre le periferie sono state lasciate a se stesse, colme di “macerie di vita”. Oggi come allora, pochi se ne curano, e l’establishment sicuramente non lo fa!
Le forze in grado di opporsi a ciò ci sarebbero ma sembrano troppo intorpidite per reagire. Le realtà cattoliche e le formazioni politiche avverse a quel sistema, come quelle di centrodestra, o sono troppo succubi a causa delle tante briciole mangiate sotto il tavolo del “sistema Torino”, o sono troppo barbare per avanzare una proposta di civiltà.
Si spera che si sveglino presto. Ma al momento, Torino rimane immobile, non in grado di offrire molto ai suoi abitanti. La sua classe dirigente pensa che basterà puntare sul turismo, su qualche fabbrica trasformata in atelier d’arte (per non parlare di bislacchi progetti di finanza islamica e altre cialtronerie del genere). Altro che solo questo: ci vuole un serio business plan che sappia coinvolgere centro e periferia, i due polmoni della città, in un grande progetto capace di dare al capoluogo piemontese sicurezza, sviluppo economico, culturale e turistico, in un clima di vera e sana pluralità. È l’ora di farla finita con la sola sinistra post-comunista con in mano cultura, scuole e fondazioni.
Ovviamente, tutto questo processo deve mettere al centro l’investimento sulla famiglia. I torinesi, come tutti gli italiani, vanno aiutati a fare figli. Per fare i figli in maniera tranquilla, è necessario che sia favorita, ad esempio, la possibilità di accedere all’affitto agevolato degli alloggi. A giugno 2014, venivano contate 49283 abitazioni “vuote”, cioè sfitte. Come mai nessun rappresentante delle istituzioni si è premurato di mettere in contatto i proprietari e i potenziali affittuari, per mettere in campo una soluzione relativa alle varie emergenze abitative? È forse preferibile continuare con il solito circolo vizioso di occupazioni abusive, sfratti e manifestazioni dei centri sociali con tutto il degrado e la delinquenza che accompagnano queste situazioni?
E soprattutto, è possibile che una città come Torino registri ancora oggi certi dati relativi alla disoccupazione?
Se nessuno prende sul serio questi problemi, la città è destinata a non uscire più dal baratro in cui si trova.
lunedì 5 febbraio 2018
Lettera dal fronte: La libertà d’espressione e il “dovere di lasciarsi offendere” (seconda parte)
Ben più equilibrato era stato l’orientamento seguito dalla Corte in precedenti pronunce, che pure sono richiamate nella sentenza del 30 gennaio. In Otto-Preminger-Institut v. Austria, in occasione della confisca della pellicola irreligiosa Das Liebeskonzil era stata riconosciuta la reale difficoltà di pervenire a una comprensione uniforme dei concetti di “morals” e di “religion” all’interno della società, insieme all’impossibilità di pervenire a una “definizione esauriente di ciò che costituisce un’intromissione lecita nell’esercizio del diritto di libertà di espressione, laddove l’espressione sia rivolta direttamente contro il sentimento religioso altrui”1. Conseguentemente veniva rimesso alle autorità nazionali, ritenute essere in una posizione migliore rispetto al giudice internazionale, il compito di valutare la necessità della misura limitativa della libertà d’espressione.
Anche nel caso Wingrove v. The United Kingdom2 – incentrato sulla presunta violazione della libertà di espressione, a causa della censura, da parte della British Board of Film Classification (BBFC), di un cortometraggio pornografico e blasfemo su santa Teresa d’Avila3 – la Corte precisava che mentre vi sono poche possibilità, in virtù dell’art. 10 § 2 della Convezione, di imporre restrizioni a discorsi inerenti tematiche politiche o dibattiti relativi a questioni di interesse pubblico, «un margine di apprezzamento più ampio è generalmente riconosciuto agli Stati contraenti quando regolano la libertà di espressione in relazione a contenuti idonei a offendere le più intime convinzioni personali nella sfera della morale o, in particolar modo, della religione»4. I giudici proseguivano allora nell’affermare che in occasione di attacchi contro le convinzioni religiose di una parte dei consociati, in misura almeno simile se non superiore a quanto avveniva per il concetto di “morals”, non vi era una comprensione uniforme dei requisiti necessari per la protezione dei diritti altrui poiché “ciò che è presumibile costituire un’offesa grave per una persona di una particolare convinzione religiosa può variare, anche in maniera significativa, a seconda dei tempi e dei luoghi, soprattutto in un’epoca caratterizzata da una sempre maggiore varietà di fedi e denominazioni”5. In quell’occasione la Corte perveniva prudentemente alla conclusione esposta già vent’anni prima nella sentenza Handyside v. The United Kingdom6 originata dal sequestro e dalla distruzione delle copie di un libro giudicato osceno ai sensi dell’Obscene Publications Act del 1964, rimettendo alle autorità statali, che “in ragione del loro contatto diretto e continuo con le forze vitali dei loro paesi sono in linea di principio in una posizione migliore rispetto al giudice internazionale”7, il compito di inquadrare la portata esatta e le implicazioni dei provvedimenti “finalizzati a proteggere coloro i cui intimi sentimenti e le cui convinzioni più profonde potrebbero venirne gravemente offesi”8.
L’approccio dei giudici di Strasburgo seguito nella recente sentenza del 30 gennaio in favore della libertà di espressione figurativa, o meglio della pubblicità commerciale, pare sintomo di una giurisprudenza oscillante e mutevole che certamente non consolida, anzi indebolisce una tutela uniforme dei diritti umani, considerate anche le ricadute che la giurisprudenza della Corte EDU ha nelle corti nazionali.
Nel caso I. A. v. Turkey9, per esempio, nei confronti del ricorrente condannato a due anni di carcere dalle autorità turche – con condanna poi commutata in multa – per aver pubblicato il racconto scritto da Abdullah Rıza Ergüven dal titolo “Yasak Tümceler” la Corte EDU non riconosceva alcuna licenza letteraria, considerando che il racconto conteneva, in due frasi, un “attacco abusivo al profeta dell’Islam in conseguenza del quale i credenti avrebbero potuto sentirsi oggetto di attacchi ingiustificati e offensivi”10. In tale occasione, pertanto, le misure restrittive della libertà dell’editore adottate dalla Turchia non si riteneva che violassero il limite della discrezionalità concesso allo Stato, ed anzi la Corte riteneva che i provvedimenti dell’autorità turca – motivati da una pressante necessità sociale – fossero intesi a fornire protezione contro attacchi offensivi su materie reputate sacre dai musulmani.
Ugualmente in Mouvement Raëlien Suisse V. Switzerland11 la Gran Chamber della Corte ritenne non esservi stata violazione dell’art. 10 della Convenzione da parte delle autorità svizzere nel proibire una campagna pubblicitaria con affissione di manifesti a opera dei seguaci del movimento raeliano, poiché aventi l’indicazione di un sito web con contenuti che sponsorizzavano la clonazione e altri riferimenti o suggestioni che avrebbero potuto indurre i visitatori a commettere abusi su bambini.
Nel caso lituano colpisce, di converso, come non sia stata presa in considerazione la concreta portata di ingiuria e di offesa contenuta nelle immagini pubblicitarie laddove in esse i soggetti sono raffigurati facendo ricorso a dettagli attinti dalla tradizione cristiana, estrapolati dal loro significato, e rivestiti di una tendenza satirica e irrisoria: in particolare, la corona di spine intrecciata che viene raffigurata sul capo di Maria e di Gesù non è, nella tradizione religiosa cristiana, un accessorio di glamour ma uno strumento di tortura impiegato durante la passione del Cristo prima della crocifissione. Ugualmente l’impiego dei tatuaggi aventi a oggetto la croce e un cuore trafitto da una spada irride, quanto meno, al simbolo sacro – per definizione – dei cristiani e alla devozione al Cuore Immacolato della Vergine Maria.
In conclusione si ritiene che laddove vi siano da bilanciarsi la libertà di espressione, nella sua forma della satira o di messaggio promozionale a fini commerciali, con la sensibilità e il sentimento religioso dei fedeli, sia quest’ultimo il bene primario a dover essere oggetto di tutela da parte dell’ordinamento giudiziario nazionale e internazionale. Rispetto all’impostazione della sentenza dello scorso 30 gennaio, è preferibile, allora, la posizione manifestata in occasione di I. A. v. Turkey, proprio perché un limite fondamentale all’esercizio della libertà di espressione è la tutela dei diritti degli altri consociati, al fine di una conservazione della pacifica convivenza tra i gruppi, evitando discorsi che favoriscano contrapposizioni e discriminazioni. In caso contrario, attraverso uno strano corto circuito logico-giuridico, a essere maggiormente tutelati nel proprio sentimento religioso saranno coloro che più violentemente reagiscono quando sono fatti oggetto di offesa, lasciando orfani di tutela coloro che non rispondono con la violenza alle offese di cui sono fatti oggetto. Insomma, sarebbe un mettere il diritto al servizio del più forte.
_________________
1 Otto-Preminger-Institut v. Austria, no. 13470/87, 20-09-1994, §50.
2 Wingrove v. The United Kingdom, no. 17419/90, 25-11-1996
3 Il cortometraggio era diretto da Nigel Wingrove che, negli anni successivi, sviluppò una vera e propria “ossessione” per tale genere di pellicole, realizzando la collana Satanic Sluts, e mescolando in maniera sistematica l’osceno con il blasfemo.
4 Ibid., § 58.
5 Ibidem.
6 Handyside v. The United Kingdom, no. 5493/72, 7-12-1976. La vicenda si svolse nella primavera del 1971 quando il ricorrente Richard Handyside, proprietario della casa editrice Stage 1 di Londra, era già culturalmente e politicamente schierato con la pubblicazione di titoli come Socialism and Man in Cuba di Ernesto Che Guevara (1928-1967), Major Speeches di Fidel Castro (1926-2016), Revolution in Guinea di Amilcar Cabral (1924-1973). Non stupisce, a dire il vero, che il libro – destinato, nelle intenzioni dell’editore, ad essere distribuito in special modo a giovani a partire dai 12 anni – sia stato colpito da censura, se si prende in considerazione che i molestatori di bambini, i «child molesters», vengono candidamente presentati come «man who have nobody to sleep with» (S. Hansen, J. Hansen, The Little Red Schoolbook, Pocket Books, New York, 1971, pp. 135-136).
7 Wingrove v. The United Kingdom, no. 17419/90, 25-11-1996, n. 58.
8 Ibidem.
9 I. A. v. Turkey, no. 42571/98, 13-09-2005.
10 Ibid., §29.
11 Mouvement Raëlien Suisse v. Switzerland, no. 16354/06, 13-07-2012.
domenica 4 febbraio 2018
Lettera dal fronte: La libertà d’espressione e il “dovere di lasciarsi offendere” (prima parte)
Il
30 gennaio scorso la IV sezione della Corte Europea dei diritti umani
ha ritenuto che le autorità amministrative lituane abbiano violato
la libertà d’espressione dell’azienda nazionale Sekmadienis Ltd.
applicandole una sanzione pecuniaria di 580€ per aver affisso nella
città di Vilnius nell’autunno 2012 manifesti pubblicitari
contenenti le immagini realizzate dal signor Robert Kalinkin, che
raffigurano Gesù e Maria in pose lascive e ammiccanti1.
La multa era stata irrogata dall'Autorità nazionale per la difesa dei diritti dei consumatori, che aveva ricevuto segnalazioni telefoniche nelle quali i cittadini lamentavano che la pubblicità era immorale e offensiva per le persone religiose. L’Autorità si rivolgeva allora all'Agenzia lituana sulla pubblicità – un organismo di autoregolamentazione composto da specialisti in tema di annunci pubblicitari – che forniva un parere nel quale riteneva che gli annunci violassero i principi generali, l’art. 1 e l’art. 13 del Codice etico in materia di pubblicità e affermava che “la pubblicità può portare all'insoddisfazione delle persone religiose. [Gli annunci pubblicitari potrebbero essere visti come] umilianti e degradanti nei confronti delle persone, a causa della loro fede, convinzioni o opinioni. Le persone religiose reagiscono sempre in modo molto sensibile a qualsiasi uso di simboli religiosi o personalità religiose nella pubblicità, quindi suggeriamo di evitare la possibilità di offendere la loro dignità”2. L’Agenzia suggeriva anche, saggiamente, “di trovare altri personaggi per comunicare l'unicità del prodotto”3.
L’azienda si difendeva sostenendo che nelle pubblicità il nome di Gesù non era utilizzato come riferimento a una personalità religiosa ma, piuttosto, come un’“interiezione emozionale”, di uso comune nel linguaggio lituano, per creare un effetto comico. La difesa proseguiva ancora affermando che le persone ritratte all’interno della campagna pubblicitaria per la collezione primavera-estate 2013 non potevano essere considerate come somiglianti in modo univoco a figure religiose e che se anche lo fossero state, tale raffigurazione era da considerarsi esteticamente piacevole e non irrispettosa, a differenza di vari articoli religiosi kitsch e di bassa qualità tipicamente venduti nei mercati.
Difficile ritenere, tuttavia, che la figura femminile rappresentata sugli annunci pubblicitari non fosse allusiva alla Vergine Maria giacché era ritratta con un’aureola, una corona di spine, due orecchini a forma di croce, un tatuaggio con la parola mother sull’avambraccio sinistro, un tatuaggio ritraente un cuore umano trafitto da una spada sul braccio destro – richiamo alla raffigurazione della devozione al Cuore Immacolato? – e nella posa di fare scorrere fra le dita un rosario. A completare il quadro la scritta “Madre di Dio, che vestito!”4. Così come praticamente impossibile non cogliere un evidente riferimento a Gesù nella seconda figura maschile, laddove questa è raffigurata con un’aureola, capelli lunghi e barba, una corona di spine sul capo, due tatuaggi di un intreccio di filo spinato sulle braccia nonché due croci rovesciate sugli avambracci. Il tutto arricchito dal sottotitolo “Gesù, che jeans!”. Anche la terza immagine che raffigura i due soggetti insieme richiama alla mente il tradizionale soggetto artistico cristiano delle “pietà”, nella quale Maria custodisce il corpo del Figlio senza vita. Il sottotitolo, a fugare ogni dubbio: “Gesù, Maria! Che stile!”.
E, in effetti, i giudici europei hanno riconosciuto che “tutti gli elementi visivi degli annunci pubblicitari insieme considerati creano un’inconfondibile somiglianza tra le persone rappresentate in esse e le figure religiose” (§75), mentre l’azienda ricorrente non tentava ulteriormente di negare, di fronte ai giudici di Strasburgo, il richiamo religioso delle immagini utilizzate.
La Corte riconosce in via generale, ispirandosi ai propri precedenti, che se in ambito politico e in questioni che riguardano l’interesse pubblico i limiti alla libertà d’espressione costituiscono un’eccezione, una più ampia discrezionalità – nota come margine di apprezzamento – è riconosciuta ai singoli Stati quando questi regolamentano la libertà di espressione in relazione a episodi che possono offendere intime convinzioni personali nella sfera della morale o, in particolare, della religione (§73); tale discrezionalità è ulteriormente ampliata dalla circostanza che l’utilizzo delle immagini religiose aveva, nel caso specifico, la finalità di pubblicizzare una linea di abbigliamento e non era destinato a contribuire a un qualsivoglia dibattito pubblico riguardante la religione né una qualsiasi altra questione di interesse generale (§76). I giudici ricordano, inoltre, che l’esercizio della libertà di espressione porta con sé doveri e responsabilità e, tra questi, nel contesto dei credi e dei convincimenti religiosi, vi è sicuramente il requisito di garantire ai believers il pacifico godimento dei diritti riconosciuti ai sensi dell’art. 9 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (che tutela la libertà di pensiero, coscienza e religione), incluso il dovere di evitare per quanto possibile un’espressione che sia gratuitamente offensiva verso gli altri e irriverente, con riferimento a ciò che è oggetto di venerazione (§74).
Tuttavia, nel proseguo della motivazione, dopo aver affermato di non ritenere che le immagini fossero gratuitamente offensive o irrispettose (§78), i giudici lituani sono censurati per non aver fornito sufficienti e rilevanti argomentazioni per giudicare le immagini contrarie alla morale pubblica (§79): i giudici europei ritengono infatti che le autorità lituane non abbiano dimostrato in che modo l’utilizzo delle immagini sacre nel caso specifico sia stato offensivo (ibidem). Parimenti, i giudici lituani non avrebbero fornito una motivazione convincente circa il fatto che l’utilizzo dei nomi di Gesù e di Maria nelle pubblicità costituisse un riferimento religioso e non semplicemente un’interiezione emotiva di uso comune in Lituania, né avrebbero dimostrato in che modo gli annunci proponevano uno stile di vita incompatibile con i principi di una persona religiosa.
La Corte insiste nel ribadire che non ha motivo di dubitare del fatto che il centinaio di persone che hanno denunciato la pubblicità debbano essere state effettivamente offese e, tuttavia, “la libertà di espressione si estende anche alle idee che offendono, scioccano o disturbano i consociati” (§81), dal momento che “in una società democratica pluralista coloro che scelgono di esercitare la libertà di manifestare la propria religione non possono ragionevolmente aspettarsi di essere esenti da ogni critica. Essi devono tollerare e accettare la negazione dei propri convincimenti religiosi da parte di altre persone” (ibidem). La perifrasi, sciolta in parole semplici, sta a significare che chi decide di credere, deve essere disposto a essere offeso, scioccato e disturbato dalla libertà d’espressione altrui. In tutto ciò i giudici della la Sez. IV della Corte EDU sembrano, tuttavia, dimenticare che i limiti all’esercizio della libertà d’espressione, previsti all’art. 10 §2 della Convenzione europea, sono ben più ampi di quelli contemplati dall’art. 9 §2, relativo alle limitazioni della libertà di pensiero, coscienza e religione5. Il richiamo generico al principio, consolidato nella giurisprudenza europea, secondo cui la libertà di espressione “copre” anche la manifestazione di idee che offendono, lascia piuttosto perplessi; infatti, un conto è un’offesa quale conseguenza di una manifestazione di un dissenso, di una critica, di un’alternativa culturale, un conto è un’offesa quale conseguenza di un messaggio pubblicitario che persegue una mera finalità di promozione commerciale. Pare a chi scrive che trattare allo stesso modo le due situazioni non sia soluzione giuridicamente convincente, poiché nel secondo caso si finisce non per difendere un’idea, quanto piuttosto un interesse meramente commerciale che certamente è meritevole di rispetto, ma non alla stregua del diritto di libertà religiosa, che è espressione diretta della dignità della persona.
Con riferimento alla maggioranza cattolica della popolazione lituana – circostanza presentata dal governo lituano e suffragata dall’ultimo censimento del 2011 dal quale emergeva che il 77% dei residenti nel paese si era dichiarato cattolico – i giudici affermano, invece, che non può darsi per assunto il fatto che chiunque si sia dichiarato appartenente alla fede cristiana abbia trovato offensivi gli annunci pubblicitari. Non di meno, prosegue Strasburgo, anche supponendo che la maggioranza della popolazione lituana abbia effettivamente trovato offensivi gli annunci pubblicitari, sarebbe incompatibile con i valori soggiacenti della Convenzione europei dei diritti dell’uomo se l’esercizio dei diritti da parte di un gruppo di minoranza (in questo caso l’azienda) fosse subordinato al suo essere accettato dalla maggioranza (la popolazione lituana cattolica). Se così fosse i diritti di un gruppo di minoranza diventerebbero semplicemente teorizzati, ma non effettivi (§82). In questo ragionamento, tuttavia, i giudici dimostrano di scegliere tra due minoranze quale sia quella degna di ricevere maggiore tutela: tra l’effettiva minoranza di cittadini lituani che hanno ritenuto offensiva la pubblicità (il centinaio di persone che se ne è lamentata) e l’ancora più esigua minoranza di coloro che l’hanno proposta (l’azienda), solo quest’ultima viene tutelata nella propria libertà d’espressione, rectius di marketing senza remore.
Proprio in tale direzione muove anche la puntuale dichiarazione del Presidente della Conferenza Episcopale Lituana, l’Arcivescovo di Vilnius Gintaras Grušas, che ha dichiarato come “nell'equiparare gli interessi commerciali con la libertà di espressione, la decisione della Corte apre pericolosamente la strada a coloro che cercano di raggiungere i propri obiettivi commerciali per trarre profitto attaccando i sentimenti religiosi dei fedeli e profanando la loro religione”6. È, infatti, “difficile definire una società libera e responsabile, se non rispetta le credenze religiose degli altri, indipendentemente dalla religione che confessano, specialmente quando queste credenze vengono sfruttate a fini di lucro, causando allo stesso tempo la divisione tra i membri di una società deprecando i simboli religiosi che sono importanti per i credenti”7.
La multa era stata irrogata dall'Autorità nazionale per la difesa dei diritti dei consumatori, che aveva ricevuto segnalazioni telefoniche nelle quali i cittadini lamentavano che la pubblicità era immorale e offensiva per le persone religiose. L’Autorità si rivolgeva allora all'Agenzia lituana sulla pubblicità – un organismo di autoregolamentazione composto da specialisti in tema di annunci pubblicitari – che forniva un parere nel quale riteneva che gli annunci violassero i principi generali, l’art. 1 e l’art. 13 del Codice etico in materia di pubblicità e affermava che “la pubblicità può portare all'insoddisfazione delle persone religiose. [Gli annunci pubblicitari potrebbero essere visti come] umilianti e degradanti nei confronti delle persone, a causa della loro fede, convinzioni o opinioni. Le persone religiose reagiscono sempre in modo molto sensibile a qualsiasi uso di simboli religiosi o personalità religiose nella pubblicità, quindi suggeriamo di evitare la possibilità di offendere la loro dignità”2. L’Agenzia suggeriva anche, saggiamente, “di trovare altri personaggi per comunicare l'unicità del prodotto”3.
L’azienda si difendeva sostenendo che nelle pubblicità il nome di Gesù non era utilizzato come riferimento a una personalità religiosa ma, piuttosto, come un’“interiezione emozionale”, di uso comune nel linguaggio lituano, per creare un effetto comico. La difesa proseguiva ancora affermando che le persone ritratte all’interno della campagna pubblicitaria per la collezione primavera-estate 2013 non potevano essere considerate come somiglianti in modo univoco a figure religiose e che se anche lo fossero state, tale raffigurazione era da considerarsi esteticamente piacevole e non irrispettosa, a differenza di vari articoli religiosi kitsch e di bassa qualità tipicamente venduti nei mercati.
Difficile ritenere, tuttavia, che la figura femminile rappresentata sugli annunci pubblicitari non fosse allusiva alla Vergine Maria giacché era ritratta con un’aureola, una corona di spine, due orecchini a forma di croce, un tatuaggio con la parola mother sull’avambraccio sinistro, un tatuaggio ritraente un cuore umano trafitto da una spada sul braccio destro – richiamo alla raffigurazione della devozione al Cuore Immacolato? – e nella posa di fare scorrere fra le dita un rosario. A completare il quadro la scritta “Madre di Dio, che vestito!”4. Così come praticamente impossibile non cogliere un evidente riferimento a Gesù nella seconda figura maschile, laddove questa è raffigurata con un’aureola, capelli lunghi e barba, una corona di spine sul capo, due tatuaggi di un intreccio di filo spinato sulle braccia nonché due croci rovesciate sugli avambracci. Il tutto arricchito dal sottotitolo “Gesù, che jeans!”. Anche la terza immagine che raffigura i due soggetti insieme richiama alla mente il tradizionale soggetto artistico cristiano delle “pietà”, nella quale Maria custodisce il corpo del Figlio senza vita. Il sottotitolo, a fugare ogni dubbio: “Gesù, Maria! Che stile!”.
E, in effetti, i giudici europei hanno riconosciuto che “tutti gli elementi visivi degli annunci pubblicitari insieme considerati creano un’inconfondibile somiglianza tra le persone rappresentate in esse e le figure religiose” (§75), mentre l’azienda ricorrente non tentava ulteriormente di negare, di fronte ai giudici di Strasburgo, il richiamo religioso delle immagini utilizzate.
La Corte riconosce in via generale, ispirandosi ai propri precedenti, che se in ambito politico e in questioni che riguardano l’interesse pubblico i limiti alla libertà d’espressione costituiscono un’eccezione, una più ampia discrezionalità – nota come margine di apprezzamento – è riconosciuta ai singoli Stati quando questi regolamentano la libertà di espressione in relazione a episodi che possono offendere intime convinzioni personali nella sfera della morale o, in particolare, della religione (§73); tale discrezionalità è ulteriormente ampliata dalla circostanza che l’utilizzo delle immagini religiose aveva, nel caso specifico, la finalità di pubblicizzare una linea di abbigliamento e non era destinato a contribuire a un qualsivoglia dibattito pubblico riguardante la religione né una qualsiasi altra questione di interesse generale (§76). I giudici ricordano, inoltre, che l’esercizio della libertà di espressione porta con sé doveri e responsabilità e, tra questi, nel contesto dei credi e dei convincimenti religiosi, vi è sicuramente il requisito di garantire ai believers il pacifico godimento dei diritti riconosciuti ai sensi dell’art. 9 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (che tutela la libertà di pensiero, coscienza e religione), incluso il dovere di evitare per quanto possibile un’espressione che sia gratuitamente offensiva verso gli altri e irriverente, con riferimento a ciò che è oggetto di venerazione (§74).
Tuttavia, nel proseguo della motivazione, dopo aver affermato di non ritenere che le immagini fossero gratuitamente offensive o irrispettose (§78), i giudici lituani sono censurati per non aver fornito sufficienti e rilevanti argomentazioni per giudicare le immagini contrarie alla morale pubblica (§79): i giudici europei ritengono infatti che le autorità lituane non abbiano dimostrato in che modo l’utilizzo delle immagini sacre nel caso specifico sia stato offensivo (ibidem). Parimenti, i giudici lituani non avrebbero fornito una motivazione convincente circa il fatto che l’utilizzo dei nomi di Gesù e di Maria nelle pubblicità costituisse un riferimento religioso e non semplicemente un’interiezione emotiva di uso comune in Lituania, né avrebbero dimostrato in che modo gli annunci proponevano uno stile di vita incompatibile con i principi di una persona religiosa.
La Corte insiste nel ribadire che non ha motivo di dubitare del fatto che il centinaio di persone che hanno denunciato la pubblicità debbano essere state effettivamente offese e, tuttavia, “la libertà di espressione si estende anche alle idee che offendono, scioccano o disturbano i consociati” (§81), dal momento che “in una società democratica pluralista coloro che scelgono di esercitare la libertà di manifestare la propria religione non possono ragionevolmente aspettarsi di essere esenti da ogni critica. Essi devono tollerare e accettare la negazione dei propri convincimenti religiosi da parte di altre persone” (ibidem). La perifrasi, sciolta in parole semplici, sta a significare che chi decide di credere, deve essere disposto a essere offeso, scioccato e disturbato dalla libertà d’espressione altrui. In tutto ciò i giudici della la Sez. IV della Corte EDU sembrano, tuttavia, dimenticare che i limiti all’esercizio della libertà d’espressione, previsti all’art. 10 §2 della Convenzione europea, sono ben più ampi di quelli contemplati dall’art. 9 §2, relativo alle limitazioni della libertà di pensiero, coscienza e religione5. Il richiamo generico al principio, consolidato nella giurisprudenza europea, secondo cui la libertà di espressione “copre” anche la manifestazione di idee che offendono, lascia piuttosto perplessi; infatti, un conto è un’offesa quale conseguenza di una manifestazione di un dissenso, di una critica, di un’alternativa culturale, un conto è un’offesa quale conseguenza di un messaggio pubblicitario che persegue una mera finalità di promozione commerciale. Pare a chi scrive che trattare allo stesso modo le due situazioni non sia soluzione giuridicamente convincente, poiché nel secondo caso si finisce non per difendere un’idea, quanto piuttosto un interesse meramente commerciale che certamente è meritevole di rispetto, ma non alla stregua del diritto di libertà religiosa, che è espressione diretta della dignità della persona.
Con riferimento alla maggioranza cattolica della popolazione lituana – circostanza presentata dal governo lituano e suffragata dall’ultimo censimento del 2011 dal quale emergeva che il 77% dei residenti nel paese si era dichiarato cattolico – i giudici affermano, invece, che non può darsi per assunto il fatto che chiunque si sia dichiarato appartenente alla fede cristiana abbia trovato offensivi gli annunci pubblicitari. Non di meno, prosegue Strasburgo, anche supponendo che la maggioranza della popolazione lituana abbia effettivamente trovato offensivi gli annunci pubblicitari, sarebbe incompatibile con i valori soggiacenti della Convenzione europei dei diritti dell’uomo se l’esercizio dei diritti da parte di un gruppo di minoranza (in questo caso l’azienda) fosse subordinato al suo essere accettato dalla maggioranza (la popolazione lituana cattolica). Se così fosse i diritti di un gruppo di minoranza diventerebbero semplicemente teorizzati, ma non effettivi (§82). In questo ragionamento, tuttavia, i giudici dimostrano di scegliere tra due minoranze quale sia quella degna di ricevere maggiore tutela: tra l’effettiva minoranza di cittadini lituani che hanno ritenuto offensiva la pubblicità (il centinaio di persone che se ne è lamentata) e l’ancora più esigua minoranza di coloro che l’hanno proposta (l’azienda), solo quest’ultima viene tutelata nella propria libertà d’espressione, rectius di marketing senza remore.
Proprio in tale direzione muove anche la puntuale dichiarazione del Presidente della Conferenza Episcopale Lituana, l’Arcivescovo di Vilnius Gintaras Grušas, che ha dichiarato come “nell'equiparare gli interessi commerciali con la libertà di espressione, la decisione della Corte apre pericolosamente la strada a coloro che cercano di raggiungere i propri obiettivi commerciali per trarre profitto attaccando i sentimenti religiosi dei fedeli e profanando la loro religione”6. È, infatti, “difficile definire una società libera e responsabile, se non rispetta le credenze religiose degli altri, indipendentemente dalla religione che confessano, specialmente quando queste credenze vengono sfruttate a fini di lucro, causando allo stesso tempo la divisione tra i membri di una società deprecando i simboli religiosi che sono importanti per i credenti”7.
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1 Sekmadienis Ltd. v. Lithuania, no. 69317/14, 30-01-2018. La sentenza è stata emessa dai giudici Ganna Yudkivska (Ucraina), Vincent A. De Gaetano (Malta), Faris Vehabović (Bosnia-Erzegovina), Egidijus Kūris (Lituania), Carlo Ranzoni (Liechtenstein), Georges Ravarani (Lussemburgo), Péter Paczolay (Ungheria). La multa, irrogata dall’Autorità nazionale per la difesa dei diritti dei consumatori, fu confermata dal Tribunale Amministrativo di Vilnius e dalla Corte Suprema Amministrativa della Lituania.
2 Ibid.,§11.
3 Ibidem.
4 Le immagini sono facilmente reperibili, ad esempio tramite il portale https://www.adsoftheworld.com (collegamento visitato il 3-2-2018), con i sottotitoli pubblicitari resi in lingua inglese.
5 In particolare la limitazione della libertà di pensiero, coscienza e religione prevista dalla Convenzione europea deve, per considerarsi legittima, essere «prescribed by law» e «necessary in a democratic society», nonché essere finalizzata alla tutela di: «interest of public safety», «protection of public order», «protection of healt or morals» e «protection of the rights and freedom of others». Più ampio, invece, il ventaglio di possibilità per circoscrivere la libertà d’espressione, per la quale la limitazione legittima deve essere pur sempre «prescribed by law» e «necessary in a democratic society» ma con un elenco di finalità notevolmente più esteso: «interests of national security», «interest of territorial integrity», «interest of public safety», «prevention of disorder or crime», «protection of health or morals», «protection of the reputation of others», «protection of rights of others», «prevention of the disclosure of information received in confidence», «maintenance of the authority and impartiality of the judiciary».
6 Statement of Archbishop Gintaras Grušas, President of the Lithuanian Bishop’s Conference, regarding the decision by the European Court of Human Rights in the case Sekmadienis Ltd. v. Lithuania, 1-02-2018. La dichiarazione è reperibile sul sito web della Conferenza Episcopale Lituana, http://lvk.lcn.lt/en/naujienos/,295 (collegamento visitato il 4-02-2018).
7 Ibidem.
1 Sekmadienis Ltd. v. Lithuania, no. 69317/14, 30-01-2018. La sentenza è stata emessa dai giudici Ganna Yudkivska (Ucraina), Vincent A. De Gaetano (Malta), Faris Vehabović (Bosnia-Erzegovina), Egidijus Kūris (Lituania), Carlo Ranzoni (Liechtenstein), Georges Ravarani (Lussemburgo), Péter Paczolay (Ungheria). La multa, irrogata dall’Autorità nazionale per la difesa dei diritti dei consumatori, fu confermata dal Tribunale Amministrativo di Vilnius e dalla Corte Suprema Amministrativa della Lituania.
2 Ibid.,§11.
3 Ibidem.
4 Le immagini sono facilmente reperibili, ad esempio tramite il portale https://www.adsoftheworld.com (collegamento visitato il 3-2-2018), con i sottotitoli pubblicitari resi in lingua inglese.
5 In particolare la limitazione della libertà di pensiero, coscienza e religione prevista dalla Convenzione europea deve, per considerarsi legittima, essere «prescribed by law» e «necessary in a democratic society», nonché essere finalizzata alla tutela di: «interest of public safety», «protection of public order», «protection of healt or morals» e «protection of the rights and freedom of others». Più ampio, invece, il ventaglio di possibilità per circoscrivere la libertà d’espressione, per la quale la limitazione legittima deve essere pur sempre «prescribed by law» e «necessary in a democratic society» ma con un elenco di finalità notevolmente più esteso: «interests of national security», «interest of territorial integrity», «interest of public safety», «prevention of disorder or crime», «protection of health or morals», «protection of the reputation of others», «protection of rights of others», «prevention of the disclosure of information received in confidence», «maintenance of the authority and impartiality of the judiciary».
6 Statement of Archbishop Gintaras Grušas, President of the Lithuanian Bishop’s Conference, regarding the decision by the European Court of Human Rights in the case Sekmadienis Ltd. v. Lithuania, 1-02-2018. La dichiarazione è reperibile sul sito web della Conferenza Episcopale Lituana, http://lvk.lcn.lt/en/naujienos/,295 (collegamento visitato il 4-02-2018).
7 Ibidem.
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