1. «Comunione e liberazione»
Vorrei prendere avvio da un giudizio già formulato in altra occasione: «Tutta l'attività di Comunione e liberazione - dal suo sorgere, nel 1970, ma specialmente a partire dal primo grande convegno pubblico del 1973, fino alla lotta per le mense, le manifestazioni culturali di massa, le cooperative, ecc. - era realizzata in fondo per avere una patria in questo mondo, per conquistare e godere un diritto di cittadinanza nella nostra società. Non che questa aspirazione, di per sé, fosse sbagliata, ma eravamo poco coscienti che una patria in questo mondo noi non potremo mai averla» (Uomini senza patria, agosto, 1982). Occorre di nuovo comprendere il contenuto di questo giudizio ripercorrendo quel nostro tratto di storia. Nel '68-'69 noi ci siamo trovati come «fuori casa». Eravamo in tutte le scuole - eravamo l'associazione più forte presente nella scuola eppure ci siamo trovati «fuori casa». Perché? Perché il rovesciamento operato dall'ideologia marxista attribuiva alle sue varie formazioni mentali prospettate nel futuro la sola speranza che l'umanità poteva avere. Tutto il resto, vale a dire tutto ciò che non nasceva dall'ideologia marxista nelle sue varie flessioni, non aveva valore, specialmente il cristianesimo.
Gioventù studentesca - cosi si chiamava allora il movimento - fu spazzata via da questo momento. Più della metà si affiliarono alle sette marxiste. Gli altri rimasero come irrigiditi, intimiditi, e chiusi tra loro. Mi chiedevano: «Che cosa dobbiamo fare?». E non sapevano rispondere. Rispondere significa, non reagire o assimilarsi alle mosse altrui, ma aprire l'orizzonte di un «proprio» (originale) intervento intelligente e fattivo. Un giorno, mi pare del 1970, un gruppetto di tre o quattro universitari insorse con un volantino (il primo volantino, per dir cosi, «controrivoluzionario»); quella volta, forse perché erano in tre o quattro soltanto, non furono picchiati a sangue. Era intitolato «Comunione e liberazione» (anzi,«Comunione liberazione»; solo dopo, infatti, dietro insistenza di qualcuno, venne anche la «e»: «Comunione e liberazione»). Quel titolo diceva che anche noi volevamo la liberazione dell'uomo - la liberazione dallo strapotere, dalla schiavitù degli omologamenti che ottenebrano e schiacciano i sentimenti più vivi del cuore delle persone.
Ma perché dicevamo «liberazione»? Per il fatto che tutti gridavano «liberazione, liberazione»? Non era per questo, ma prima di tutto perché il cuore nostro voleva la liberazione. Fossimo rimasti in quattro in tutto il mondo a dire «liberazione», l'avremmo fatto ugualmente. La coincidenza della parola era esteriore, ma non del tutto: c'era un filo che ci legava al cuore di tutti, perché gridando «liberazione, liberazione» anche il marxista esprimeva una esigenza originale del cuore, sebbene confusa, oscurata, dilapidata da un discorso ideologico.
C'era però un altro motivo che ci faceva dire «liberazione»: che Cristo ci è stato fatto conoscere come liberatore dell'uomo; così il nostro movimento Lo ha esistenzialmente comunicato a tutti coloro che vi si sono imbattuti. Mi ricordo sempre con commozione come questa intuizione è nata in me: quando, in prima liceo, ascoltando il mio professore di seminario, don Gaetano Corti, leggere e commentare la prima pagina del Vangelo di Giovanni (che pure avevo letto migliaia di volte), mi resi conto per la prima volta, come in un'improvvisa scoperta, dì quel che significasse l'affermazione del Vangelo: «Il Verbo si è fatto carne». E Cioè: la verità, la bellezza, la giustizia, la felicità, di cui l'umano cuore è costituitivamente esigenza, sì è fatta carne, è diventata un uomo, Gesù Cristo. La salvezza, la redenzione, la felicità nostra è quest'uomo che 2000 anni fa è venuto tra noi, e che è presente qui e ora tra noi (la sorpresa e la memoria di questo avvenimento, desiderio irrefrenabile che gli altri Lo conoscessero, costituì l'unico motivo per cui andai a insegnare religione nelle scuole superiori. «Per che cosa entro qui?», mi chiedevo mentre salivo per la prima volta, nell'ottobre del 1954, quei pochi gradini che immettevano nell'atrio del liceo Berchet di Milano: «Per portare a questi giovani quello che è stato dato a me». La ragione per cui entravo nella scuola era l'avvenimento di Cristo. Ed era un avvenimento tale che doveva investire la vita di quei giovani, per la loro felicità. Il movimento è nato sotto la pressione di questa coscienza e di questa passione).
Cristo redentore vuol dire Cristo liberatore. La liberazione non può venire dalla fatica umana. Dicevamo perciò agli altri, usando anche la parola cambiamento: «Non potete cambiare con le vostre forze; altrimenti, cosi in tanti e con in mano tutto il potere, avreste già realizzato il cambiamento che sentite necessario». La liberazione nei mondo può venire solo da qualcosa che è già libero. Che cosa c'è di già libero in questo mondo? C'è «qualcosa» che non è solo di questo mondo: che è in questo mondo, ma non è di questo mondo. Viene da fuori, da oltre: Cristo è il liberatore.
Ma Cristo adesso dov'è? È là dove uomini si raccolgono insieme, sono raccolti insieme da Lui, fatti compagnia - una compagnia densa che diventa amicizia - così da renderLo presente. Cristo diventa presente attraverso la compagnia di coloro che Egli sceglie e che Lo riconoscono, Lo accettano, e perciò Lo seguono e in qualche modo restano, come per forza, cambiati da Lui - interessati e cambiati da Lui. Perciò aggiungevamo: «La liberazione nel mondo può venire dalla nostra comunione, dalla comunione cristiana: quanto più essa si dilata, quanto più si moltiplicano i gruppi di comunione cristiana, tanto più "rischiamo" di rendere migliore l'aria di questo mondo, di trattarci in modo più umano, secondo un "meglio" sperimentabile».
«Comunione e liberazione»: questo è lo slogan con cui, nel '70, siamo partiti, in quattro o cinque, contro l'assetto generale.
2. Il convegno del 1973
Fino a che, dopo tre anni, fu presa la decisione: «Facciamo una grande assemblea al Palalido di Milano». Nonappena lo sentii dire dai miei amici reagii: «Siete matti. C'è il pericolo di un pestaggio generale - allora ci si metteva poco; non quell'anno, ma due anni dopo avremmo avuto centoventi attentati alle nostre sedi in quattro mesi -. E poi, come si fa a riempire il Palalido?». Fu riempito da seimila universitari! Io non ci andai per timore, non di essere picchiato, ma che la cosa andasse male (trascorsi tutta quella mattina in un monastero poco fuori Milano a dire il rosario perché l'iniziativa riuscisse). Con tremore, all'una del pomeriggio mi avvicinai al Palalido. Tutto era tranquillo intorno e dentro pieno zeppo di gente, con Aldo Moro, col suo cipiglio bianco, quasi davanti nelle prime file. Rimasi dietro il palco, e uno dopo l'altro vennero lì tutti i giornalisti presenti a ripetere come un refrain: «Avete creato il secondo movimento studentesco». A noi è toccato raggiungere questa meta senza quasi che ce ne accorgessimo. Ci ritrovammo in tanti e a parlar cosi bene che dicevo - l'onorevole Moro ci ascoltò con estrema attenzione e da allora ci volle sempre molto bene.
Ma dopo quell'occasione, quella «partenza» cosi riuscita, una ripartenza ancora più impetuosa volevamo si avverasse. Eravamo presi dal fremito di «fare», di riuscire a realizzare risposte e operazioni in cui potessimo dimostrare agli altri che, agendo secondo i principi cristiani, «facevamo» meglio di loro. Solo cosi avremmo potuto avere patria anche noi, avremmo avuto anche noi il diritto a stare su questa terra, in mezzo alla gente della città, fra tutti coloro che si interessavano delle cose nuove. Molti oggi vorrebbero che noi ritornassimo a quei tempi, ai '73, '74, '75, a prima, insomma, di un certo punto di svolta che accadde nel '76 e di cui tra breve dirò (è come se costoro dicessero: «Era molto meglio Cl prima del'76, quando si buttava nell'agone politico, dialettizzava ideologicamente, faceva proposta di un suo progetto nella società. Invece adesso...»: quello che siamo adesso non lo sanno dire, non riescono a definirlo).
Fino al '73 ci andò abbastanza liscia e il convegno del Palalido si impose a tutti. Già nel '74, però, e soprattutto nel '75, non la passammo liscia. Mi ricordo perfettamente - ero in via Statuto - che nel corso di una conversazione telefonica sentii, come in un'interferenza, pronunciare le seguenti parole a noi dirette: «Questi bisogna farli fuori tutti, crescono troppo» - insieme ad altre parole che non ricordo per l'emozione che mi prese. Fu esattamente in quel periodo (dal novembre del '75 fino al febbraio successivo) che subimmo centoventi attentati nelle nostre sedi, specialmente a Milano, ma non solo.
3. Riccione, ottobre 1976
E tuttavia il nostro ideale non è affatto quello che si immaginavano i giornalisti di allora o si immagina ancora oggi la stampa: il nostro ideale non è quello di avere diritto a stare sulla terra e nella società perché sappiamo rispondere ai problemi della società, alle pretese o ai bisogni degli uomini. Rispondere ai bisogni e alle necessità della gente è in sé una cosa buona, come diceva la frase citata in apertura. Ma noi non siamo nel mondo per questo.
Perciò, nell'ottobre '76, a Riccione, di fronte a 2000 responsabili universitari, quando mi alzai in piedi per parlare mi sentivo un gran disagio dentro: tutti, fino a quel momento, coerentemente a un percorso che, come ho detto, si era sviluppato in quegli anni, non avevano fatto altro che parlare di cultura - si chiama «cultura» l'organizzazione sistematica di una concezione del vivere e di una prassi conseguente, con opere che ne possono nascere; mi sentivo a disagio, dunque, come non sapendo che cosa dire e, iniziando a parlare, di schianto affermai: «Noi non siamo qui per questo: possiamo benissimo elaborare una visione alternativa dell'uomo e della società secondo principi cristiani, continuare a moltipicare iniziative ad essa conseguenti, fondare cooperative, costruire opere, dando cosi, attraverso esse, il nostro contributo al bene comune, ma il nostro scopo di cristiani non è questo, il cristianesimo non è questo. II cristianesimo non è, come dire, un'organizzazione per sovvenire ai bisogni degli uomini». E, ultimamente - questo non lo dissi allora ma lo aggiungo ora -, il cristianesimo non ha neanche il diritto di esistere perché pensa al destino religioso dell'uomo (al destino religioso dell'uomo pensano anche le migliaia di giovani occidentali che vanno in India dai guru o coloro che si danno alle arti magiche, come nelle centinaia e migliaia di sette che nascono in America del Sud).
Pensare: «Stringiamoci insieme, uniamo tutti i nostri sforzi umani (la più nota formula di tale progetto :"Proletari di tutto il mondo unitevi"), e cosi, con l'aiuto di scienziati e di intellettuali nell'escogitare soluzioni e identificare mezzi adeguati a realizzarle, riusciremo a mettere a posto il mondo», questa è l'illusione che in tutte le epoche ha percosso l'uomo. E l'uomo in essa è sempre crollato. Si chiama utopia questa forma di ideologizzazione, questa costruzione culturale attraverso la quale, usando di tutti i mezzi a sua disposizione, teorici e pratici, l'uomo - come società - tenta di produrre la risposta a tutti i suoi bisogni, cerca insomma la strada alla felicità. Si chiama utopia e sempre crolla: perché non può essere in grado di individuare, assimilare, mettere insieme e realizzare la totalità dei fattori in gioco nella realtà. All'uomo sempre sfugge qualcosa. È così vero questo, che un uomo non è neanche capace di seguire l'utopia della sua onestà - è un'utopia anche la sua onestà, e quanto più uno parla di onesti e di disonesti tanto più è un disonesto.
«Allora per che cosa siamo qui?» - domandai. Il motivo è duplice, e il secondo è conseguenza, si potrebbe dire contingente e occasionale, del primo.
Il primo è: «Siamo qui per dire che... stavamoo camminando lungo una strada e abbiamo sentito un uomo parlare alla gente, un ideologo - ma era più che un ideologo, era un tipo serio: si chiamava Giovanni Battista - e ci siamo attardati ad ascoltarlo. Ad un certo momento, uno che era li con noi ha fatto per andarsene via. Giovanni Battista si è allora immediatamente fermato a guardare quell'uomo che se ne andava e rivolgendosi a Lui si è messo a gridare: "Ecco l'Agnello di Dio. Ecco colui che toglie il peccato del mondo". Già, un profeta parla sempre in modo strano. Ma noi, che eravamo lì per la prima volta, ci siamo staccati dal gruppo e ci siamo messi alle calcagna di quell'uomo: per una curiosità che non era curiosità, per un interesse strano, chissà chi ce l'aveva messo dentro! Lui ad un certo punto si è voltato: "Che cosa volete?”. E noi: "Dove stai di casa?", Risposta: "Venite a vedere". Siamo andati, e siamo rimasti con Lui tutto quel giorno: a guardarLo parlare, perché non si capivano le parole che diceva, ma parlava in un modo, diceva quelle parole in tal modo, aveva una tale faccia, che noi eravamo lì, stupiti, a guardarLo parlare. E quando ce ne siamo andati, poiché era ormai sera, siamo ritornati a casa, noi, con un 'altra faccia: abbiamo visto nostra moglie e nostri figli in modo diverso, tra noi e loro c'era come un velo, il velo di quella faccia. La notte nessuno dei due ha "tranquillamente" dormito, e il giorno dopo siamo andati nuovamente a cercarLo. Aveva pronunciato una frase che abbiamo ripetuto ai nostri amici: "Venite a vedere uno che è il Messia che doveva venire" (l'aveva detto Lui: "Io sono il Messia"). I nostri amici sono venuti e, anche loro, sono rimasti calamitati da quell'uomo. E alla sera, quando ci radunavamo attorno al fuoco, con i quattro pesci presi durante la notte precedente, era come se dicessimo: "Se non crediamo a un uomo cosi, non dobbiamo più credere ai nostri occhi"».
Noi siamo nel mondo per gridare a tutti gli uomini che la presenza di quest'uomo è tra noi. Tra di noi, qui e ora, c'è questa presenza strana: la presenza di Dio diventato uomo, Gesù Cristo. Il Mistero che fa le stelle, il mare e tutte le cose, e che va infinitamente al di là di ogni orizzonte che noi possiamo raggiungere, questo Mistero è diventato un uomo, è nato, a Betlemme, dal ventre di una donna: era un bambino, che poi è cresciuto, è diventato un giovane, e si è messo a discutere con chi ne sapeva più di Lui rispondendo in modo tale che tutti restavano meravigliati. Poi è diventato grande: la gente tutta Lo seguiva e, nello stesso tempo, Lo ripudiava. Erano tutti lì con la bocca spalancata a sentirLo e, nello stesso tempo, alla fine, dicevano: «È matto. Quest'uomo è matto». Oppure: «Bisogna ucciderlo perché turba il popolo» - questo lo dicevano i maggiorenti.
Noi siamo al mondo perché a noi e non ad altri, è stato reso noto che Dio è diventato un uomo. C'è tra noi un uomo, venuto tra noi 2000 anni fa e rimasto con noi («Sarò con voi tutti i giorni, fino alla fine dei mondo»), c'è tra noi un uomo che è Dio. La felicità, vale a dire il compimento dei desideri tutti dell'umanità è Lui che lo porta: alla fine, per coloro che Lo seguono. «Chi mi segue avrà la vita eterna...». E in questo mondo? Siamo destinati a rimanere disgraziati? Non conviene allora almeno tentare come fanno tutti gli altri? «Chi mi segue avrà la vita eterna e il ce tuplo quaggiù».
La conseguenza contingente del guardare Lui - del guardarLo e del sentirLo parlare, dell'andarGli dietro e del dire a tutti: «È qui, tra noi, il Dio fatto uomo; il destino e la felicità degli uomini è quest'uomo, presente tra noi» - è che si vive meglio. Chi Lo segue ha come conseguenza contingente che vive «meglio». Non «risolve», ma vive meglio anche i problemi della sua umanità vuole più bene alla donna o all'uomo, ai propri figli, a se stesso; ama gli amici più degli altri, guarda agli estranei con una gratuità e una tenerezza di cuore come fossero amici, condivide il bisogno altrui come se fosse il suo; guarda al tempo con speranza e perciò avanza con energia, usa di tutto per camminare e far camminare anche gli altri; nel dolore, rincuora; nella gioia, è cauto, intensamente cauto: intenso cioè, ma con la consapevolezza che tutto ha un limite, un limite provvisorio, perché da limite a limite l'uomo, in compagnia, cammina verso il suo destino, verso quel giorno in cui Lui riapparirà, non come è apparso in quel primo incontro a Giovanni e Andrea - i due che Gli si misero alle calcagna - ma come è apparso a un certo momento della Sua vita, sul monte Tabor, cioè risuscitato dai morti.
4. Una Presenza da riconoscere
Noi siamo qui per questa Presenza. Ma chi capisce queste cose? Genitori, preti, associazioni cattoliche? Chi capisce la differenza di cui abbiamo parlato? La differenza tra chi riconosce la Sua presenza e chi invece cerca di essere degno, di trovare spazio per sé in questo mondo, di guadagnare il diritto a vivere nella società, perché riesce a rispondere ai bisogni altrui? É una grande purificazione, è una grande illuminazione che deve albergare e dominare nel nostro animo, è una grande Grazia che ci deve capitare! È una grande Grazia che ci è capitata! Perché chi si è imbattuto nella realtà del movimento si è sentito provocare, fin dai primo giorno, proprio a quanto abbiamo detto - tanto che gli è venuto spontaneo dire: «Mi piacerebbe stare con loro».
Ecco, nel 1976, nel contesto cui si è fatto cenno, spontaneamente mi venne da affermar queste cose. Il centro della vita non è riuscire, ma riconoscere Uno. Non una riuscita, comunque concepita, ma il riconoscimento di una Presenza: questo è il problema cristiano rispetto a quello di ogni filosofia o religione. Tutte le filosofie e religioni hanno un altro scopo.
La nostra salvezza non è l'utopia - qualcosa che creiamo noi, che crea un sapiente umano o un partito: non ne avremo mai nulla di buono, avremo il peggio di prima, come sta avvenendo sotto i nostri occhi -. La nostra salvezza è una Presenza da riconoscere: non è un daffare, è un amore, dunque, il problema della vita. Quando pronuncio questa parola - quando dico che problema dell'esistenza non è un daffare, ma un amore - sul novantanove per cento delle facce leggo sempre come una confusa estraneità, poiché non si sa che cosa significhi «amare». Perché lo capissimo e potessimo viverlo è dovuto venire Dio fra di noi: «Io sono la via, la verità e la vita». È dovuto venire quest'uomo, che si chiama Gesù di Nazareth. SeguendoLo - adagio, e per una osmosi normalmente lentissima - s'incomincia a capire. A quarant'anni, a cinquant'anni, s'incomincia a capire. A settant'anni poi si capisce. E uno diventa pieno di rossore a capire, perché ha perso tanto tempo e perché riconosce che non ne è degno. Ma se non sono degno io, grande Lui; se sono miserabile io, è potente Lui: la definizione ultima del Dio vivente è la misericordia. Come ha detto Giovanni Paolo II nella sua Enciclica Dives in misericordia, la misericordia nella storia ha un nome: Gesù Cristo. Sei più potente Tu, Signore, nel Tuo amore a me, che io meschino nel mio rifiuto di Te. Non dico queste cose perché ho settant'anni. starei per dire che ho settant'anni perché le dico.
Il valore, la dignità di una persona sta nell'essere riconosciuta («come è brava, come è abile, come è scaltra») o nell'essere amata? L'unica dignità della persona sta nell'essere amata. La consistenza e la natura del mio io è quella di essere stato scelto dal Mistero. Ero niente, ci sono: mi ha scelto, cioè mi ha voluto, mi ha amato. Se la natura del mio io è l'essere scelto, amato, io appartengo a Colui che mi sceglie. Appartengo a un Altro: posso essere un fanciullo capriccioso, arrabbiarmi e far tutto quel che voglio, mille o diecimila volte al giorno, ma Gli appartengo. Fino a quando riconosco che Gli appartengo, che appartengo al mistero di Dio fatto uomo, presente qui e ora, Cristo, io sono al posto giusto e i miei mille errori si correggeranno: si correggeranno alla fine. E la strada? La strada è una tensione a correggerli: è questa la vera battaglia della vita.
Non sto nullificando niente, sto individuando ciò per cui Dio è venuto nel mondo e ha scelto noi perché Lo riconoscessimo: per la felicità che è al termine della vita, che è una letizia che accompagna questa vita e la rende più umana.
Amici miei (mai ho usato la parola «amici» cosi coscientemente), dobbiamo andare per questa strada - se siete qui è perché siete stati chiamati su questa strada -. Vorrete più bene alla donna o all'uomo, agli amici, ai figli, saprete che cosa vuol dire avere pietà, che cosa vuol dire perdonare, sacrificarsi per costruire affinché gli altri stiano meglio: sarete più umani. «Chi mi segue avrà la vita eterna - che è Lui, è il rapporto con Lui - e il centuplo quaggiù»: l'umanità che abbiamo addosso fiorirà cioè cento volte prima e più di quella degli altri e non ci sarà niente che varrà a scomporla e a conturbarla fino a farle paura. Non avrete paura di niente: «Non abbiate paura», dice Gesù tutte le volte che incomìncia a parlare.
Non una riuscita è la vita, ma riconoscimento amoroso di una presenza. È un dire «Tu». Non quel dire «noi» generico e convulso di una folla, in cui ognuno dei presenti vuole affermare accanitamente se stesso. Sappiamo che «guazzabuglio» ne deriva! Eccetto che vi sia un potere che torca e scanni tutti, che metta tutti in fila per far fare a tutti quel che lui vuole: a questo noi ci siamo sempre ribellati, perché è satanico, diabolico. L'uomo, questa è l'unica cosa bella al mondo: perché le stelle non sarebbero belle se gli occhi non le vedessero, e i fiori non sarebbero belli se lo sguardo non li cogliesse, e la donna non sarebbe bella se il cuore non l'amasse. Per questo Dio, il Dio vivente, é diventato un uomo ed è morto per l'uomo, Ed è una presenza: «Sarò con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo». La nostra compagnia è il luogo dove la Sua presenza vive, viene riconosciuta, e più facilmente amata; è luogo dove la Sua presenza perdona; ed è in forza di tale perdono che noi non possiamo più restare con le mani in mano e vogliamo fare qualcosa di bene per noi e per gli altri.
«Gesù alzati gli occhi al cielo disse: "Padre, è venuta l'ora, glorifica il Figlio Tuo”». La gloria di Cristo è il compito della vita di ognuno di noi: prete, suora o laico che sia. Anzi, starei per dire, meglio ancora se né prete, né suora. Meglio ancora nel senso che, fino a quando un prete dice: «Gesti, Gesù», gli altri sospirano: «O Maria, Maria, è un prete». Ma se per esempio un ingegnere elettronico è attento e cordiale con i suoi colleghi, li rispetta, e di fronte a certe situazioni ha uno sguardo e una parola diversi dalla retorica dietro cui tutti si nascondono e fuggono, negli altri insorge la domanda: «Perché sei così diverso?». «Perché mi è accaduto un certo incontro in cui Gesù Cristo si è reso presente alla mia vita e l'ha mossa...». Ecco, questa è la testimonianza a Cristo che tutti noi siamo chiamati a dare. Il compito della vita è testimoniare questa Presenza, riconoscerLa e testimoniarLa. Lo scopo della vita non è essere padre o madre, prete o suora, ingegnere o architetto. Queste sono tutte cose secondarie. Lo scopo della vita è la gloria di Cristo, la testimonianza a Cristo, altrimenti non si vuol bene a nessuno, tanto meno a se stessi.
Cosi avviene la dilatazione della Sua presenza nel mondo. Attraverso me e te, attraverso tutti coloro che hanno già compiuto l'incontro con Lui e Lo riconoscono, vi aderiscono e soprattutto Lo domandano: «Signore rendimi meno indegno dell'incontro con Te, fammi seguire, fammi capire». Non è pietismo, è mendicanza: «Vieni, Signore Gesù».
È attraverso la compagnia di coloro che si sono imbattuti in Lui, sinceramente L'hanno riconosciuto e, qualunque sia il loro stato d'animo, Lo accettano, cercano di seguirLo e restano in qualche modo cambiati da Lui, che la gloria di Cristo sì dilata nel mondo. Noi rendiamo presente Cristo attraverso il cambiamento che Egli realizza nella nostra umanità: il cambiamento che Egli opera in noi è il miracolo che Gli dà gloria. La Sua presenza si dilata attraverso le persone, ma soprattutto i gruppi di amici, le comunità, cioè attraverso l'unità delle persone (l'altrimenti impossibile unità, miracolo supremo) che credono in Lui, cui è già accaduto l'incontro con Lui, Lo riconoscono e fanno quel che possono. Soprattutto Lo pregano.
In un suo libro, il filosofo e sociologo americano Mcintyre - un protestante che dopo aver lavorato a tal libro si è convertito al cattolicesimo - afferma che l'unico metodo per ricostituire la nostra società disgregata è che abbiano a moltiplicarsi «nuclei di umanità diversa». A ciò dobbiamo tendere: si chiama testimonianza il dinamismo con cui vi tendiamo.
5. Un «nota bene» sulla razionalità
Quello che stiamo dicendo non si rivolge, per dir così, ai «credenti», alla categoria di coloro che hanno «scelto» di credere - in forza di una strana inclinazione - sono «predisposti» a credere. Perché si tratta dell'impatto, dell'incontro, con una presenza con la realtà dì una umanità diversa in cui Cristo si rende presente - che corrisponde alle esigenze originali del cuore umano più di qualsiasi altra cosa. Questo può accadere e rendersi sperirnentabile a qualunque uomo, che si trova perciò stesso impegnato a dire: «Corrisponde, non corrisponde».
Il criterio ultimo per cui un uomo aderisce con convinzione - ragionevolmente - a una realtà in cui si imbatte é la corrispondenza con le esigenze strutturali della sua umanità. La corrispondenza della proposta o della provocazione alle esigenze costitutive del cuore è il criterio di verità. E una traduzione non letterale di una frase di san Tommaso d'Aquino che definisce la verità come «adaequatio rei et inteliectus»: la verità si scopre attraverso l'esperienza della corrispondenza (odaequatio) tra la proposta e la coscienza di sé - di quello che siamo originalmente.
Ragionevole è ciò che corrisponde al cuore. La ragione è esigenza di una corrispondenza tra la proposta e le caratteristiche originali del cuore. É nell'esperienza di tale corrispondenza che trova dunque compimento l'umana razionalità. Perciò, se io mi imbatto nel volto di un uomo, lo sento parlare, e quel che dice, l'accento che porta, suscitano in me l'esperienza di una corrispondenza all'attesa del cuore, io lo seguo. Sarei irrazionale se non lo seguissi, se non cercassi di fare quello che posso per seguirlo. Cerco dunque di seguirlo, vado ancora a sentirlo, perché: «Chi altri parla cosi?». Lo seguo significa: gli obbedisco. È l'obbedienza l'espressione suprema della ragione, in quel rapporto tra gli uomini che costituisce l'esistenza umana nella sua totalità. Colui in cui mi sono imbattuto diventa cosi come un compagno che mi conduce al vero, al bene, al destino. Si chiama amicizia la compagnia che conduce al destino (una compagnia che non mi conduca al vero, al bene, al destino, è una fraudolenza, è una menzogna): e l'obbedienza è la virtù dell'amicizia.
Ecco, nel 1976, nel contesto cui si è fatto cenno, spontaneamente mi venne da affermar queste cose. Il centro della vita non è riuscire, ma riconoscere Uno. Non una riuscita, comunque concepita, ma il riconoscimento di una Presenza: questo è il problema cristiano rispetto a quello di ogni filosofia o religione. Tutte le filosofie e religioni hanno un altro scopo.
La nostra salvezza non è l'utopia - qualcosa che creiamo noi, che crea un sapiente umano o un partito: non ne avremo mai nulla di buono, avremo il peggio di prima, come sta avvenendo sotto i nostri occhi -. La nostra salvezza è una Presenza da riconoscere: non è un daffare, è un amore, dunque, il problema della vita. Quando pronuncio questa parola - quando dico che problema dell'esistenza non è un daffare, ma un amore - sul novantanove per cento delle facce leggo sempre come una confusa estraneità, poiché non si sa che cosa significhi «amare». Perché lo capissimo e potessimo viverlo è dovuto venire Dio fra di noi: «Io sono la via, la verità e la vita». È dovuto venire quest'uomo, che si chiama Gesù di Nazareth. SeguendoLo - adagio, e per una osmosi normalmente lentissima - s'incomincia a capire. A quarant'anni, a cinquant'anni, s'incomincia a capire. A settant'anni poi si capisce. E uno diventa pieno di rossore a capire, perché ha perso tanto tempo e perché riconosce che non ne è degno. Ma se non sono degno io, grande Lui; se sono miserabile io, è potente Lui: la definizione ultima del Dio vivente è la misericordia. Come ha detto Giovanni Paolo II nella sua Enciclica Dives in misericordia, la misericordia nella storia ha un nome: Gesù Cristo. Sei più potente Tu, Signore, nel Tuo amore a me, che io meschino nel mio rifiuto di Te. Non dico queste cose perché ho settant'anni. starei per dire che ho settant'anni perché le dico.
Il valore, la dignità di una persona sta nell'essere riconosciuta («come è brava, come è abile, come è scaltra») o nell'essere amata? L'unica dignità della persona sta nell'essere amata. La consistenza e la natura del mio io è quella di essere stato scelto dal Mistero. Ero niente, ci sono: mi ha scelto, cioè mi ha voluto, mi ha amato. Se la natura del mio io è l'essere scelto, amato, io appartengo a Colui che mi sceglie. Appartengo a un Altro: posso essere un fanciullo capriccioso, arrabbiarmi e far tutto quel che voglio, mille o diecimila volte al giorno, ma Gli appartengo. Fino a quando riconosco che Gli appartengo, che appartengo al mistero di Dio fatto uomo, presente qui e ora, Cristo, io sono al posto giusto e i miei mille errori si correggeranno: si correggeranno alla fine. E la strada? La strada è una tensione a correggerli: è questa la vera battaglia della vita.
Non sto nullificando niente, sto individuando ciò per cui Dio è venuto nel mondo e ha scelto noi perché Lo riconoscessimo: per la felicità che è al termine della vita, che è una letizia che accompagna questa vita e la rende più umana.
Amici miei (mai ho usato la parola «amici» cosi coscientemente), dobbiamo andare per questa strada - se siete qui è perché siete stati chiamati su questa strada -. Vorrete più bene alla donna o all'uomo, agli amici, ai figli, saprete che cosa vuol dire avere pietà, che cosa vuol dire perdonare, sacrificarsi per costruire affinché gli altri stiano meglio: sarete più umani. «Chi mi segue avrà la vita eterna - che è Lui, è il rapporto con Lui - e il centuplo quaggiù»: l'umanità che abbiamo addosso fiorirà cioè cento volte prima e più di quella degli altri e non ci sarà niente che varrà a scomporla e a conturbarla fino a farle paura. Non avrete paura di niente: «Non abbiate paura», dice Gesù tutte le volte che incomìncia a parlare.
Non una riuscita è la vita, ma riconoscimento amoroso di una presenza. È un dire «Tu». Non quel dire «noi» generico e convulso di una folla, in cui ognuno dei presenti vuole affermare accanitamente se stesso. Sappiamo che «guazzabuglio» ne deriva! Eccetto che vi sia un potere che torca e scanni tutti, che metta tutti in fila per far fare a tutti quel che lui vuole: a questo noi ci siamo sempre ribellati, perché è satanico, diabolico. L'uomo, questa è l'unica cosa bella al mondo: perché le stelle non sarebbero belle se gli occhi non le vedessero, e i fiori non sarebbero belli se lo sguardo non li cogliesse, e la donna non sarebbe bella se il cuore non l'amasse. Per questo Dio, il Dio vivente, é diventato un uomo ed è morto per l'uomo, Ed è una presenza: «Sarò con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo». La nostra compagnia è il luogo dove la Sua presenza vive, viene riconosciuta, e più facilmente amata; è luogo dove la Sua presenza perdona; ed è in forza di tale perdono che noi non possiamo più restare con le mani in mano e vogliamo fare qualcosa di bene per noi e per gli altri.
«Gesù alzati gli occhi al cielo disse: "Padre, è venuta l'ora, glorifica il Figlio Tuo”». La gloria di Cristo è il compito della vita di ognuno di noi: prete, suora o laico che sia. Anzi, starei per dire, meglio ancora se né prete, né suora. Meglio ancora nel senso che, fino a quando un prete dice: «Gesti, Gesù», gli altri sospirano: «O Maria, Maria, è un prete». Ma se per esempio un ingegnere elettronico è attento e cordiale con i suoi colleghi, li rispetta, e di fronte a certe situazioni ha uno sguardo e una parola diversi dalla retorica dietro cui tutti si nascondono e fuggono, negli altri insorge la domanda: «Perché sei così diverso?». «Perché mi è accaduto un certo incontro in cui Gesù Cristo si è reso presente alla mia vita e l'ha mossa...». Ecco, questa è la testimonianza a Cristo che tutti noi siamo chiamati a dare. Il compito della vita è testimoniare questa Presenza, riconoscerLa e testimoniarLa. Lo scopo della vita non è essere padre o madre, prete o suora, ingegnere o architetto. Queste sono tutte cose secondarie. Lo scopo della vita è la gloria di Cristo, la testimonianza a Cristo, altrimenti non si vuol bene a nessuno, tanto meno a se stessi.
Cosi avviene la dilatazione della Sua presenza nel mondo. Attraverso me e te, attraverso tutti coloro che hanno già compiuto l'incontro con Lui e Lo riconoscono, vi aderiscono e soprattutto Lo domandano: «Signore rendimi meno indegno dell'incontro con Te, fammi seguire, fammi capire». Non è pietismo, è mendicanza: «Vieni, Signore Gesù».
È attraverso la compagnia di coloro che si sono imbattuti in Lui, sinceramente L'hanno riconosciuto e, qualunque sia il loro stato d'animo, Lo accettano, cercano di seguirLo e restano in qualche modo cambiati da Lui, che la gloria di Cristo sì dilata nel mondo. Noi rendiamo presente Cristo attraverso il cambiamento che Egli realizza nella nostra umanità: il cambiamento che Egli opera in noi è il miracolo che Gli dà gloria. La Sua presenza si dilata attraverso le persone, ma soprattutto i gruppi di amici, le comunità, cioè attraverso l'unità delle persone (l'altrimenti impossibile unità, miracolo supremo) che credono in Lui, cui è già accaduto l'incontro con Lui, Lo riconoscono e fanno quel che possono. Soprattutto Lo pregano.
In un suo libro, il filosofo e sociologo americano Mcintyre - un protestante che dopo aver lavorato a tal libro si è convertito al cattolicesimo - afferma che l'unico metodo per ricostituire la nostra società disgregata è che abbiano a moltiplicarsi «nuclei di umanità diversa». A ciò dobbiamo tendere: si chiama testimonianza il dinamismo con cui vi tendiamo.
5. Un «nota bene» sulla razionalità
Quello che stiamo dicendo non si rivolge, per dir così, ai «credenti», alla categoria di coloro che hanno «scelto» di credere - in forza di una strana inclinazione - sono «predisposti» a credere. Perché si tratta dell'impatto, dell'incontro, con una presenza con la realtà dì una umanità diversa in cui Cristo si rende presente - che corrisponde alle esigenze originali del cuore umano più di qualsiasi altra cosa. Questo può accadere e rendersi sperirnentabile a qualunque uomo, che si trova perciò stesso impegnato a dire: «Corrisponde, non corrisponde».
Il criterio ultimo per cui un uomo aderisce con convinzione - ragionevolmente - a una realtà in cui si imbatte é la corrispondenza con le esigenze strutturali della sua umanità. La corrispondenza della proposta o della provocazione alle esigenze costitutive del cuore è il criterio di verità. E una traduzione non letterale di una frase di san Tommaso d'Aquino che definisce la verità come «adaequatio rei et inteliectus»: la verità si scopre attraverso l'esperienza della corrispondenza (odaequatio) tra la proposta e la coscienza di sé - di quello che siamo originalmente.
Ragionevole è ciò che corrisponde al cuore. La ragione è esigenza di una corrispondenza tra la proposta e le caratteristiche originali del cuore. É nell'esperienza di tale corrispondenza che trova dunque compimento l'umana razionalità. Perciò, se io mi imbatto nel volto di un uomo, lo sento parlare, e quel che dice, l'accento che porta, suscitano in me l'esperienza di una corrispondenza all'attesa del cuore, io lo seguo. Sarei irrazionale se non lo seguissi, se non cercassi di fare quello che posso per seguirlo. Cerco dunque di seguirlo, vado ancora a sentirlo, perché: «Chi altri parla cosi?». Lo seguo significa: gli obbedisco. È l'obbedienza l'espressione suprema della ragione, in quel rapporto tra gli uomini che costituisce l'esistenza umana nella sua totalità. Colui in cui mi sono imbattuto diventa cosi come un compagno che mi conduce al vero, al bene, al destino. Si chiama amicizia la compagnia che conduce al destino (una compagnia che non mi conduca al vero, al bene, al destino, è una fraudolenza, è una menzogna): e l'obbedienza è la virtù dell'amicizia.
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