Ben più equilibrato era stato l’orientamento seguito dalla Corte in precedenti pronunce, che pure sono richiamate nella sentenza del 30 gennaio. In Otto-Preminger-Institut v. Austria, in occasione della confisca della pellicola irreligiosa Das Liebeskonzil era stata riconosciuta la reale difficoltà di pervenire a una comprensione uniforme dei concetti di “morals” e di “religion” all’interno della società, insieme all’impossibilità di pervenire a una “definizione esauriente di ciò che costituisce un’intromissione lecita nell’esercizio del diritto di libertà di espressione, laddove l’espressione sia rivolta direttamente contro il sentimento religioso altrui”1. Conseguentemente veniva rimesso alle autorità nazionali, ritenute essere in una posizione migliore rispetto al giudice internazionale, il compito di valutare la necessità della misura limitativa della libertà d’espressione.
Anche nel caso Wingrove v. The United Kingdom2 – incentrato sulla presunta violazione della libertà di espressione, a causa della censura, da parte della British Board of Film Classification (BBFC), di un cortometraggio pornografico e blasfemo su santa Teresa d’Avila3 – la Corte precisava che mentre vi sono poche possibilità, in virtù dell’art. 10 § 2 della Convezione, di imporre restrizioni a discorsi inerenti tematiche politiche o dibattiti relativi a questioni di interesse pubblico, «un margine di apprezzamento più ampio è generalmente riconosciuto agli Stati contraenti quando regolano la libertà di espressione in relazione a contenuti idonei a offendere le più intime convinzioni personali nella sfera della morale o, in particolar modo, della religione»4. I giudici proseguivano allora nell’affermare che in occasione di attacchi contro le convinzioni religiose di una parte dei consociati, in misura almeno simile se non superiore a quanto avveniva per il concetto di “morals”, non vi era una comprensione uniforme dei requisiti necessari per la protezione dei diritti altrui poiché “ciò che è presumibile costituire un’offesa grave per una persona di una particolare convinzione religiosa può variare, anche in maniera significativa, a seconda dei tempi e dei luoghi, soprattutto in un’epoca caratterizzata da una sempre maggiore varietà di fedi e denominazioni”5. In quell’occasione la Corte perveniva prudentemente alla conclusione esposta già vent’anni prima nella sentenza Handyside v. The United Kingdom6 originata dal sequestro e dalla distruzione delle copie di un libro giudicato osceno ai sensi dell’Obscene Publications Act del 1964, rimettendo alle autorità statali, che “in ragione del loro contatto diretto e continuo con le forze vitali dei loro paesi sono in linea di principio in una posizione migliore rispetto al giudice internazionale”7, il compito di inquadrare la portata esatta e le implicazioni dei provvedimenti “finalizzati a proteggere coloro i cui intimi sentimenti e le cui convinzioni più profonde potrebbero venirne gravemente offesi”8.
L’approccio dei giudici di Strasburgo seguito nella recente sentenza del 30 gennaio in favore della libertà di espressione figurativa, o meglio della pubblicità commerciale, pare sintomo di una giurisprudenza oscillante e mutevole che certamente non consolida, anzi indebolisce una tutela uniforme dei diritti umani, considerate anche le ricadute che la giurisprudenza della Corte EDU ha nelle corti nazionali.
Nel caso I. A. v. Turkey9, per esempio, nei confronti del ricorrente condannato a due anni di carcere dalle autorità turche – con condanna poi commutata in multa – per aver pubblicato il racconto scritto da Abdullah Rıza Ergüven dal titolo “Yasak Tümceler” la Corte EDU non riconosceva alcuna licenza letteraria, considerando che il racconto conteneva, in due frasi, un “attacco abusivo al profeta dell’Islam in conseguenza del quale i credenti avrebbero potuto sentirsi oggetto di attacchi ingiustificati e offensivi”10. In tale occasione, pertanto, le misure restrittive della libertà dell’editore adottate dalla Turchia non si riteneva che violassero il limite della discrezionalità concesso allo Stato, ed anzi la Corte riteneva che i provvedimenti dell’autorità turca – motivati da una pressante necessità sociale – fossero intesi a fornire protezione contro attacchi offensivi su materie reputate sacre dai musulmani.
Ugualmente in Mouvement Raëlien Suisse V. Switzerland11 la Gran Chamber della Corte ritenne non esservi stata violazione dell’art. 10 della Convenzione da parte delle autorità svizzere nel proibire una campagna pubblicitaria con affissione di manifesti a opera dei seguaci del movimento raeliano, poiché aventi l’indicazione di un sito web con contenuti che sponsorizzavano la clonazione e altri riferimenti o suggestioni che avrebbero potuto indurre i visitatori a commettere abusi su bambini.
Nel caso lituano colpisce, di converso, come non sia stata presa in considerazione la concreta portata di ingiuria e di offesa contenuta nelle immagini pubblicitarie laddove in esse i soggetti sono raffigurati facendo ricorso a dettagli attinti dalla tradizione cristiana, estrapolati dal loro significato, e rivestiti di una tendenza satirica e irrisoria: in particolare, la corona di spine intrecciata che viene raffigurata sul capo di Maria e di Gesù non è, nella tradizione religiosa cristiana, un accessorio di glamour ma uno strumento di tortura impiegato durante la passione del Cristo prima della crocifissione. Ugualmente l’impiego dei tatuaggi aventi a oggetto la croce e un cuore trafitto da una spada irride, quanto meno, al simbolo sacro – per definizione – dei cristiani e alla devozione al Cuore Immacolato della Vergine Maria.
In conclusione si ritiene che laddove vi siano da bilanciarsi la libertà di espressione, nella sua forma della satira o di messaggio promozionale a fini commerciali, con la sensibilità e il sentimento religioso dei fedeli, sia quest’ultimo il bene primario a dover essere oggetto di tutela da parte dell’ordinamento giudiziario nazionale e internazionale. Rispetto all’impostazione della sentenza dello scorso 30 gennaio, è preferibile, allora, la posizione manifestata in occasione di I. A. v. Turkey, proprio perché un limite fondamentale all’esercizio della libertà di espressione è la tutela dei diritti degli altri consociati, al fine di una conservazione della pacifica convivenza tra i gruppi, evitando discorsi che favoriscano contrapposizioni e discriminazioni. In caso contrario, attraverso uno strano corto circuito logico-giuridico, a essere maggiormente tutelati nel proprio sentimento religioso saranno coloro che più violentemente reagiscono quando sono fatti oggetto di offesa, lasciando orfani di tutela coloro che non rispondono con la violenza alle offese di cui sono fatti oggetto. Insomma, sarebbe un mettere il diritto al servizio del più forte.
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1 Otto-Preminger-Institut v. Austria, no. 13470/87, 20-09-1994, §50.
2 Wingrove v. The United Kingdom, no. 17419/90, 25-11-1996
3 Il cortometraggio era diretto da Nigel Wingrove che, negli anni successivi, sviluppò una vera e propria “ossessione” per tale genere di pellicole, realizzando la collana Satanic Sluts, e mescolando in maniera sistematica l’osceno con il blasfemo.
4 Ibid., § 58.
5 Ibidem.
6 Handyside v. The United Kingdom, no. 5493/72, 7-12-1976. La vicenda si svolse nella primavera del 1971 quando il ricorrente Richard Handyside, proprietario della casa editrice Stage 1 di Londra, era già culturalmente e politicamente schierato con la pubblicazione di titoli come Socialism and Man in Cuba di Ernesto Che Guevara (1928-1967), Major Speeches di Fidel Castro (1926-2016), Revolution in Guinea di Amilcar Cabral (1924-1973). Non stupisce, a dire il vero, che il libro – destinato, nelle intenzioni dell’editore, ad essere distribuito in special modo a giovani a partire dai 12 anni – sia stato colpito da censura, se si prende in considerazione che i molestatori di bambini, i «child molesters», vengono candidamente presentati come «man who have nobody to sleep with» (S. Hansen, J. Hansen, The Little Red Schoolbook, Pocket Books, New York, 1971, pp. 135-136).
7 Wingrove v. The United Kingdom, no. 17419/90, 25-11-1996, n. 58.
8 Ibidem.
9 I. A. v. Turkey, no. 42571/98, 13-09-2005.
10 Ibid., §29.
11 Mouvement Raëlien Suisse v. Switzerland, no. 16354/06, 13-07-2012.
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