venerdì 16 giugno 2023

Cosa dobbiamo imparare dai Gay Pride


Esibizionisti, arroganti, bugiardi, vittimisti, prepotenti, fautori e complici di un’evoluzione in senso totalitario del sistema politico occidentale e della mutazione antropologica che porta dritti al transumano. Aggettivi e sostantivi per esecrare la forma e i contenuti dell’azione degli attivisti che ogni anno danno vita ai Gay Pride e delle forze politiche che li fiancheggiano si affollano alla mente e alla tastiera a ogni giugno che ci passa davanti. La pretesa che tutte le istituzioni di governo del territorio concedano il patrocinio a una manifestazione che ha un preciso programma politico, che non è condiviso dalla maggioranza degli italiani, è solo l’ultimo esempio della natura autoritaria e liberticida dello spirito che anima la pseudorivoluzione Lgbtqia+ e della sinistra (sinistra?) italiana che dice di appoggiarla. Ma esecrare non basta e rischia di apparire una forma di pigrizia intellettuale e politica se non ci si pone qualche domanda sui successi del movimento che sta dietro ai Gay Pride, sulla sua efficacia a livello di formazione delle mentalità (egemonia culturale) e di condizionamento del discorso politico generale. Cosa c’è da imparare dai Gay Pride e dai movimenti da cui essi nascono, preso atto del pericolo mortale per la natura umana, per la vita politica, per la civiltà che la realizzazione dei loro programmi comporta? Quale lezione in positivo richiamano a quanti vedono in essi lo stesso genere di minaccia totalitaria e antiumana che in passato fu incarnata dai movimenti comunista e fascista?

"Il personale è politico"

La lezione è riassunta da uno slogan femminista degli anni Settanta: “Il personale è politico”. Che significa: rendersi conto che l’insoddisfazione esistenziale, i disagi relazionali, una percepita inadeguatezza personale e tanti sensi di colpa non sono problemi psicologici, non derivano da deficienze di carattere, non si risolvono concentrandosi sull’”io”, ma sono effetti dell’organizzazione politico-economica della società, rimandano a rapporti di potere che distribuiscono ruoli e prerogative fra gli esseri umani. I Gay Pride rappresentano evidentemente una conseguenza del successo dell’approccio proposto dal femminismo degli anni Settanta: la politicizzazione della sessualità e in particolare la politicizzazione dell’orientamento sessuale di cui è protagonista da alcuni decenni il movimento Lgbtqia+ nascono dalla presa di coscienza che il personale è politico. Una parte del mondo liberale e di quello conservatore hanno criticato l’approccio femminista e oggi quello genderista, fautori della politicizzazione della condizione sessuale, per due distinti motivi. Secondo alcuni vecchi liberali abbattere la paratia che separa il pubblico dal privato porta inevitabilmente allo Stato etico o comunque all’invadenza del sovrano nella vita della gente comune. Intellettuali e politici anglosassoni sei-settecenteschi insistevano sul concetto di privacy per limitare il potere del re sui singoli cittadini: l’autorità del governo, dicevano e scrivevano, si ferma sulla soglia della casa del privato cittadino. Per quanto quella casa sia una catapecchia dentro alla quale entrano la pioggia e il vento, il re e il suo governo non ci possono entrare, perché la sovranità di quel luogo è riservata al suo proprietario. Per i conservatori la politicizzazione della sessualità è riprovevole perché elimina il pudore, che è ciò che rende veramente personale, non alienato, il rapporto sessuale. Nel momento stesso in cui viene politicizzato, il sesso perde ogni pudore, diventa pubblico e perciò osceno; diventa spettacolo, e in quanto tale separa l’uomo dai suoi stessi sentimenti, lo spossessa del suo stesso corpo, ridotto a campo di battaglia di una lotta per il potere. Come ha scritto qualche anno fa Alain Finkielkraut, commentando i Gay Pride: «Quando i sensi non tremano più, l’essere non si può dire che in una sola maniera: perentoria. (…) Facendo sfilare le loro pratiche sessuali come manifestanti in collera, “i giovani gay e le giovani lesbiche” ostentano oscenità sindacale e provocazione pontificante».

Verità profonde ma incomplete

Tutte e due le critiche contengono profonde verità, ma risultano incomplete. Esiste una politicizzazione legittima del sesso, ed è quella che riguarda la negazione di diritti che rende impossibile o altamente problematica la vita affettiva di una persona. In un paese dove per esempio le leggi proibissero i matrimoni fra bianchi e non-bianchi, come era il caso del Sudafrica dell’apartheid dopo la proclamazione del Prohibition of Mixed Marriage Act del 1949, la politicizzazione della sessualità risulterebbe inevitabile da parte di coloro la cui esperienza affettiva e i cui progetti di vita vengono travolti da siffatta legislazione; lo stesso dicasi di quei paesi dove la legge punisce con la prigione o addirittura con la pena di morte comportamenti sessuali che la tradizione religiosa e la cultura popolare giudicano peccaminosi: il salto da peccato a reato costringe evidentemente il soggetto non conformista a politicizzare la propria condizione sessuale, a rivendicare come diritto un comportamento che, approvato o disapprovato sul piano morale, dovrebbe essere semplicemente ignorato dalle leggi. 
La politicizzazione della sessualità da parte della sinistra italiana è inaccettabile non per motivi di pudore o di privacy, ma perché la nostra legislazione non nega il diritto di esistere e di avere una vita affettiva a chi si sente Lgbtqia+: in Italia gli atti omosessuali sono depenalizzati dal lontano 1890, quando nei paesi anglosassoni e scandinavi che oggi si atteggiano a paladini della causa l’omosessualità era pesantemente punita dal codice penale; in quei paesi, che oggi vorrebbero impartire lezioni all’Italia, la depenalizzazione degli atti omosessuali ha avuto luogo solo negli anni Sessanta-Settanta, solo in qualche caso negli anni Quaranta. L’utero in affitto, le cosiddette adozioni omogenitoriali, la richiesta dell’istituzione del matrimonio fra persone dello stesso sesso, ecc., semplicemente non sono diritti: sono richieste di adulti che mettono il proprio personale interesse al di sopra di quello dei minori e della società, e che la società farebbe bene a respingere (purtroppo invece nella maggior parte del mondo occidentale vengono accettate). Ma l’intuizione che il personale è politico, che le esperienze intime delle nostre relazioni umane sono condizionate da rapporti di potere nella società nel suo complesso e all’interno delle società naturali e sussidiarie, e che in generale ciò che si vive nelle relazioni personali più strette dovrebbe avere incidenza anche sulla politica, è qualcosa che andrebbe riconosciuto e valorizzato; riconosciuto per gli aspetti perversi e di ingiustizia su cui accende i riflettori, ma anche valorizzato in un senso positivo che vada ben al di là di quanto è stato finora fatto da femministe e Lgbtqia+. Andrebbe riconosciuto e valorizzato dal mondo cattolico nel suo insieme, e non si può dire che la Chiesa gerarchica non abbia cominciato a riconoscerlo, mentre la valorizzazione dovrebbe essere il pane quotidiano di associazioni e movimenti ecclesiali.

Le soluzioni del Vaticano al problema degli abusi di potere

Gli interventi di Roma per la prevenzione dei delitti di pedofilia compiuti da appartenenti al clero muovono da un’analisi della situazione che attribuisce grande importanza al vissuto personale. «È difficile comprendere il fenomeno degli abusi sessuali sui minori senza la considerazione del potere, in quanto essi sono sempre la conseguenza dell’abuso di potere, lo sfruttamento di una posizione di inferiorità dell’indifeso abusato che permette la manipolazione della sua coscienza e della sua fragilità psicologica e fisica», ha detto papa Francesco al termine del summit della Chiesa sulla pedofilia del febbraio 2019. Nella stessa linea si collocano gli interventi sul rischio di appropriazione del carisma all’interno dei movimenti che alla fine hanno portato al decreto del giugno 2021 del Dicastero per i Laici, la famiglia e la vita che disciplina l’esercizio del governo nelle associazioni internazionali di fedeli. Com’è noto, esso ha stabilito limiti di tempo rigorosi ai mandati negli organi direttivi dei movimenti ecclesiali. La preoccupazione alla base del decreto è stata quella di «promuovere un sano ricambio e di prevenire appropriazioni che non hanno mancato di procurare violazioni e abusi». Violazioni e abusi che in questi anni abbiamo visto accadere (e tuttora accadono) sotto forma di situazioni di dipendenza psicologica individuale e collettiva coltivate piuttosto che combattute da chi aveva la responsabilità di ruoli di guida. Tante persone sono state infantilizzate e manipolate sfruttando le debolezze umane: la paura dell’isolamento sociale che alimenta lo spirito gregario, l’aridità affettiva che spinge ad attaccarsi alle personalità suggestive, i sensi di colpa e di inadeguatezza personale abilmente coltivati da chi propone la sottomissione alla propria persona e l’adesione al proprio discorso e ai propri progetti come la via d’uscita dalle crisi personali. Più che personalità di fede mature in grado di aiutare i fratelli e le sorelle nella comunità a far fruttificare il carisma incontrato, certi leader spirituali di alto e di medio livello sembrano comportarsi come maschi alfa intenti ad esercitare il loro ruolo dominante all’interno del branco. Roma ha percepito la gravità della situazione, ed è intervenuta.

L'amicizia con Cristo mette in moto l’umano e genera opere

Ma ancora più importante del riconoscimento degli aspetti critici contenuti nel fatto che “il personale è politico”, è la valorizzazione che i laici cattolici dovrebbero farne. I prodotti sociali ed esistenziali di quel dono di grazia che è l’incontro con Cristo sono l’abolizione dell’estraneità fra coloro che lo riconoscono, l’aumentata stima di sé fondata sulla coscienza della forza che viene da un Altro, la certezza del senso e della bontà ultima delle cose e della vita, propria e altrui. Unità, amicizia, comunione, appartenenza reciproca sono i vocaboli che più esprimono l’esperienza esistenziale, la dinamica relazionale, la coscienza di sé come parte di qualcosa di più grande di sé che caratterizzano gli esseri umani che hanno incontrato Cristo. Tutto ciò si riflette sull’intera vita della persona, e quindi certamente anche sulla vita politica. In questo senso è stata esemplare l’esperienza di Comunione e Liberazione fra gli anni Settanta del secolo scorso e il primo decennio di quello attuale, accusata a torto e quasi sempre in malafede di integralismo. Per CL non si è mai trattato di imporre i precetti cristiani nelle leggi positive, o di credere che i cristiani hanno risposte e soluzioni politiche in quanto cristiani. CL ha richiamato al fatto che l’unità vissuta dei cristiani mette in moto l’umano (che i cristiani hanno in comune con tutti gli esseri umani) in un modo tale che nascono iniziative, proposte, opere, battaglie che offrono risposte e che offrono senso alle questioni politiche. Si è trattato perciò di agire nella vita pubblica a partire da quel cambiamento della personalità che avveniva prendendo parte all’esperienza di comunione che si faceva nella comunità cristiana. Esperienza fatta di volti precisi, di rapporti reali, di storie, di affetti. Quella stagione è stata l’equivalente in campo cattolico dell’affermazione femminista secondo cui “il personale è politico”. Un’esperienza da recuperare e da riprendere.

Rodolfo Casadei, giornalista e inviato speciale del periodico Tempi






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