mercoledì 10 maggio 2017

Lettera dal fronte: «La gloria di Dio è l’uomo vivente»: considerazioni teologiche sulla cultura della vita/02

Secondo appuntamento della nostra piccola rubrica di riflessione teologica sulla cultura della vita e la cultura della morte in vista della Marcia per la Vita che si terrà a Roma il 20 Maggio 2017.

Attenzione: gli articoli contengono argomenti ed espressioni tipicamente cattolici =)


Col primo articolo di questa rubrica abbiamo iniziato un lungo cammino di approfondimento teologico sulla cultura della vita e la cultura della morte in vista del più grande evento pro-life italiano, la Marcia per la Vita 2017, cercando di capire meglio – pur essendo coscienti dei nostri limiti e difetti – il perché la Chiesa Cattolica fin dalla sua fondazione difenda e promuova la vita dal concepimento fino alla morte naturale. Abbiamo preso avvio dal I Libro della Bibbia, il Genesi, analizzando il giudizio che Dio dà alla creatura che, tra le innumerevoli da lui create, compresi gli Angeli, ha scelto per essere sua gloria; oggi cercheremo di capire meglio cosa ha significato per tutta l'umanità l'Incarnazione di Nostro Signore Gesù Cristo, vale a dire cosa ha comportato l'irrompere reale, storico, fattuale, carnale dell'infinito nel finito creaturale che era stato ferito dal peccato originale. Parliamo oggi dell'Incarnazione perché, nei nostri articoli, abbiamo privilegiato l'andamento cronologico della Storia della Salvezza così come Dio ce l'ha voluta rivelare: le prossime puntate, dedicate tutte al mistero di Cristo e della Chiesa, Suo Mistico Corpo, verteranno pertanto a) sul matrimonio, in quanto Cristo ha voluto istituire il sacramento del matrimonio agli albori della sua predicazione, cioè al momento della sua manifestazione in Cana di Galilea; b) sulla Passione – Morte – Risurrezione – Ascensione al Cielo di Cristo; seguiranno due approfondimenti dedicati alla cultura della morte.

«Nella pienezza del tempo» l'arcangelo Gabriele fu inviato da Dio alla Vergine Maria per chiederle se accettava di essere, per opera dello Spirito Santo, la Madre del Figlio Eterno del Padre: quel 25 marzo in Paradiso non si pensava che a questo in quanto il divino decreto eterno che avrebbe salvato dall'inferno tutta l'umanità, aprendole il cielo serrato a causa del peccato originale, aveva bisogno della libera risposta di una fanciulla di circa 15 anni, residente a Nazareth, uno sperduto villaggio della Galilea. Già l'incipit della narrazione, «nella pienezza del tempo», è foriera di innumerevoli riflessioni ed approfondimenti teologici ed antropologici: basterebbe solo pensare al fatto che l'Incarnazione non è avvenuta né un attimo prima né un attimo dopo, non in un momento casuale ma in un momento di pienezza benché mancasse all'epoca ogni conforto tecnologico che noi riteniamo indispensabile per poter dire di vivere pienamente la nostra vita. Riflettiamo mai sulla gravità e sull'importanza di queste quattro (dicesi 4) parole? Eppure dovremmo farlo perché a partire da quella pienezza del tempo noi abbiamo ricevuto grazia su grazia; per Dio infatti ogni singolo secondo del tempo da lui creato, anche quando non c'erano uomini sulla terra, ha un valore elevatissimo: con l'Incarnazione, rivolta essenzialmente agli uomini (benché abbia riguardato tutta la creazione, compresi gli angeli decaduti che – non dovremmo dimenticarlo mai!!! – sono sottomessi per la loro stessa natura al creatore di tutte le cose), hanno capito definitivamente che non esiste più né il tempo ciclico, tipico delle culture pagane ma anche delle concezioni moderne che osannano l'oroscopo, né il caso (Darwin non sarebbe d'accordo ma peggio per lui) in quanto ogni cosa è stata fatta in vista di Cristo, vero centro e signore della storia.

Nulla è fatto a caso in quanto Dio si prende cura di ciascuno di noi in ogni singolo secondo della nostra vita, compreso il nostro sonno, continuamente quanto misteriosamente. Ma, attenzione, Dio riesce anche a “gerarchizzare” il tempo in quanto vede ogni cosa ricapitolata in Cristo: come infatti ogni cosa è stata fatta/creata per mezzo di Cristo, così ogni cosa torna al Padre per mezzo di Cristo. Ma se Cristo non si fosse incarnato il piano della salvezza sarebbe stato, per così dire, monco: come ha giustamente affermato Sant'Agostino, infatti, non ci sarebbe nessun vantaggio per noi ad essere nati se Cristo non ci avesse redenti. Il semplice affermare che il tempo è, per la sua stessa natura, una dimensione quantitativa su cui prevale tuttavia la dimensione qualitativa ma indipendente dai nostri moderni pareri di valutazione della qualità della vita, ci porta a concludere che agli occhi di Dio, e dunque della Chiesa, un embrione appena creato e poi misteriosamente abortito naturalmente (anche nei casi in cui i genitori non se ne sono accorti) sia identico, tranne che per la mancata ricezione dei sacramenti, ad una persona morta centenaria.

C'è di più. La dignificazione dell'uomo fin dal suo concepimento, infatti, oltre che per le considerazioni fatte in precedenza, passa e dipende dall'Incarnazione di Cristo. Qui è opportuno ricordare un principio già espresso nel I articolo di questa rubrica: la grazia nulla toglie alla natura ma, anzi, la eleva: oltre alle verità rivelate (incomprensibili per sola ragione, sebbene se ne possa assaporare e considerare la loro ragionevolezza) ci sono infatti alcune verità naturali, valide per tutti gli uomini, che però assumono una connotazione diversa, elevata per l'appunto, se viste con gli occhi della fede. Le riflessioni sull'Incarnazione sono moltissime tra cui un aspetto che oggigiorno, in tempi in cui si esalta la determinazione del singolo, non mi sembra venga messo in giusta evidenza: il semplice fatto di aver accettato la libera scelta di una fanciulla, ci fa capire quanto Dio rispetti ed ami l'uomo in quanto ha messo nelle sue mani (anzi: per essere più precisi nelle mani di una donna) la condizione imprescindibile alla redenzione della medesima umanità. Ma c'è di più. Molto di più. E grandissimi Santi prima delle misere parole del sottoscritto si sono posti queste domande che ancora oggi affascinano ogni credente: una fra tutte, cosa ha significato l'Incarnazione? Come anche: cur Deus Homo? Perché Dio si è fatto uomo?

Cos'è l'Incarnazione? Cosa ha comportato il fatto che l'Essere perfettissimo e immenso (perché non dimentichiamolo: Gesù Cristo era-è-sarà sempre il Figlio di Dio, II Persona della Santissima Trinità e dunque Dio come il Padre e lo Spirito Santo: io e il Padre siamo una cosa sola) abbia deciso di entrare nel tempo, nello spazio, nel dolore, ed in ogni aspetto dell'umana vita? Ci fermiamo mai a pensare al fatto che Cristo, assumendo la natura umana, ha assunto ogni singolo aspetto di essa per poterla interamente redimere? Pensiamo mai al fatto che tutto ciò che è stato assunto è stato redento, e che dunque ciò che non sarebbe stato assunto non sarebbe stato redento? Non si tratta di giochi lessicali o di questioni teologiche di lana caprina (come si suol dire, ma erroneamente: disquisire sul sesso degli angeli) bensì di una realtà con cui ciascuno di noi ha a che fare ogni giorno in quanto appartenenti al genere umano: se Cristo infatti non avesse redento l'intera umanità (e quindi anche la natura umana nella sua interezza) avrebbe compiuto un atto imperfetto rendendo vana l'intera Redenzione e non permettendoci di entrare in Paradiso!

L'Incarnazione di Cristo è (stata) un fatto reale, un avvenimento come sottolineato da Mons. Giussani e ribadito Benedetto XVI in diverse occasioni del suo Magistero, talmente reale da aver preso carne e sangue. Sebbene sia un linguaggio a noi poco usuale, è lecito dire che: Iddio si sia fatto embrione; è vissuto nel segreto del seno della Vergine Maria per 9 mesi; è nato (sebbene con un parto miracoloso che ha preservato la Verginità di Maria); ha avuto fame e sete; ha avuto bisogno del cambio dei pannolini come tutti i bambini; ha giocato e riso; ha pianto e sofferto; ha camminato ed è caduto; ha lavorato e pregato; etc. Come accennato sopra, non c'è nulla di propriamente umano che Gesù Cristo non abbia fatto né vissuto giacché, come afferma genialmente San Gregorio Nazianzeno «ciò che non è stato assunto, non è stato guarito».

Il Figlio, Verbo Eterno del Padre, per mezzo dell'Incarnazione per opera dello Spirito Santo, ha assunto la natura umana alla sua persona divina nella sua interezza, fuorché nel peccato1 per poter ricondurre l'umanità, come anche la creazione, redenta, al Padre per mezzo del sacrificio della croce che ha espiato sia il peccato originale che tutti i peccati degli uomini da Adamo fino alla fine dei tempi. Senza Incarnazione non ci sarebbe stata Resurrezione: senza Presepe non ci sarebbe stato il Golgota2.

L'Incarnazione non va vista solamente dal punto di vista dell'assunzione della natura umana da parte di Cristo, ma anche dal punto di vista dell'uomo: se Dio nobilita l'umanità, vuol dire che l'umanità guadagna una nuova dignità. Ma in cosa consiste questo mirabile scambio di doni (come recita il Prefazio della Messa della Notte di Natale)? Nel fatto che Gesù Cristo da ricco che era, si fece povero per arricchire noi con la sua povertà (cfr. 2Cor 8,9). E per capire nel miglior modo possibile questo profondo mistero, conviene riportare per intero il Canone 460 del Catechismo della Chiesa Cattolica:
Il Verbo si è fatto carne perché diventassimo «partecipi della natura divina» (2 Pt 1,4): «Infatti, questo è il motivo per cui il Verbo si è fatto uomo, e il Figlio di Dio, Figlio dell'uomo: perché l'uomo, entrando in comunione con il Verbo e ricevendo così la filiazione divina, diventasse figlio di Dio»3. «Infatti il Figlio di Dio si è fatto uomo per farci Dio»4. «Unigenitus [...] Dei Filius, Suae divinitatis volens nos esse participes, naturam nostram assumpsit, ut homines deos faceret factus homo – L'unigenito [...] Figlio di Dio, volendo che noi fossimo partecipi della sua divinità, assunse la nostra natura, affinché, fatto uomo, facesse gli uomini dei»5.
Dal momento che Dio si è incarnato, ogni cosa propriamente umana è stata elevata ancor di più del già essere stata creata ad immagine e somiglianza di Dio: è stato nobilitato il suo corpo e la sua ragione ma non dobbiamo avere paura di dire che sono state nobilitate anche le sue feci come anche il suo seme in quanto, non smetteremo mai di ripeterlo, tutto ciò che non fosse stato assunto non sarebbe stato redento. Cristo dunque ha redento, nobilitandolo, il riso6 e la tristezza, la gioia ed il dolore, il mangiare ed il bere, il dormire e il camminare, l'essere embrione come l'essere cadavere7, l'avere una famiglia ed il lavoro, il giocare ed il predicare, e così via.

Benché feriti dal peccato, siamo dunque nobili. E lo siamo, per così dire, per diritto e per conquista: per diritto in quanto Dio non ha mai ritirato la sua benedizione dall'uomo; per conquista perché Cristo ci ha comprati a caro prezzo. L'Incarnazione, primo atto della Redenzione, mette insieme queste due caratteristiche che noi dovremmo sempre cercare di comprendere quanto più possibile ricordandoci inoltre che noi siamo dei anche perché, se viviamo in grazia, inabita in noi la Santissima Trinità: non rattristiamo dunque lo Spirito Santo che è in noi e ringraziamo continuamente Dio per la sua infinita misericordia giacché quando eravamo ancora peccatori ha chiesto alla Vergine di essere Madre del Verbo Incarnato.

Guardiamo a Maria, «umile ed alta più che creatura», per poter contemplare, come ha fatto lei stessa durante tutta la vita di Cristo, la profondità e la grandezza del mistero della natura umana che il Figlio ha unito alla sua Persona per mezzo dell'Incarnazione.


Francesco Del Giudice
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1- È bene ricordare, in questi tempi in cui dilagano espressioni semi-ariane, che Cristo ha 2 Nature, l'umana e la divina, distinte ma non confuse tra loro, unite indissolubilmente per l'Incarnazione (unione ipostatica: stesso discorso vale per le volontà) nell'unica Persona Divina di Cristo: per questo egli è vero uomo e vero Dio. Anticipando il prossimo articolo, conviene notare che l'unione ipostatica non si è conclusa con la Redenzione ma perdura tutt'oggi: dopo la Resurrezione infatti Cristo non ha abbandonato il suo corpo, ma l'ha riavuto/ripreso già glorificato (cosa che per gli uomini di tutti i tempi avverrà nell'ultimo giorno, al momento della sua seconda venuta. Notiamo inoltre che il corpo risorto di Cristo è il suo vero corpo, come afferma la liturgia pasquale, ed è si glorioso (può non usare le porte per entrare in una stanza, scompare e riappare, etc) ma è altresì un vero e proprio corpo tant'è che Cristo dopo la Resurrezione ha avuto fame ( scegliendo anche cosa-dove-con chi mangiare mostrando anche gusto ed appetito: Gesù stesso ad esempio prepara da mangiare per se e per i discepoli, segno anche carnale di fame), ha camminato con i discepoli di Emmaus e gli Apostoli che lo hanno potuto toccare, etc.
2- In molte rappresentazioni presepiali, come anche in diversi dipinti sulla Natività o la Santa Famiglia, sono presenti elementi che rimandano alla Passione, a volte addirittura delle croci. La cosa, che a prima vista potrebbe essere erronea, è invece una verità di fede profonda: Cristo, in quanto Dio, sapeva benissimo fin dall'Incarnazione che avrebbe patito il supplizio della Croce. Sant'Alfonso Maria dÈ Liguori ha mirabilmente espresso questa verità nell'ultima, come anche sconosciuta oggigiorno, strofa del Tu scendi dalle Stelle: «Tu dormi o Ninno mio, ma intanto il Core / Non dorme no, ma veglia tutte l'ore: / Deh mio bello e puro Agnello, / A che pensi dimmi Tu? / O Ammore immenso, / “A morire per te”, rispondi, io penso».
La moderna cristologia, meglio conosciuta con il nome di cristologia dal basso, invero, propone una lettura antitetica a quanto da noi affermato poc'anzi in ossequio al Magistero bi millenario della Chiesa: in poche parole, per questa teoria ampiamente diffusa e propagandata persino nei seminari pontifici, Gesù non sapeva di essere Dio e ciò che noi leggiamo nei Vangeli sono una (ri)lettura post-pasquale della vita di Gesù, periodo in cui egli prende sempre più coscienza del suo essere Dio.
3- Sant'Ireneo di Lione, Adversus haereses, 3, 19, 1: SC 211, 374 (PG 7, 939).
4- Sant'Atanasio di Alessandria, De Incarnatione, 54, 3: SC 199, 458 (PG 25, 192).
5- San Tommaso d'Aquino, Officium de festo corporis Christi, Ad Matutinas, In primo Nocturno, Lectio 1: Opera omnia, v. 29 (Parigi 1876) p. 336.
6- È molto interessante notare come per i santi, l'allegria è sinonimo di beatitudine: San Giovanni Bosco spiegava ai suoi giovani che «noi facciamo consistere la santità nello stare sempre allegri»; San Tommaso d'Aquino ha scritto sull'eutrapelia, vale a dire la buona allegria, ed è noto il titolo di un'opera di Chesterton, la cui Causa di Canonizzazione è in corso, La serietà non è una virtù.
7- Ci sia permessa questa terminologia molto semplice.






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