1) L'ideale della democrazia sorge normalmente come esigenza di rapporti esatti, giusti fra persone e gruppi. Più particolarmente, punto di partenza per una vera democrazia è l'esigenza naturale, umana, che la convivenza aiuti l'affermazione della persona, che i rapporti «sociali» non ostacolino la personalità nella sua crescita.
Principio della democrazia è quindi il senso dell'uomo «in quanto è» , è la considerazione, il rispetto e l'affermazione dell'uomo «perché è».
Nel suo spirito la democrazia non è innanzitutto una tecnica sociale, un determinato meccanismo di rapporti esterni; la tentazione è quella di ridurre la convivenza democratica a puro fatto di ordine esteriore o di maniera. In tale caso il rispetto per l'altro tende a coincidere con una fondamentale indifferenza per lui.
Lo spirito di una autentica democrazia invece mobilita l'atteggiamento di ognuno in un rispetto attivo verso l'altro, in una corrispondenza che tende ad affermare l'altro nei suoi valori e nella sua libertà. Si potrebbe chiamare «dialogo» questo modo di rapporto tra gli uomini che la democrazia tende a instaurare.
Il dialogo, come metodo di convivenza, evidentemente si radica e si qualifica in una «ideologia» , in un determinato modo di concepire sé, gli uomini e il mondo; non si può separare la volontà di dialogo dal determinato tipo di sensibilità e di concezione che si vivono.
Anche il più sincero democratico soffre perciò la tentazione di tenere come criterio reale della convivenza il trionfo del suo modo di concepire l'uomo e il mondo.
Ora, rendere questo non speranza, ma motivo e criterio dei rapporti, è violenza, è la violenza del tentato trionfo di un'ideologia, che elimina l'affermazione del singolo uomo libero. Lo sforzo di creare, per esempio, delle Internazionali, o il voler creare a tutti i costi una omogeneità «lasciando da parte ciò che ci divide», può avere commovente spunto, ma sempre, di fatto, finisce per schiacciare la persona in nome di un'idea matrice o di una bandiera.
Bisogna che il criterio della convivenza umana sia l'affermazione dell'uomo «in quanto è»: allora l'ideale concreto della società terrestre sarà l'affermazione di una «comunione» tra le diverse libertà ideologicamente impegnate.
Il contratto che regola la vita comune («Costituzione») deve cercare di dare norme sempre più perfette che assicurino ed educhino gli uomini alla convivenza come comunione.
2) Il cristiano è particolarmente disposto e sensibile a questo valore: proprio perché esso è educato ad affermare come unica legge dell'esistenza la carità, per cui ideale di ogni azione è la comunione con l'altro e l'affermazione della sua realtà «perché è».
Ma solo nella carità cristiana questa affermazione trova la sua sicurezza, in quanto nella carità cristiana diventa noto il motivo ultimo di quel rispetto attivo verso gli uomini. Il motivo ultimo non può essere solo il fatto che «un uomo è un uomo», il motivo ultimo del mio rispetto all'altro deve essere qualcosa che c'entri con la mia origine e il mio destino, il mio bene, la mia salvezza, deve essere qualcosa che supremamente corrisponda al mio fine: che possa entrare in comunione definitiva con me.
Il motivo ultimo è il mistero di Dio, nella Sua essenza (Trinità) e nella Sua manifestazione storica (Regno di Dio). Devo rispettare attivamente l'altro (amare), perché, così come è, appartiene al mistero del Regno di Dio; devo accostarmi all'altro quasi con la stessa religiosità con cui mi accosto al Sacramento, perché esso è segmento del disegno di Dio, e il mistero di Dio è un mistero di bene che eccede il mio controllo.
Senza questo fondamento l'affermazione della persona come ultimo vero criterio di socialità non può essere sostenuta e alimentata, ma tutto crolla e ridiventa sottilmente e violentemente ambiguo.
Lo spirito di una autentica democrazia invece mobilita l'atteggiamento di ognuno in un rispetto attivo verso l'altro, in una corrispondenza che tende ad affermare l'altro nei suoi valori e nella sua libertà. Si potrebbe chiamare «dialogo» questo modo di rapporto tra gli uomini che la democrazia tende a instaurare.
Il dialogo, come metodo di convivenza, evidentemente si radica e si qualifica in una «ideologia» , in un determinato modo di concepire sé, gli uomini e il mondo; non si può separare la volontà di dialogo dal determinato tipo di sensibilità e di concezione che si vivono.
Anche il più sincero democratico soffre perciò la tentazione di tenere come criterio reale della convivenza il trionfo del suo modo di concepire l'uomo e il mondo.
Ora, rendere questo non speranza, ma motivo e criterio dei rapporti, è violenza, è la violenza del tentato trionfo di un'ideologia, che elimina l'affermazione del singolo uomo libero. Lo sforzo di creare, per esempio, delle Internazionali, o il voler creare a tutti i costi una omogeneità «lasciando da parte ciò che ci divide», può avere commovente spunto, ma sempre, di fatto, finisce per schiacciare la persona in nome di un'idea matrice o di una bandiera.
Bisogna che il criterio della convivenza umana sia l'affermazione dell'uomo «in quanto è»: allora l'ideale concreto della società terrestre sarà l'affermazione di una «comunione» tra le diverse libertà ideologicamente impegnate.
Il contratto che regola la vita comune («Costituzione») deve cercare di dare norme sempre più perfette che assicurino ed educhino gli uomini alla convivenza come comunione.
2) Il cristiano è particolarmente disposto e sensibile a questo valore: proprio perché esso è educato ad affermare come unica legge dell'esistenza la carità, per cui ideale di ogni azione è la comunione con l'altro e l'affermazione della sua realtà «perché è».
Ma solo nella carità cristiana questa affermazione trova la sua sicurezza, in quanto nella carità cristiana diventa noto il motivo ultimo di quel rispetto attivo verso gli uomini. Il motivo ultimo non può essere solo il fatto che «un uomo è un uomo», il motivo ultimo del mio rispetto all'altro deve essere qualcosa che c'entri con la mia origine e il mio destino, il mio bene, la mia salvezza, deve essere qualcosa che supremamente corrisponda al mio fine: che possa entrare in comunione definitiva con me.
Il motivo ultimo è il mistero di Dio, nella Sua essenza (Trinità) e nella Sua manifestazione storica (Regno di Dio). Devo rispettare attivamente l'altro (amare), perché, così come è, appartiene al mistero del Regno di Dio; devo accostarmi all'altro quasi con la stessa religiosità con cui mi accosto al Sacramento, perché esso è segmento del disegno di Dio, e il mistero di Dio è un mistero di bene che eccede il mio controllo.
Senza questo fondamento l'affermazione della persona come ultimo vero criterio di socialità non può essere sostenuta e alimentata, ma tutto crolla e ridiventa sottilmente e violentemente ambiguo.
Per questo Pio XI disse una volta: «La democrazia sarà cristiana, o non sarà» (poiché, se Dio «sa trarre figli d'Abramo anche dalle pietre», è pur vero che la Chiesa è il luogo dove vive la coscienza del suo mistero).
3) Un governo della cosa pubblica che si ispiri al concetto cristiano di convivenza avrà come ideale il pluralismo. Le trame, cioè, della vita sociale dovranno rendere possibile l'esistenza e lo sviluppo di qualunque tentativo d'espressione umana.
La realizzazione di questa convivenza pluralistica implica gravi problemi: il pluralismo è una direttiva ideale per questo mondo. Occorre comunque impegnarcisi senza paura.
Il pluralismo, proprio in quanto tende ad affermare tutte le libere esperienze particolari secondo la loro autenticità, è decisamente contraddittorio a un concetto di democrazia e di apertura, così come è portato da una prevalente mentalità fra noi. Si tende a identificare come «democratico» il relativista, qualunque versione del relativismo viva, purché sia relativista: e si tende quindi a identificare come antidemocratico (intollerante, dogmatico) chiunque affermi un assoluto.
Da questa mentalità, o dal compromesso con essa, nasce quel tentativo di definire «spirito aperto» chi sia proclive a «mettere da parte ciò in cui si è divisi, e a guardare solo ciò in cui si è uniti», proclive a un «mettere da parte le ideologie» (una «deideologizzazione») gravido di equivoci.
In particolare è notevole rilevare come una simile posizione tenda a strappare alla presenza cristiana nell'ambiente e nella società proprio ciò che essa ha di unico, a svuotare la presenza cristiana proprio del contenuto della Sua comunione, a dissipare proprio l'essenza della sua missione.
Soprattutto, si potrà facilmente osservare che la prima caratteristica negata al cristiano in nome di tale falsa democrazia è la sua presenza comunitaria nella società: si taccerà di chiusura, di integrismo, o di tentata dittatura clericale ogni manifestazione di quel fatto essenziale per cui il cristiano vive e agisce come comunione e come obbedienza, e perciò come comunità gerarchica.
Per la nostra mentalità cristiana la democrazia è convivenza, cioè è riconoscere che la mia vita implica l'esistenza dell'altro, e lo strumento di questa convivenza è il dialogo. Ma il dialogo è proposta all'altro di quello che io vivo e attenzione a quello che l'altro vive, per una stima della sua umanità e per un amore all'altro che non implica affatto un dubbio di me, che non implica affatto il compromesso in ciò che io sono. La democrazia, perciò, non può essere fondata interiormente su una quantità ideologica comune, ma sulla carità, cioè sull'amore dell'uomo adeguatamente motivato dal suo rapporto con Dio.
3) Un governo della cosa pubblica che si ispiri al concetto cristiano di convivenza avrà come ideale il pluralismo. Le trame, cioè, della vita sociale dovranno rendere possibile l'esistenza e lo sviluppo di qualunque tentativo d'espressione umana.
La realizzazione di questa convivenza pluralistica implica gravi problemi: il pluralismo è una direttiva ideale per questo mondo. Occorre comunque impegnarcisi senza paura.
Il pluralismo, proprio in quanto tende ad affermare tutte le libere esperienze particolari secondo la loro autenticità, è decisamente contraddittorio a un concetto di democrazia e di apertura, così come è portato da una prevalente mentalità fra noi. Si tende a identificare come «democratico» il relativista, qualunque versione del relativismo viva, purché sia relativista: e si tende quindi a identificare come antidemocratico (intollerante, dogmatico) chiunque affermi un assoluto.
Da questa mentalità, o dal compromesso con essa, nasce quel tentativo di definire «spirito aperto» chi sia proclive a «mettere da parte ciò in cui si è divisi, e a guardare solo ciò in cui si è uniti», proclive a un «mettere da parte le ideologie» (una «deideologizzazione») gravido di equivoci.
In particolare è notevole rilevare come una simile posizione tenda a strappare alla presenza cristiana nell'ambiente e nella società proprio ciò che essa ha di unico, a svuotare la presenza cristiana proprio del contenuto della Sua comunione, a dissipare proprio l'essenza della sua missione.
Soprattutto, si potrà facilmente osservare che la prima caratteristica negata al cristiano in nome di tale falsa democrazia è la sua presenza comunitaria nella società: si taccerà di chiusura, di integrismo, o di tentata dittatura clericale ogni manifestazione di quel fatto essenziale per cui il cristiano vive e agisce come comunione e come obbedienza, e perciò come comunità gerarchica.
Per la nostra mentalità cristiana la democrazia è convivenza, cioè è riconoscere che la mia vita implica l'esistenza dell'altro, e lo strumento di questa convivenza è il dialogo. Ma il dialogo è proposta all'altro di quello che io vivo e attenzione a quello che l'altro vive, per una stima della sua umanità e per un amore all'altro che non implica affatto un dubbio di me, che non implica affatto il compromesso in ciò che io sono. La democrazia, perciò, non può essere fondata interiormente su una quantità ideologica comune, ma sulla carità, cioè sull'amore dell'uomo adeguatamente motivato dal suo rapporto con Dio.
Giussani Luigi - L'io, il potere, le opere: Contributi da un'esperienza pag. 179 - 182
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