sabato 13 gennaio 2018

Salmerìa 2.2018

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Giornale murale: I Te Deum della Baionetta

Ringraziamo di cuore Tempi.it che ha pubblicato i nostri Te Deum. Eccoli di seguito.


Signore a te le mie lodi perché ogni giorno mi rendi un “uomo vivo e un ranocchio felice”

L’anno nuovo offre sempre l’opportunità di rispettare tale gloriosa tradizione e di fare alla Sant’Ignazio un esame generale della propria vita, per meglio scoprire tutte le Grazie cui essere eternamente grati a Dio. Signore così faccio e vedo tutti i doni naturali e soprannaturali con cui Tu hai arricchito i miei 29 anni di vita. Gioie inaspettate e immeritate, dal momento che ho passato molti anni ad aprirti il cuore a intermittenza. Ma sebbene sia stato un balordo birichino, “un ranocchio di peccatore”, a tratti nichilista e libertino, non ho mai perso la certezza della Tua presenza amorevole. Per questo posso dire che non mi sono mai sentito orfano. Percezione divenuta certezza assoluta nel 2007, quando mi hai mostrato ancor più il Tuo amore per me, tramite una compagnia di “strani cristiani”. Strani in quanto stranieri a questa terra. Amici fraterni che con dritte (e ogni tanto qualche ‘dritto’, sano) ed esempio virtuosi sono riusciti a togliermi il giogo pesante della schiavitù mondana, per mettere sulle mie spalle e nelle mie mani simboli di libertà: il manto, la conchiglia e il bastone del pellegrino o homo religiosus-viator. Solo l’uomo che considera il Cielo vera mèta e la terra mero percorso di transito, sarà libero, “vivo” e avrà giorni felici. In questo modo iniziava un decennio ricco di incontri miracolosi e le preghiere di mamma e di nonna – dalla Fede granitica – ricevevano risposte! Di fatti, ho vissuto il 2017 come un anniversario fondamentale.

Perciò Signore ti sono e sarò grato per sempre di tutto il Bene che hai fatto, fai e farai a me e ai miei cari nel 2018, e nel tempo che ci concederai di vivere; soprattutto nel momento del bisogno, quando il peccato ferisce e il diavolo gira attorno come leone affamato.

Signore Ti lodo perché mi hai dato una buona famiglia e una fidanzata, Valentina, con cui posso sperare davvero di edificarne una nuova; per mia zia Rosa che mi ha adottato come figlio; per mio cugino Andrea compagno di giochi, merende e studio; per tutte le volte in cui hai aiutato me a capire che mio padre Sergio mi vuol bene, nonostante le sue difficoltà nel dimostramelo; poiché la mia nonna quando cuce racconta storie e prega sembra una mistica, ogni suo gesto richiama Te: mi fai sentire come Charles Péguy mentre osservava la madre impagliare le sedie.

Signore grazie per esserTi mostrato in Gesù Cristo e nella Santa Chiesa, ove posso incontrarTi nel Santissimo Sacramento; per aver scelto Maria quale madre Tua; per avermi fatto incontrare santi sacerdoti e religiosi/e che credono a tutto ciò e amano la Chiesa la sua storia bimillenaria, la sua dottrina di sempre e il Tuo vicario: il Papa; per avermi fatto conoscere i 10 Comandamenti di don Fabio Rosini e fare gli esercizi di Sant’Ignazio di Loyola, che tanto ordine e serenità hanno portato nella mia vita.

Grazie per avermi fatto incontrare i fratelli delle scuole cristiane, e in particolare fratel Enrico Trisoglio della scuola politica Alcide De Gasperi di Torino, con cui ho scoperto l’importanza della libertas ecclesiae, della libertas educandi e della politica come una delle forme più alte di Carità.

Grazie per aver fatto nascere autorevoli maestri quali Pio Brunone Lanteri, Prosper Guéranger, Chesterton, Tolkien, Guareschi, Lewis, Christopher Dawson, Eugenio Corti, Augusto Del Noce, i cardinali Biffi e Caffarra, don Giussani, don Gianni Baget Bozzo, i quali hanno destato in me la vocazione al giornalismo, all’impegno politico-culturale; per avermi dato buoni insegnamenti alle scuole dell’obbligo e all’università, gli amici dell’Officina, realtà culturale e politica che fece buone battaglie in quella piccola patria che è la Valle di Susa, dell’impresa/famiglia Protopia Team e della pizzeria/casa di Tony, delle associazioni Il Laboratorio-Poesia Attiva-Dialexis-Puzzle, (ambienti pieni di quegli strani cristiani poc’anzi citati), gli amici salesiani, di casa Votta, dei Cursillos di cristianità, della pastorale universitaria Diocesi Torino, di CL, della fraternità San Pio X, delle Sentinelle in Piedi, del Movimento Cristiano Lavoratori, delle parrocchie San Nicola di Borgone Susa, Santa Rita di Torino, San Francesco di Venaria, Oblati di Maria Vergine, del Comitato Sì alla Famiglia, dei CAV Rivoli, Pinerolo, task force 10100, Articolo 26, della Società Tolkieniana,

del Comitato Difendiamo i Nostri Figli, di PDF, dell’Opus Dei, del Comitato Nazarat, di Alleanza Cattolica, delle letture chestertoniane torinesi, della redazione di Vita Diocesana Pinerolese, de IL Foglio, dei blog La Baionetta, Berlicche, i siti Campari e de Maistre e the sparklings, del Centro Studi San Carlo. Membri della compagnia con cui collaboro nella società civile torinese e non, allo scopo di mettere in pratica quanto imparato e per contrastare, in un clima di sana e lieta dissidenza, tutti i poteri forti nemici dell’uomo, e imitando pure quanto San Benedetto fece tra le rovine spirituali e materiali dell’impero romano.

Grazie per esserTi mostrato maggiormente il giorno in cui il mio padrino di cresima partì per il Cielo dopo un incidente, e durante quella “noche escura del alma” che passai tra la partenza di mia madre Angelica per la Tua dimora e la prima messa in suo suffragio officiata da don Francesco Saverio Venuto. Di conseguenza, potei capire che amare tutto, perfino la croce, è l’unico modo per averTi, o fonte inestinguibile di beatitudine, e rivedere loro, che ora dimorano in Te. Non a caso Santa Teresina di Lisieux diceva “Il dolore rende libero colui che ama: più si soffre, più si appartiene a Dio”.

E anche se tornerò spesso ad essere un “ranocchio di peccatore”, non mi turberò, perché la riconoscenza verso Te mi guiderà a non peggiorare le situazioni difficili e in primis a non dimenticare il Tuo sicuro intervento. In tal guisa potrò saltare il male, dirti grazie e tornare felice. Asserisce ancora un altro gigante, il Chesterton: “La misura di ogni felicità è la riconoscenza. Tutte le mie convinzioni sono rappresentate da un indovinello che mi colpì fin da bambino. L’indovinello dice: “Che disse il primo ranocchio”? La risposta è questa: “Signore come mi fai saltare bene”. In succinto c’è tutto quello che sto dicendo io. Dio fa saltare il ranocchio e il ranocchio è contento di saltellare”

Daniele Barale

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Te Deum laudamus perché anche i protagonisti sono degli scritturati

Te Deum laudamus perché, nonostante tutto, la vita dell’uomo, di ogni uomo, è la storia più straordinaria che sia mai stata narrata.

Te Deum laudamus perché sulla scena del mondo tu non manchi mai di schierare umili lavoratori che, nel nascondimento, dipingono fondali che già affacciano sull’infinito. Te Deum laudamus perché in mezzo a vorticosi ed impegnati discorsi, c’è chi sa essere presenza di un silenzio che è spazio di accoglienza. Te Deum laudamus perché la semplicità di tanti sorrisi innocenti si impone dolcemente e decisamente come l’inno più appropriato alla grandezza cui ciascuno aspira.

Te Deum laudamus persino per i tanti che si affaticano e sgomitano, spesso calpestando i fratelli, per essere protagonisti. Sí, Signore, ti lodiamo anche per questi sfrontati attori, perché anche i protagonisti, tutto sommato, sono dei dilettanti in cerca di Autore. Anzi, più uno è protagonista, più si impegna a scrivere storie, più la storia gli presenta un conto che solo un Autore pu saldare. Chi cerca con tenacia il centro della scena, prima o poi sarà costretto a rispondere e corrispondere a Colui che è il centro della storia.

Te Deum laudamus perché anche i protagonisti, alla fine, devono imparare a leggere per poter recitare e devono leggere sempre di più, per saper parlare sempre meglio. Ti lodiamo, Signore, perché chi cerca di arrivare tanto in alto non pu non scontrarsi con la bassezza irrisolvibile, ma solo redimibile, del proprio cuore. Umiliante tornare a leggere per imparare a parlare: Te Deum laudamus perché non hai paura di umiliare ogni nostro protagonismo, perché la nostra banalità non offenda la Tua grandezza riflessa in ogni nostro verbo.

Te Deum laudamus perché una pagina non è mai il libro. Ti lodiamo, Signore, per la brevità delle nostre storie, perché mai ci basteranno; ti lodiamo perché alcune di queste pagine sono vere tragedie, che mai ci illuderanno di essere davvero l’ultima parola. Perché a tutto possiamo arrenderci e asservirci, ma non alla tristezza. E per questo sussulto di gioia inesprimibile e insopprimibile saremo sempre spinti a non fermarci alla tragedia, credendo fermamente nella sproporzione di un dramma più grande di noi, che corre avanti a noi.

Te Deum laudamus perché tutti, grandi e piccoli, ricchi e poveri, siamo solo inchiostro. E l’inchiostro sa, anche quando la sua oscurità lo nasconde, che la sua capacità di scrivere grandi storie dipende dalla docilità a chi lo guida: quando l’inchiostro si ribella alla penna non diventa racconto, ma macchia. Te Deum laudamus perché i nostri occhi, che Tu hai creati per la Bellezza, non accetteranno mai le macchie, ma sempre cercheranno l’opera di un grande Artista.

Te Deum laudamus perché, al principio come alla fine, la storia più bella da vivere è quella ascoltata nella segreta tenerezza dell’abbraccio di un padre che ti racconta la vita.

Te Deum laudamus perché anche i protagonisti sono degli scritturati e nessuno avrà mai nulla da raccontare con la propria vita, senza una grande storia ascoltata dalla bocca dell’Autore di ogni vita.

Don Carlo Pizzocaro

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Te Deum laudamus perchè la vita è un’impresa (e viceversa)

“Il lavoro è l’espressione del nostro essere. Questa coscienza dà veramente respiro all’operaio che per otto ore fatica sul banco di lavoro, come all’imprenditore teso a sviluppare la sua azienda”. L’ho letto decine di volte, questo passaggio di don Luigi Giusssani. Qualche volta, chiamato a dire qualcosa di significativo sul lavoro, faccenda sempre difficile per un giornalista, l’ho pure citato. Quest’anno, però, questa consapevolezza l’ho incontrata nel volto e nella storia di due compagni nell’umanità, uno a due passi da casa mia e l’altro nell’Africa profonda che è la Tanzania, quindi davvero capita. Capita perché vista all’opera. Per questi incontri, quindi, il mio “Te Deum laudamus”.

Partiamo da vicino. Da una zona industriale di uno dei paesi di quel lembo di terra che ha assunto una certa notorietà per l’opposizione un po’ talebana a un treno veloce descritto come la sentina d’ogni male: la Val Susa. Siamo ad Avigliana, in un distretto produttivo ricavato dal recupero, tra gli anni ’80 e i primi del 2000, dell’area che occupavano prima la Nobel poi la Montecatini (ci lavorò, concependoci una parte del celebre “La chiave a stella”, pure Primo Levi). Un recupero non sempre capito e accompagnato da amministratori pubblici infatuati dei miti della decrescita, operano piccole e medie imprese che sono resistenza attiva al declino. In una di queste, che ha recentemente raddoppiato stabilimenti e dipendenti, Giacomo entra per primo ogni mattina. Ha da un po’ superato gli ottanta, ma il lavoro continua a essere impegno quotidiano. L’ho incontrato nell’ambito di una parte del mio lavoro giornalistico, che è il racconto di imprese che vincono la crisi. Della sua storia di immigrato negli anni ’30 dalla montagna bergamasca, che lavora da quando ancora non aveva dieci anni, da lui stessa raccontata in un bel libro di qualche tempo fa, che davvero se ci fosse spazio meriterebbe di finire tutta in pagina, mi ha colpito il passaggio che rivela la tenacia e la passione di chi ha una coscienza profonda del valore del lavoro. A metà del decennio scorso, l’azienda del settore automotive che guida insieme a figlio e nipoti naviga in acque ben poco tranquille e gli esperti consigliavano di non investire oltre su certe intuizioni d’innovazione e chiudere per salvare il patrimonio famigliare, al più si sarebbe potuto mettere marchio e macchinari sul mercato. La sua idea era un’altra e ai sindaci revisori lo disse con un’immagine di una chiarezza esemplare (è una delle prime cose che mi ha raccontato nei nostri colloqui). “Se foste dei contadini, ed aveste acquisito un terreno che avete buoni motivi di considerare fertile e, poi, investito tempo, lavoro, risorse su un terreno. Lo aveste dissodato, curato e quant’altro, ma nonostante tutta la fatica questo non avesse prodotto per un anno, magari anche due. Voi che cosa fareste? Buttereste via tutto, abbandonandolo? Non avreste piuttosto, consapevoli delle prospettive e del vostro lavoro, fatto un ulteriore sforzo, stringendo i tempi (ed anche a cinghia) scommettendoci ancora?”. Con quest’esempio illuminante, Giacomo interruppe l’assemblea dei revisori dei conti che suggerivano di procedere con la liquidazione. L’azienda era quel terreno. Aveva investito in innovazione e ricerca, arrivando alle soglie di nuovi brevetti. Il quadro generale, complice i duri morsi della crisi del settore, era a tinte fosche. Il consiglio di chi si limitava, forse anche comprensibilmente, visto il loro ruolo, ad una fredda analisi dei numeri dei bilanci, era quello di portare i libri in tribunale e procedere alla liquidazione. “Interruppi la riunione. Mi alzai in piedi. Invitai tutti ad uscire, ad abbandonare il consiglio. Mi assunsi la responsabilità di tenere in piedi l’azienda, ricordo che dissi: “l’unico responsabile sono io ed io prenderò la decisione”. Ero convinto che fosse ragionevole la strada che avevamo intrapreso, che questa ci avrebbe condotto fuori da quel difficile, drammatico frangente. Che non eravamo condannati a subire la contingenza”. Questa è la differenza tra l’imprenditore che sa leggere i “segni dei tempi” aprendosi alla prospettiva del futuro, cogliendo – con l’intuizione e la consapevolezza – spazi e prospettive che una fredda impostazione ancorata all’esistente rende incapaci di vedere. “Ebbi ragione. Di lì a poco venne il riconoscimento del nostro brevetto. Si aprì una nuova vita, con la produzione direttamente per il mercato tedesco. Oggi ci fatturiamo milioni all’anno”. Il coraggio ha una ragionevolezza che chi non ha l’ardire di osare prospettive non battute non comprende, ma che può fare e fa la differenza. Il lavoro e l’impresa, questa vicenda lo dimostra e consegna un messaggio di speranza in questa dura crisi che siamo chiamati tutti ad affrontare, hanno come protagonisti gli uomini e le donne che lo affrontano. Non siamo passivi attori di soli meccanismi di calcolo. O meglio, bisogna saper calcolare osando guardare oltre l’ostacolo. Accogliere il sacrificio che questo richiede.

Dall’altra parte del mondo, a settembre, mi sono visto di fronte la stessa decisività dell’impresa. Al seguito di una delegazione del Mcl, ho visto da vicino le opere dell’ong del Movimento: il Cefa.

È stato all’incirca a metà del nostro viaggio che la cosa mi è diventata evidente, mi si è palesata di fronte. Grazie a un incontro, ché è sempre nell’imbattersi con la concreta umanità di un altro che si comprende. A Matembwe, ci ha accolto John Kamonga, una vera guida del villaggio, che sovrintende a processi di cooperazione vera: dall’allevamento dei polli al mangimificio, fino all’elettrificazione. “Studente nero” nella Trento degli anni ’80, esperienza cui deve l’italiano fluente, vive ogni giorno la memoria dell’incontro con il fondatore del Mcl e di Cefa Giovanni Bersani (e della sintesi tra l’ujamaa e il mutualismo cattolico). Nella fedeltà a quello sguardo positivo su di lui, porta avanti “un nuovo stile di cooperazione, che non sia più a senso unico, tra chi aiuta e chi è beneficato. Vogliamo lavorare insieme”. Secondo John, “la sfida è quella di prendere in mano il nostro futuro partendo dal lavoro vero, mettersi insieme per rendere solide e continuative le nostre attività: l’impresa è fare impresa”. Non è uno slogan, ma quello che vedi all’opera in questa porzione di mondo che molti non saprebbero individuare su una cartina.

Non solo lì, in realtà. A Njombe, che della regione è capoluogo, in collaborazione con le coop lattiero-casearie emiliane, in particolare la Granarolo, il Cefa ha impiantato un piccolo caseificio e una latteria, mandando alcuni casari emiliani a insegnare il lavoro. Oggi, l’azienda è in mani totalmente tanzaniane. È stata un’impresa ha dare una concreta attuazione alla profezia del “padre della patria” Julius Nyerere: “Un bicchiere di latte al giorno per ogni bambino”.

Ecco, perché la vita è un’impresa (e viceversa), “Te Deum laudamus”.

Marco Margrita

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Te Deum 2017

Te Deum laudamus… te Deum laudamus… però come è difficile Signore, in questo anno così carico di episodi orribili, di baratri che non immaginavamo si potessero ancora spalancare e fossero così profondi.

Sono successe tante cose Signore, cose in cui più di una volta la tentazione è stata quella di gridare “dove sei, perché permetti che accada tutto questo” e in cui abbiamo dovuto fare i conti con la nostra debolezza.

Come in Inghilterra quando dei giudici decidevano che un bambino non era degno di vivere secondo il loro standard qualitativo e anche quando, di fronte ad una legge disastrosa, non si sono avute sufficienti forze per denunciare che nutrire e idratare una persona malata non è una terapia e nemmeno un accanimento terapeutico e che i medici non sono dei semplici esecutori di altrui volontà, ma persone che si prendono cura di altre persone.

O quando c’è stata tiepidezza nel dire che l’uomo e la donna sono differenti e non è annullando tale differenza e rendendoli “uguali” che si restituisce loro quella pari dignità di cui oggi ormai non parla più nessuno.

O ancora quando si è stati pavidi nell’affermare che uccidere un bambino prima ancora che nasca non è un diritto oltre al fatto che si getta una pietra tombale sul nostro futuro.

Eppure Signore noi ti ringraziamo perché la tua presenza si è ancora una volta rivelata come una luce in mezzo ad una grande tenebra che risplende ancora di più nel buio che pare sovrastarla.

Te Deum laudamus perché in tutta questa debolezza ci siamo ritrovati con tanti (molti più di quelli che pensavamo) a dire le stesse cose, a denunciarle nonostante le irrisioni e le accuse più svariate. Una comunità di persone separate spesso da tanti chilometri, ma unite dalla stessa passione per l’umano e spesso anche dalla stessa fede, si sa che anche le stelle più piccole unite insieme possono formare una costellazione dando senso ad un cielo che pare un grande caos.

Te Deum laudamus per la ragione che è secondo la tua natura e che ci ha permesso di riconoscere i grandi doni che tu ci hai fatto, ma al contempo di non idolatrarli come spesso accade con la scienza, con il creato e con molte altre realtà.

Te Deum laudamus per il dono della fede che alla ragione si accompagna e che anzi la illumina. Essa ci fa dire che l’unica e la prima conquista per noi è stata incontrare Cristo e che il nostro unico desiderio è quello di accompagnare quanti più possibile a questo appuntamento. Un dono immenso è stato quello di tanti, tantissimi fratelli nella fede che in ogni parte del mondo (e spesso ignorati da esso) ti hanno testimoniato sino al martirio arrivando a suscitare la conversione persino nei loro aguzzini.

Te Deum laudamus per questa nostra Chiesa che, anche se ultimamente si comporta spesso da matrigna, è pur sempre madre e maestra e noi siamo chiamati ad amarla e rispettarla in quanto figli e ancor più a pregare per i nostri pastori.

Te Deum laudamus perchè in tutta questa debolezza e umana miseria noi vediamo manifestarsi la tua forza che è quella della croce. Perché ogni attimo che passa ci conduce all’incontro con te e, anche se la battaglia infuria più che mai, sappiamo che la vittoria è già conseguita e noi dobbiamo solo scegliere da che parte stare e agire di conseguenza.

Te Deum laudamus e non sarà mai abbastanza.

Andrea Musso

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Ti ringrazio, Signore, per ciò che non va.

Per la pioggia fredda senza ombrello, l’autobus in ritardo, il dolore ai denti. Per tutto ciò che è fastidioso ed indesiderato, per un mondo che non è come vorrei, ti lodo. Per ogni cosa irregolare, storta, malfatta, che mi ricorda quanto lo sono anch’io, grazie, Signore.

Grazie per avermi fatto sbagliato e avere fatto sbagliato il mondo. Che era la maniera migliore di farlo. Tu ci dai tutto, tutta questa imperfetta bellezza, questa giustizia zoppicante, questa verità nascosta. Così che, colmi di desiderio, cerchiamo la perfetta bellezza, la vera giustizia, e quella verità che è sempre sotto i nostri occhi. Insomma, che cerchiamo Te.

Grazie per ogni momento di lotta, vale a dire ogni momento di vita. Daccela in abbondanza, così che ancora una volta possiamo dire: Te Deum laudamus.

Berlicche

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Grazie Signore

Grazie Signore per l’anno appena trascorso e per il dono della vita che mi dà la possibilità di partecipare al Tuo amore.

Donami sempre il coraggio di riconoscere e denunciare il male e la sapienza di intravedere la Tua opera quando pare che Tu sia assente.

Ricordo con sofferenza e senso di impotenza le donne che ho incontrato, vinte dalla paura e ingannate dall’aborto, eppure sono certo che offrirai loro occasione di riscatto e di rinascita.

Voglio ringraziarTi per ogni volta che Ti sei reso visibile nei bambini accolti nonostante le numerose difficoltà.

Grazie per ogni volta che hai reso manifesta la Tua Bellezza nello sguardo di una mamma per suo figlio e la Tua Divina Presenza in ogni “Sì” insperato, quale memoriale del “fiat” di Maria che cambiò il corso della storia.

Sono stati intensi i mesi in cui abbiamo pianto e sperato per il piccolo Charlie e per i suoi genitori tanto ignorati, timidamente difesi e poi ingannati.

Tutto è apparso inutile agli occhi del mondo di fronte all’epilogo di morte, ma la preghiera delle molte persone raccolte in ogni angolo del mondo per quella piccola vita gravemente malata, ha testimoniato una Chiesa orante in cui Tu sei vivo e presente.

Quanta rabbia e scoraggiamento poi per le recenti leggi ingiuste che hanno ferito ulteriormente la vita e la famiglia nella nostra società e di cui capiremo i nefasti effetti solo a lungo termine.

Ma Tu hai deciso di farTi embrione nel grembo della Vergine Maria per la nostra salvezza e hai già vinto la morte aprendoci il regno dei cieli.

Nessun Governo, Parlamento o Erode di turno potrà mai cambiare tutto questo e i gravi attacchi alla vita, come l’aborto e l’eutanasia, saranno sempre vittorie apparenti e vacue.

Non permettere mai che venga meno la mia lode, Eterno Padre premuroso, che mi circondi dell’amore di mia moglie e di mio figlio, grazie al quale hai fatto di me una persona migliore, senza alcun merito.

Aiutami a non cadere nella tentazione di affrontare il male o le richieste dei fratelli con le mie sole forze, non considerando che sei Tu l’unico Signore dell’Universo che tutto può e perfettamente ama.

Insegnami a compiere la mia parte per poi lasciarTi completare il Tuo disegno e la Tua volontà, anche e soprattutto quando non li capisco.

Ti ringrazio Signore perché mi recuperi puntualmente da ogni caduta e da ogni scoraggiamento nella consapevolezza di far parte di una Chiesa che, nonostante limiti e divisioni, è piena della Tua gloria, infinitamente più grande di quanto appare e unita in preghiera al “coro degli apostoli”, alla “voce dei profeti” e alla “candida schiera dei martiri”.

Aiutami a crescere nella fede che si lascia custodire da Te e che a Te rimanga sottomessa, lontana dal peccato per poter gustare un giorno la Tua vera e giusta misericordia.

Aiutami a leggere con occhio limpido i fatti della storia e a non cadere nella confusione tra il bene e il male. Rendimi sempre capace di riconoscerti in ogni uomo e in ogni evento, in particolare in ogni piccolo concepito, segno del Tuo amore e dell’unica e vera Speranza che sei Tu, unica strada di verità e unica vera vita.

Grazie Signore per questo nuovo anno che inizia, riempilo di vita e la mia vita di Te.

Claudio Larocca, presidente “Cav-Mpv Rivoli”

***

TE DEUM per la meraviglia di ogni giorno, anche se a volte non ci riesco

Te Deum laudo e te solo posso ringraziare per la meraviglia che mi doni ogni giorno appena sveglio al solo pensiero di poter vivere un nuovo giorno e di potermi dire tuo figlio, potendomi dissetare con l’acqua viva dei Sacramenti («Ti adoro, mio Dio, e ti amo con tutto il cuore: ti ringrazio di avermi creato, fatto cristiano e conservato in questa notte/giorno»). Perdonami se non sempre ne ho approfittato, e se spesso non ho il desiderio sensibile di parlare con te, di farti compagnia o se mi faccio trascinare dalle occupazioni contingenti di questo mondo.

Te Deum laudo e te solo posso ringraziare perché posso assaporare la tua maestà nella grandezza del creato, specchio della tua perfezione, guardando estasiato un olivo che ancora dà frutto pur non essendo stato potato («I cieli narrano la gloria di Dio e il firmamento annunzia l’opera sua»); e ti lodo anche perché hai permesso a me, uomo-creatura, di poter aiutare Te, Dio-creatore, nell’opera della creazione soggiogando la terra («Che cos’è l’uomo perché te ne curi? Eppure l’hai fatto poco meno degli angeli, tutto hai posto ai suoi piedi»). Perdonami se non sempre sono riuscito a distinguere i piani della tua azione dall’opera delle mie mani dimenticando che, come dice Guareschi, «l’uomo, da solo, non costruisce niente: l’uomo solo è come il poeta che scrive sull’acqua».

Te Deum laudo e te solo posso ringraziare perché grazie alla tua legge, iscritta nel mio cuore, posso contemplare la bellezza della tua Persona negli occhi di una donna senza sopraffarla, apprezzando ciò che è a me complementare e vedendo in essa un riflesso potenziale della Chiesa e di Maria, Vergine e Madre, tra le brutture del mondo moderno («“Chi disprezza la sapienza e la disciplina è infelice. Vana la loro speranza e le loro fatiche senza frutto, inutili le opere loro»). Perdonami se spesso non me ne sono ricordato, limitandomi alla parte visibile del mistero della corporeità di ogni essere umano.

Te Deum laudo, e te solo posso ringraziare per qualsiasi lavoro che mi doni permettendomi di migliorare la mia come l’altrui condizione: è causa di profonda meraviglia il solo pensiero di essere responsabile e custode di un fratello pur nelle piccole cose («Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me»). Perdonami se spesso mi comporto come un erede di Caino e non come un discendente del Buon Samaritano.

Te Deum laudo, per ogni più piccola gioia provata ed assaporata negli infiniti secondi dell’anno passato che ha suscitato in me una continua meraviglia, sebbene la più grande sia infinitamente più piccola per quella che sgorga all’udire le parole consacratorie della Santa Messa o quelle assolutorie della confessione («Che cosa infatti è più facile: dire “Ti sono perdonati i peccati”, oppure dire “Alzati e cammina”?)»). Perdonami se spesso ho vissuto questi misteri non come tali ma solamente in modo abitudinario.

Te Deum laudo per il sangue dei martiri versato in questo 2017 che sarà seme di nuovi cristiani: non può che suscitare meraviglia la vita delle «pietre vive e preziose, scolpite dallo Spirito con la croce e il martirio per la città dei Santi»? Perdonami se spesso mi crogiolo nel vivere lontano dalla persecuzione materiale e mi rintano nella sicurezza di un cristianesimo anonimo e lontano dalla testimonianza.

Potrei lodarti per ore e per diversi motivi, mio Dio, ma è bene concludere anche con una fondamentale verità troppo spesso messa da parte: Te Deum laudo perché Tu solo sei Santo e da te dipende ogni più minima particella di ogni singolo essere creato.

Francesco Del Giudice

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Te Deum laudamus; Te Dominum confitemur…

Chiudere l’anno con la preghiera del Te Deum non è solo una solenne tradizione, parte del depositum fidei che la Chiesa – quindi tutti noi – è chiamata a custodire e portare innanzi, ma una vera e propria segnaletica della speranza. Lodiamo Dio e riconosciamo che è il Signore, lodiamo la sua bellezza e lo riconosciamo nella bellezza del Creato che ci porta a comprendere quanta cura occarra metterci: è una bellezza donata ed il dono gratuito non può non essere oggetto della massima attenzione. Fëdor Dostoevskij ci ricorda che “la bellezza salverà il mondo”, quindi basta – se così si può dire – riconoscerla. Come? Il Signore che si incarna spinge al centro della nostra attenzione la persona umana attraverso cui passa questa bellezza, quella della vita, delle relazioni, della famiglia, della comunità, fondamentali per scorgere quella del paesaggio, dell’arte, della storia. La bellezza ci aiuta a innescare processi. L’azione di lode può influenzare la politica? Direi di sì: in un’epoca di proteste e ricerca spasmodica del brutto, del cattivo, del nemico e del negativo permette di ritornare alla sua vera essenza che può essere recuperata nelle parole di Aldo Moro “la politica è un omaggio reso quotidianamente alla Verità e alla bellezza della vita”. Lodare ed agire per la Verità e la bellezza della vita è un programma d’azione impegnativo vuol dire non temere di andare controcorrente proprio perchè la bellezza ha a che fare con la Verità che non può essere manipolata pena il disconoscimento dell’umanità stessa, della sua dignità in ogni sua fase. Cosa rimarrebbe altrimenti? Forse solo un’epoca di diritti astratti e di Stati etici, ben poco civili, che si perderebbero però la persona nella sua imprescindibile integralità. Questa segnaletica quindi dove mi conduce anche alla luce dei tanti fatti di cronaca politica e legislativa che ci lasciamo alle spalle intrecciati ad una crisi strisciante? All’impegno per non redendere sterile la lode, ad un umanesimo integrale e concreto che mi fa agire non per la fede ma a causa della mia fede, ad un riconoscimento della follia della divisione, per riprendere una riflessione del Cardinal Bassetti, tra “cattolici della morale” e “cattolici del sociale” altrimenti rinchiusi in recinti angusti e privi del respiro ampio di una vera visione sociale cristiana utili a chi quella visione, che serve a riconoscere la bellezza che è quindi anche virtù sociale, vuole ridurre più facilmente al silenzio. Si possono così ben comprendere le parole di Papa Francesco: “abbiamo bisogno di una politica che pensi con una visione ampia e che porti avanti un nuovo approccio integrale, includendo in un dialogo interdisciplinare i diversi aspetti della crisi. Se la politica resta impastoiata in discorsi inconsistenti, continueremo a non affrontare i grandi problemi dell’umanità” (Laudato Sì”).

Te aeternum Patrem, omnis terra veneratur …

Tutta la terra venera il Padre: quindi non solo loda la Bellezza, riconosce la Verità, ma ciascuno di noi così si riconosce figlio. Essere figlio significa essere generato da qualcuno, entrare a fare parte di relazioni, quella famigliare e quella comunitaria, dove c’è il riconoscimento di questa qualifica che, semplicemente, caratterizza tutti senza alcuna distinzione. Essere figli è naturale! Lo ha ricordato bene in un suo Angelus dell’inizio del 2012 Papa Benedetto XVI: dunque interviene l’accoglienza della vita, la riconoscenza verso i genitori, un vero e autentico riconoscimento dell’umanità senza sottili distinzioni o etichette create a tavolino. Per chi ha fede, per chi ha accolto il Figlio Dio ed è “rinato dall’alto” non è difficile comprendere questa naturalezza e declinarla in nuova fraternità. Non è forse la strada per quella “civiltà dell’amore” di cui ha tanto parlato il Beato Paolo VI? L’atto di venerazione dunque incalza l’azione e interroga la politica. Se il Te Deum non rappresenta un semplice scorrere dei titoli di coda di un serial di 365 puntate, non si può che ringraziare per una simile straordinaria sollecitazione all’impegno coerente che parte dal riconoscere il valore e la dignità di ogni essere umano, sempre, che di partenza è figlio e fratello: la politica non può che trovarsi a sostenere queste relazioni di figliolanza e fratellanza che richiedono di non essere neutrali di fronte alla vita, forgiano la famiglia, sostengono la comunità, perchè traduzione pratica della cura della Bellezza.

Te ergo quaesumus, tuis famulis subveni, quos pretioso sanguine redemisti.
Aeterna fac cum sanctis tuis in gloria numerari …

Giancarlo Chiapello

* * *

Ti ringrazio Dio

Quando si fanno gli Esercizi Spirituali con il metodo di S. Ignazio di Loyola, uno dei momenti finali ordina all’esercitante di elencare tutte le cose di cui è personalmente grato a Dio; ovviamente è impossibile elencarle tutte, e l’esercitante si rende conto dell’immensa bontà di Dio tramite questa impossibilità pratica.

Tuttavia, è un esercizio comunque utile da fare per l’anno appena trascorso, quindi, adesso, in ordine completamente randomico, ci proviamo comunque.

Ti ringrazio Dio, perché finalmente Berlusconi ha venduto il Milan. Sì, perché non ne potevamo veramente più delle frasi fatte, del Bagaglino continuo e della mancanza di rispetto nei confronti dei tifosi (di cui faccio parte), che per quanto mi riguarda sono stati anche troppo civili negli ultimi anni. Grazie.

Ti ringrazio Dio, perché il 27 di tutti i mesi arriva lo stipendio (a dicembre anche la tredicesima). E ti ringrazio anche per quando spendo 500 euro di revisione ministeriale della macchina, perché è segno che ne ho da spendere e posso vivere tranquillamente. Soprattutto, visti i tempi che viviamo e visto che non tanti giovani possono ringraziare della stessa cosa. Grazie.

Ti ringrazio Dio, perché ho potuto fare gli Esercizi Ignaziani, che sono un momento di riflessione vero e una opportunità grande di conversione. Fidatevi, se siete incasinati e dovete capire cosa fare della vostra vita, è una occasione d’oro. Grazie.

Ti ringrazio Dio, perché abbiamo Donald Trump come presidente degli USA e Vladimir Putin come presidente della Russia. La situazione geopolitica mondiale è tragica, ma loro due fanno quello che possono per evitare che diventi peggiore di così (almeno l’ISIS sta sbaraccando). Grazie.

Ti ringrazio Dio, perché nonostante abbia traslocato tre volte negli ultimi anni, gli amici sono sempre rimasti e ne ho pure conosciuti di nuovi, di cui non sarò mai abbastanza grato. Grazie.

Ti ringrazio Dio, perché ci sono la PS4, il Nintendo 3DS, il Nintendo Switch, il Super Nintendo Classic Mini. Sono tutti una figata, e anche se non posso più dedicare tanto tempo a queste passioni, rimangono comunque distrazioni incredibilmente belle e divertenti. Grazie.

Ti ringrazio Dio, per i compagni d’arme della Baionetta, di Campari e De Maistre e di tutta la blogosfera cattolica tradizionalista. In tempi difficili le amicizie, anche quelle nate per caso e per necessità culturali, sono necessarie per condurre la buona battaglia. Grazie.

Ti ringrazio Dio, per averci lasciato ancora dei sacerdoti santi e delle suore che pregano per noi, visto il lassismo prevalente all’interno del clero cattolico. In particolare, mi vengono in mente gli amici della Famiglia Religiosa del Verbo Incarnato (con cui collaboro attivamente) e gli appartenenti ai Francescani dell’Immacolata. Grazie.

Ti ringrazio Dio, per la presenza e il supporto costante della mia famiglia di origine. Grazie.

Ti ringrazio Dio, per i colleghi con cui condivido l’ufficio e le mansioni al lavoro. Grazie.

Ti ringrazio Dio, per gli amici di Vivere Salendo, l’associazione con cui ci occupiamo di Dottrina Sociale a Verona. Senza di loro, parlare di politica sarebbe incredibilmente più noioso di come ne parlano a Porta a Porta (dove è già incredibilmente noioso). Grazie.

Ti ringrazio Dio, per avermi permesso di vedere i film di Star Wars quando erano sani ed ero ancora un ragazzino, prima che diventassero quella roba in cui si stanno trasformando. Grazie.

E infine, ti ringrazio Dio perché, anche se non lo vedo, non lo percepisco, non lo capisco o lo capisco solo dopo moltissimo tempo, Tu ci sei sempre. Grazie.

Giovanni Di Domenico








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mercoledì 10 gennaio 2018

Congedo con onore: Miguel Manara: Canterai umilmente con il libro dei poveri di spirito

Diamo la parola all'Abate che parla con Miguel Manara

L'amore e la precipitazione non vanno d'accordo, Mañara. È dalla pazienza che si misura l'amore. Un passo uguale e sicuro: è questa l'andatura dell'amore, che cammini fra due siepi di gelsomino, al braccio di una fanciulla, o da solo tra due file di tombe. Pazienza. Non siete venuto qui, signore, per essere torturato. La vita è lunga qui. Occorre un'infanzia e un'educazione, una giovinezza e un insegnamento, una maturità curiosa del giusto peso delle cose e una lenta vecchiaia innamorata della tomba. Con quale prudenza dobbiamo dunque muoverci! Perché il cilicio bruciante non ama la violenza che spenge il prurito nel sangue, e bisogna starsene ben cheti in una bara stretta e corta, nel caso che ci si rannicchi dentro col sano desiderio di dormire un'ora o due di un sonno vuoto o profondo come l'istante.

Far scorrere il proprio sangue è una cosa dolcemente perfida; e l'insonnia consuma il cuore. Ora, la vita è lunga qui, mi capite? Anche la fame troppo esasperata è una tentazione. Bisogna masticare l'erba cattiva e la radice tiepida con una mascella d'animale che ha davanti a sé una bella prateria e lunghe, lunghe ore d'estate.

E bisogna parlare all'Eternità con sillabe preziose e chiare anche di notte, quando il suo amore prende alla gola come l’assassino.

Sappi anche che è cosa eccellente attenersi al verbo ordinato, diga di granito per le grandi acque amare del tuo amore! Perché bisogna che la preghiera sia digiuno prima di essere banchetto, e nudità del cuore prima di essere mantello di cielo ronzante di mondi. Verrà forse un giorno in cui Dio ti permetterà di entrare brutalmente, come una scure, nella carne dell'albero, e di cadere pazzamente, come una pietra, nella notte dell'acqua, e di scivolare cantando, come il fuoco, nel cuore del metallo.

E quel giorno saprai di quale carne è fatto il mondo, e parlerai liberamente all'anima del mondo dell'Albero, dell'Acqua e del Metallo, e gli parlerai con la voce del vento e della pioggia e della donna innamorata.

Figlio mio! L'uomo ha gridato infinite volte, non prosternato, ma ritto davanti a Dio! Alitandogli il suo amore in pieno volto, come un incendio in una foresta o in una grande città, e il Signore rideva perché gli Angeli avevano paura. Tutto questo può ben venire un giorno, caro figliolo, quando il serpente avrà cambiato la pelle. Ma bisogna cominciare dal principio: questo è l'essenziale. Mordere la pietra e abbaiare: Signore, Signore, Signore! È servire piangendo una donna senza cuore. Bisogna lasciar questo ai traditi che sospirano una notte, o sei mesi, o dieci anni.

La vita è lunga qui.

Ti guarderai bene dunque dall'inventar preghiere. Canterai umilmente con il libro dei poveri di spirito. E aspetterai.

Dall'ultima scintilla notturna della tua demenza scaturirà la prima aurora!

Il cratere del cuore urla e tuona e il vomito nero lascerà la nube, poi ricade in grigia carestia sul campo e la vigna.

E così la preghiera devastatrice della passione. Ma quando il cuore s'è addormentato nel balsamo degli anni, quando la carne è morta e il sangue è impallidito e quando il midollo s'è dissecato, e quando l'amore passato e quando il dolore passato, quando l'amore e il dolore e l’odio sono divenuti fantasmi in cui la spada affonda come nell'acqua e in cui il labbro non urta più che la sua stessa piaga, come nel vapore del vetro, è allora che si parla a Dio non più di se stesi e della propria miserabile infelicità, ma dell'uomo, e della schiuma, e della sabbia, e del vento e della pioggia! Sai quale santo ha detto: Ecco fratello vento, ecco sorella pioggia?

O figlio mio! Se tu sapessi quali cose l'uomo sa dire a Dio quando la carne dell'uomo si fa grido, grido di Dio che adora se stesso!

Tu non hai il volto di un uomo che ascolta, Miguel. Pensi troppo al tuo dolore. Perché cerchi il dolore? Perché temi di perdere ciò che ha saputo trovarti? Penitenza non è dolore. È amore.


Miguel Manara: Mefiboseth-Saulo di Tarso-Teatro (pag. 50 - 52) 






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lunedì 8 gennaio 2018

Cinematografo dell'alpino: Assassinio sull'Orient Express

Dopo la memorabile interpretazione di Albert Finney, il detective Hercules Poirot torna sul grande schermo ad interrogarsi su chi possa essere stato l’efferato assassino che ha condiviso con lui l’intenso viaggio sull’Orient Express.

Questa volta è il regista e co-produttore Kenneth Branagh ad interpretare l’astuto ed integerrimo investigatore belga.

Un cast d’eccellenza al suo fianco: Michelle Pfeiffer, Johnny Depp, Penelope Cruz, e tanti altri, salgono a bordo del treno più famoso della letteratura per dare un volto ai personaggi del romanzo di Agatha Christie.

Così diversi fra loro, apparentemente perfetti sconosciuti, in realtà legati indissolubilmente tanto dal sentimento dell’amore che non conosce limiti, quanto dalla rabbia e dal risentimento inguaribile.

Inquadrature ed effetti speciali mozzafiato, lasciano lo spettatore in attesa della scoperta più incredibile.

La genialità della scrittrice, che nel 1934 seppe proporre al grande pubblico inglese e poi di tutta Europa così tante sfumature dell’essere umano ferito, colpisce ancora ai nostri giorni.

Un filo più potente di qualsiasi altro unisce i protagonisti di questo viaggio, da Istanbul (luogo in cui all’autrice venne davvero l’ispirazione per la stesura dell’opera) a Calais.

Il desiderio di vendetta, la convinzione di raggiungere la serenità solo con il farsi giustizia da sè conducono all’organizzazione di un piano ingegnoso, destinato a riuscire. Esso si scontra inesorabilmente con l’intelligenza del detective, ma anche con il tradimento dei sentimenti sui volti dei vari personaggi.

La trama, che rimanda ad un passato impossibile da dimenticare per ciascuno di questi uomini e donne, è una delle più strane nel panorama dei romanzi gialli.

Gli interrogatori lenti di Poirot e i flashback un po’ forzati, non competono con la tensione narrativa della prima versione cinematografica del romanzo.

Ma ciò che conta è l’analisi psicologica che dalla Christie giunge fino a noi.

È innegabile che la nostra esistenza, così ricca di colpi di scena, che può essere spezzata in tenera età come dopo estenuanti sofferenze, possa condurre l’uomo a porsi profonde domande sul senso della stessa.

Tutto dipende dalle risposte che siamo in grado di trovare, che siamo in grado di ascoltare nel silenzio in cui ci sussurra chi più ci ama.

Vale davvero la pena di sporcarsi le mani, di distruggere la propria anima diventando simili agli stessi carnefici?

Volti spenti e delusi quelli dei numerosi autori dell’assassinio. Volti che non sanno più che risposta darsi all'assordante silenzio del dolore.

Credevano che solo un’altra vita sacrificata avrebbe potuto dar loro la pace, senza comprendere che la gioia del cuore risiede nella profonda carità e nel provare a diventare ogni giorno migliori, trovando in comune con gli altri la dignità profonda dell’essere umano piuttosto che le medesime ferite.








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