martedì 31 gennaio 2017

Lettera dal fronte: E se anche i farmacisti diventassero obiettori?

Il 4 maggio 2016 è stata presentata in Parlamento la proposta di legge di iniziativa dei deputati Gian Luigi Gigli e Mario Sberna, intitolata Disposizioni concernenti il diritto all’obiezione di coscienza per i farmacisti.

Il provvedimento si struttura in un solo articolo, composto di quattro commi e propone una disciplina per il riconoscimento e l’esercizio del diritto all’obiezione di coscienza dei farmacisti.

La questione maggiormente dibattuta riguarda senza dubbio la c.d. “pillola del giorno dopo”: è giusto concedere anche al farmacista il diritto all’“obiezione di coscienza” nei casi di somministrazione di farmaci abortivi?

Di seguito, pubblichiamo le autorevoli opinioni dell’Avv. Leotta, favorevole all’estensione del diritto anche ai farmacisti. Opinioni che sono prima state pubblicate qui, sito che vi consigliamo di visitare per partecipare alla votazione.
- Le previsioni del d.d.l. Atto C. 3805 sull’obiezione di coscienza dei farmacisti

La proposta di legge di iniziativa dei deputati Gian Luigi Gigli e Mario Sberna (Scelta Civica), intitolata Disposizioni concernenti il diritto all’obiezione di coscienza per i farmacisti (Atto C. 3805), presentata il 4 maggio 2016, si struttura in un solo articolo composto di quattro commi e propone una disciplina per il riconoscimento e l’esercizio del diritto all’obiezione di coscienza dei farmacisti, nei termini che seguono: a) Il titolare del diritto all’obiezione di coscienza: il professionista iscritto nell’Albo professionale

Il requisito soggettivo per l’esercizio del diritto all’obiezione di coscienza è l’iscrizione all’Albo professionale. Può esercitare il diritto all’obiezione, secondo quanto prevede l’art. 1, comma 1, d.d.l., il farmacista titolare, il direttore di farmacia, il collaboratore di farmacie pubbliche o private. La farmacia può essere pubblica o privata, aperta al pubblico o interna ad aziende ospedaliere o a strutture sanitarie private autorizzate o accreditate.

Il titolare della farmacia è colui che, ai sensi dell’art. 11, legge 2 aprile 1968, n. 475 (Norme concernenti il servizio farmaceutico), “ha la responsabilità del regolare esercizio e della gestione dei beni patrimoniali della farmacia” (sugli obblighi del titolare v. anche art. 123, r.d. 27 luglio 1934, n. 1265, T.U. delle leggi sanitarie).

Come prescrive l’art. 7, legge 8 novembre 1991, n. 362, la titolarità dell’esercizio della farmacia privata è riservata a persone fisiche oppure a società di persone o società cooperative a responsabilità limitata. Quando la farmacia è gestita in forma societaria, la società deve avere come oggetto esclusivo la gestione della farmacia (fino ad un massimo di quattro ubicate nella provincia in cui ha la sede legale) e ne possono essere soci solo professionisti iscritti all’Albo. In tali casi, la direzione è affidata ad uno dei soci che ne è responsabile (art. 7 cit., comma 3 e comma 4-bis).

Parimenti, la figura del direttore opera nelle farmacie comunali e in quelle ospedaliere (previa procedura concorsuale ex art. 10, legge n. 475 del 1968) e, ai sensi dell’art. 121, r.d. n. 1265 del 1934, nelle farmacie delle istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza.

b) Il contenuto dell’atto di obiezione di coscienza: farmaci abortivi o finalizzati alla sedazione terminale

Sotto un profilo oggettivo, il diritto di obiezione di coscienza può essere esercitato solo rispetto alla somministrazione di due categorie specifiche di prodotti, i quali abbiano effetti potenzialmente abortivi ovvero siano prescritti ai fini della sedazione terminale (art. 1, comma 1, d.d.l.). A proposito dell’obiezione alla somministrazione dei farmaci eutanasici, il d.d.l. compie una scelta parzialmente discutibile posto che le pratiche eutanasiche non sono consentite nel nostro ordinamento. È ovviamente esclusa dal diritto all’obiezione la somministrazione di farmaci per la terapia antidolore, anche quando questi accelerino l’evento letale.

c) Il limite all’esercizio del diritto di obiezione: la fondatezza scientifica

L’esercizio del diritto all’obiezione di coscienza comporta, secondo il testo del progetto di legge, una serie di obblighi e di limiti.

Il primo è previsto dall’art. 1, comma 1, d.d.l. e lo si può definire come “fondamento scientifico” dell’obiezione: il professionista non può addurre una mera obiezione “di coscienza”, ma una “obiezione di scienza e coscienza”. Ciò significa, che egli deve essere in grado di conoscere e di rendere le ragioni scientifiche in base alle quali il prodotto che non intende distribuire può avere effetti abortivi o eutanasici. La formula usata nella proposta di legge è esigente e opportuna perché implica che il farmacista si debba informare adeguatamente, secondo le migliori acquisizioni del momento. Pare potersi ritenere in proposito che, ove sussista una difficoltà nel conoscere completamente gli effetti o i rischi, si possa ricorrere a due principi fondamentali: i) il principio di precauzione, in base al quale il requisito scientifico è rispettato anche se gli effetti abortivi o eutanasici sono solo probabili; e ii) il principio di libertà scientifica del professionista, in base al quale, affinché egli possa esercitare correttamente il diritto di obiezione, non si richiede l’unanimità della comunità scientifica sugli effetti del prodotto, ma una condivisione ragionevole, ancorché non unanime, da parte degli esperti.

d) Gli obblighi informativi interni e esterni

Il secondo e il terzo requisito per il corretto esercizio dell’obiezione consistono in obblighi informativi. Nell’un caso si tratta di un obbligo informativo interno: gli obiettori sono obbligati, ai sensi del comma 2, a dare comunicazione della propria scelta “al titolare della farmacia ovvero al direttore dell’azienda ospedaliera, nel caso di personale dipendente, o al direttore sanitario, nel caso di personale dipendente da una struttura sanitaria privata autorizzata o accreditata”.

Nell’altro caso si tratta di un obbligo informativo esterno: il comma 3 prescrive che il titolare della farmacia ovvero il direttore dell’azienda ospedaliera o il direttore sanitario della struttura sanitaria privata autorizzata o accreditata fornisca agli utenti “le opportune informazioni sull’ubicazione delle strutture più vicine nelle quali operino farmacisti non obiettori di coscienza”.

e) L’obbligo di comunicazione del titolare o del direttore della farmacia

Il quarto requisito per un corretto esercizio dell’obiezione di coscienza previsto nel d.d.l. si concretizza in un obbligo comunicativo che, tuttavia, non è posto in capo (necessariamente) all’obiettore, il quale può essere un soggetto diverso dal titolare della farmacia, ma piuttosto in capo a quest’ultimo ovvero in capo al direttore dell’azienda ospedaliera o al direttore sanitario della struttura sanitaria privata autorizzata o accreditata. Tale obbligo consiste nel comunicare all’assessore regionale competente l’esercizio del diritto all’obiezione. L’assessore, a sua volta, deve provvedere ad inviare a tutte le farmacie, per l’affissione al pubblico, l’elenco delle farmacie del Comune, se capoluogo di provincia, o dei comuni limitrofi, negli altri casi, nelle quali non è stata sollevata l’obiezione.

- Il fondamento del diritto all’obiezione di coscienza previsto nel d.d.l.

Esaminata la disciplina che il d.d.l. intende introdurre, si tratta ora di verificare da un lato se, sul piano dei princìpi, si possa ragionevolmente configurare un diritto all’obiezione del farmacista rispetto alla somministrazione di prodotti potenzialmente letali per il concepito o per il malato terminale, e dall’altro, in caso di risposta positiva alla prima domanda, quale possano essere le modalità di esercizio dell’obiezione.

Cominciando dal suo fondamento, occorre osservare che l’obiezione di coscienza rappresenta un diritto fondamentale della persona che non attiene solo, né principalmente, la sfera del suo credo religioso e che, anzi, da quest’ultimo ha una piena autonomia: la coscienza, quale insieme delle convinzioni di valore che determinano il singolo nelle scelte e nell’agire, costituisce, infatti, il luogo “sacro” per ciascuno, a prescindere dal motivo che porta a maturare una determinata convinzione.

Per questo, le carte dei diritti distinguono tra libertà religiosa e libertà di coscienza: quest’ultima, in quanto tale, è un diritto che spetta nel suo esercizio concreto anche a chi non compie alcuna scelta religiosa positiva.

- La coscienza è “principio creativo che rende possibile la realtà delle libertà fondamentali dell’uomo” (Corte Cost., n. 467/1991)

La tutela della coscienza trova la propria fonte, nella nostra Carta costituzionale, negli artt. 2, 19 e 21.

Una chiara (ed autorevole) trattazione sulla libertà di coscienza la si deve alla Corte Costituzionale che, nella sentenza 16-19 dicembre 1991, n. 467, afferma che la protezione della coscienza individuale è strettamente connessa con la tutela delle libertà fondamentali e dei diritti inviolabili dell’art. 2 Cost., “dal momento che non può darsi una piena ed effettiva garanzia di questi ultimi senza che sia stabilita una correlativa protezione costituzionale di quella relazione intima e privilegiata dell’uomo con se stesso che di quelli costituisce la base spirituale-culturale e il fondamento di valore etico-giuridico”.

Nella stessa sentenza, la Corte ritiene che “la coscienza individuale ha rilievo costituzionale quale principio creativo che rende possibile la realtà delle libertà fondamentali dell’uomo e quale regno delle virtualità di espressione dei diritti inviolabili del singolo nella vita di relazione”; pertanto, “essa gode di una protezione costituzionale commisurata alla necessità che quelle libertà e quei diritti non risultino irragionevolmente compressi nelle loro possibilità di manifestazione e di svolgimento a causa di preclusioni o di impedimenti ingiustificatamente posti alle potenzialità di determinazione della coscienza medesima”.

Una simile affermazione, se la si legge con attenzione, non equivale per nulla al riconoscimento di un diritto generalizzato all’obiezione di coscienza (che sarebbe irresponsabile); dalle premesse di cui si è ora detto, infatti, la Consulta fa discendere che “quando sia ragionevolmente necessaria rispetto al fine della garanzia del nucleo essenziale di uno o più diritti inviolabili dell’uomo, quale, ad esempio, la libertà di manifestazione dei propri convincimenti morali o filosofici (art. 21 della Costituzione) o della propria fede religiosa (art. 19 della Costituzione) - la sfera intima della coscienza individuale deve esser considerata come il riflesso giuridico più profondo dell’idea universale della dignità della persona umana che circonda quei diritti, riflesso giuridico che, nelle sue determinazioni conformi a quell’idea essenziale, esige una tutela equivalente a quella accordata ai menzionati diritti, vale a dire una tutela proporzionata alla priorità assoluta e al carattere fondante ad essi riconosciuti nella scala dei valori espressa dalla Costituzione italiana”.

Una volta appurato, pertanto, che la protezione della coscienza individuale diventa un medium per proteggere diritti senza il cui esercizio (o, meglio, senza la cui possibilità di esercizio) non vi è rispetto della dignità umana, e fermo restando la necessaria quanto “delicata opera del legislatore diretta a bilanciarla con contrastanti doveri o beni di rilievo costituzionale e a graduarne le possibilità di realizzazione in modo da non arrecar pregiudizio al buon funzionamento delle strutture organizzative e dei servizi d’interesse generale, la sfera di potenzialità giuridiche della coscienza individuale rappresenta, in relazione a precisi contenuti espressivi del suo nucleo essenziale, un valore costituzionale così elevato da giustificare la previsione di esenzioni privilegiate dall’assolvimento di doveri pubblici qualificati dalla Costituzione come inderogabili (c.d. obiezione di coscienza)”.

- La protezione della coscienza nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo e nelle fonti universali dei diritti dell’uomo

Nessun dubbio neppure per la Corte europea dei diritti dell’uomo che parlare di “coscienza” implichi un’attinenza solo “accidentale” con la libertà religiosa, ancorché i diritti alla libertà di coscienza e alla libertà religiosa siano entrambi previsti sotto l’art. 9 Conv. eur. dir. uomo (v., ad esempio, Corte EDU, Savda c. Turchia, 42730/05, 12 giugno 2012, par. 96). D’altronde proprio come la Corte dichiarò, oltre vent’anni fa, in applicazione dell’art. 9 Conv. eur. dir. uomo, “the freedom of thought, conscience and religion is one of the foundations of a democratic society within the meaning of the Convention. It is, in its religious dimension, one of the most vital elements that go to make up the identity of the believers and their conception of life, but it is also a precious asset for atheist, agnostics, sceptics and unconcerned” (Kokkinalkis c. Grecia, 14307/88, 25 maggio 1993, par. 31).

In Bayatyan c. Armenia, (23459/03, 7 luglio 2011), la Grande camera, in un caso di obiezione al servizio militare obbligatorio, ha insistito, con una delicata decisione che ribaltava quella della Sezione III (2009), sui requisiti della “serietà” e della “insuperabilità” del conflitto tra coscienza e imposizione della legge, affinché l’individuo possa godere della disciplina convenzionale dell’art. 9. Al fine di non incorrere nei limiti imposti dal rinvio alla legge dello Stato operato dall’art. 4, par. 3, lett. b) Conv. – che, prevedendo il divieto di lavoro forzato, contempla anche il caso del militare obiettore – la Corte fa così prevalere sull’art. 4, par. 3, lett. b) la protezione più estesa dell’art. 9 Conv. Affermano a proposito i giudici europei dei diritti umani: “Article 9 does not explicitly refer to a right to conscientious objection. However, it considers that opposition to military service, where it is motivated by a serious and insurmountable conflict between the obligation to serve in the army and a person’s conscience or his deeply and genuinely held religious or other beliefs, constitutes a conviction or belief of sufficient cogency, seriousness, cohesion and importance to attract the guarantees of Article 9” .

Il diritto alla tutela della propria coscienza si rinviene anche nelle fonti sui diritti umani a vocazione universale e, precisamente, nell’art. 18 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (1948) e nell’art. 18 del Patto sui diritti civili e politici delle Nazioni unite (1966).

- Di fronte al “conflitto serio ed insanabile” tra obbligo imposto dalla legge e coscienza, la protezione di quest’ultima, nello stato di diritto, deve essere la regola, non l’eccezione

Alla luce dell’insegnamento della Corte Costituzionale del 1991, la quale evidenzia in modo cristallino il legame coscienza-dignità umana, è possibile affermare che la tutela della coscienza individuale non rappresenta una possibilità, ma un obbligo del legislatore in tutti i casi in cui, per usare ancora le parole del nostro giudice delle leggi, ciò si renda necessario “al fine della garanzia del nucleo essenziale di uno o più diritti inviolabili dell’uomo, quale, ad esempio, la libertà di manifestazione dei propri convincimenti morali o filosofici (art. 21 della Costituzione) o della propria fede religiosa (art. 19 della Costituzione)”.

La prospettiva del giudice europeo non è dissimile, considerato che, come avviene nel caso Bayatyan sopra menzionato, la Corte consenta l’accesso alle tutele dell’art. 9 Conv. ove sia presente un conflitto serio e insormontabile tra legge e coscienza.

Facendo sintesi tra le indicazioni della nostra Corte Costituzionale e quelle della Corte europea, il test che occorre, dunque, compiere, per evitare affermazioni di principio astratte o ideologiche pro o contro l’obiezione dei farmacisti, consiste nel rispondere a questa domanda: “tutelare la coscienza del farmacista dinnanzi alla somministrazione di prodotti potenzialmente abortivi o eutanasici è un medium per tutelare un suo diritto fondamentale, cioè la sua libertà di pensiero (art. 21 Cost.) o di religione (art. 19 Cost.)”? Ovvero: “obbligare il farmacista a somministrare prodotti che secondo scienza e coscienza sono (almeno potenzialmente) letali per il concepito o per il malato terminale crea un conflitto serio e insormontabile tra la sua coscienza e la legge dello Stato”?

Il quesito potrebbe essere formulato anche in altro modo, chiedendosi se sia o meno importante per una società democratica quello che il farmacista pensa e quello che pensa di dover fare quando si pone l’interrogativo deontologico: “È giusto che, io, come farmacista, venda un farmaco che ritengo, secondo le mie conoscenze professionali, abortivo o eutanasico?”. Infatti, l’obiezione di coscienza poggia sul seguente principio: non obbligare il singolo a fare quello che egli ritiene sia sbagliato fare. Tuttavia, proprio perché il diritto all’obiezione comporta una deroga da quello che “nella norma” è un obbligo, il conflitto coscienza-legge – come ben mette in evidenza la Corte europea in Bayatyan c. Armenia – deve essere, oltre che insuperabile, “serio”, cioè deve vertere su di un tema rilevante per l’ordinamento.

Se si imposta il “problema” in questi termini, si comprende che il diritto all’obiezione di coscienza non può essere riconosciuto sempre, ma solo se imporre all’obiettore di agire in modo diverso da come pensa comporta un’offesa alla sua dignità di persona, capace, anche alla luce della sua preparazione professionale, di formulare un giudizio bene/male su temi “seri” e, dunque, meritevoli di apprezzamento. Per un ordinamento giuridico riconoscere il diritto all’obiezione di coscienza equivale a dire: “ha un valore giuridicamente apprezzabile il tuo pensiero su questo tema ‘serio’ e la tua scelta di agire secondo il tuo pensiero”.

Lo Stato, dunque, è tenuto a riconoscere il diritto all’obiezione di coscienza (solo) nelle situazioni in cui la frase rivolta al consociato: “non è degna di valore e di protezione giuridica la tua idea su questo tema e la tua volontà di agire di conseguenza” suoni come offensiva della dignità personale.

- Perché il farmacista deve poter esercitare il diritto all’obiezione di coscienza nella somministrazione di prodotti abortivi

Agli interrogativi:

“Di fronte alla somministrazione del farmaco abortivo o eutanasico è giuridicamente apprezzabile quello che pensa il farmacista e il modo in cui pensa di doversi comportare?”

ovvero

“Il pensiero e il giudizio di valore del farmacista vertono su di un tema importante, tale per cui, se dovesse pensarla diversamente dalla legge, si istaurerebbe per lui un conflitto “serio e insormontabile” tra legge e coscienza?”

non può non rispondersi positivamente, pena cadere nelle aporie di cui si dirà immediatamente.

Ecco perché il farmacista che si trova dinnanzi alla scelta se somministrare o meno un farmaco potenzialmente lesivo dell’altrui diritto alla vita ha diritto all’obiezione di coscienza. Gode di tale diritto perché il tema su cui si pone la domanda “cosa fare?” è di massima rilevanza per l’ordinamento: il rispetto della vita altrui, primo tra tutti i diritti, è, infatti, il tema “più serio” nell’esperienza giuridica e politica ordinata in conformità alla dignità umana.

Una diversa risposta, cioè una risposta negativa, alle due domande di cui sopra – la quale porterebbe ad affermare che l’ordinamento non è tenuto a valutare come meritevole di apprezzamento quello che il consociato pensa a proposito delle conseguenze negative che la propria condotta può sortire sulla vita altrui – non potrebbe che discendere da due premesse, entrambe assai preoccupanti. La prima: per l’ordinamento la tutela della vita del concepito e del malato terminale è tema poco “serio”, quindi il legislatore non deve ammettere deroghe all’esercizio politico della propria discrezionalità. La seconda: il tema è serio, ma il consociato non deve essere posto nelle condizioni di decidere liberamente e secondo ragione sulla moralità della propria condotta in relazione a tale tema, pretendendo di astenersi da comportamenti che, per quanto consentiti o richiesti, ritenga dannosi, pericolosi od offensivi per altri (nel caso di specie per il concepito e il malato terminale).

Entrambe queste soluzioni porterebbero ad affermazioni gravemente offensive della dignità della persona: nel primo caso, disconoscendo la serietà dell’interrogativo sul valore del bene vita del concepito o del malato, si afferma che tali beni non hanno valore; nel secondo, disconoscendo al professionista la possibilità di esprimere giudizi morali su temi seri, si nega la sua “idoneità morale”, cioè in fondo la sua natura di soggetto libero e razionale. Sarebbe, in tutte e due le ipotesi, un giudizio di unfitness (inidoneità, non meritevolezza): ora sono (biologicamente) unfit il concepito e al malato terminale; ora è (moralmente) unfit il farmacista che non vuole vendere la pillola abortiva.

Per tali ragioni è quanto mai auspicabile una norma che riconosca il diritto all’obiezione di coscienza del farmacista; contrapporsi al riconoscimento di tale diritto vuol dire sospettare, in fondo, di chi ha una coscienza più sensibile rispetto a quella dei più, che ha preso forma in una legge dello Stato. Vuol dire, cioè, temere, una forma di diversità intellettuale e morale forse perché, prima ancora dei diritti dei controinteressati, si ode nel farmacista “dissenziente” il sussurro della “voce della coscienza” che disturba l’uniformità pacificante della “volontà generale”.

- Le modalità di esercizio dell’obiezione di coscienza dei farmacisti: perché il d.d.l. C. 3805 fa un buon bilanciamento tra interessi in gioco

Una volta riconosciuto che, dinnanzi ad una certa scelta di comportamento, che può generare un conflitto “serio” e “insormontabile” tra legge e coscienza, la persona deve poter essere posta nelle condizioni di pensare “diversamente” da quanto prescrive la legge, occorre ancora considerare se, considerata la concretezza della situazione sociale, economica e politica, il riconoscimento dell’obiezione di coscienza (che comporta un adempiereun obbligo imposto) bilanci ragionevolmente gli interessi in gioco contrapposti. Un conto è, infatti, pensare contra legem, il che è sempre lecito, un conto è poter agire, “lecitamente” contro di essa.

L’obiezione di coscienza, ad esempio, non può essere invocata se sacrifica un altrui diritto fondamentale della persona, quale anzitutto il diritto alla vita. Ne discende, ad esempio, che ad essa non si possa appellare chi è titolare di un obbligo di protezione del diritto alla vita altrui. Neppure, ad avviso di chi scrive, può invocare l’obiezione di coscienza il contribuente per non pagare le tasse, protestando perché lo Stato usa “i suoi soldi” per finalità che egli non condivide, come per fare la guerra o gli aborti (casi questi ben diversi da quelli dell’obiezione di coscienza del militare e del medico).

Nel procedere, nel caso di specie, al bilanciamento tra interessi del professionista e interessi di terzi, occorre, dunque, chiedersi quale diritto o facoltà di questi rischiano di essere compromessi dall’esercizio dell’obiezione di coscienza del farmacista?

A ben vedere, si tratta essenzialmente dell’interesse ad ottenere in qualsiasi farmacia un prodotto farmacologico con potenziali effetti abortivi o di sedazione terminale. Il cliente della farmacia, in effetti, “ha dalla sua” quanto è previsto dall’art. 15, legge 2 aprile 1968, n. 475, che riconosce “ad ogni cittadino, anche se assistito in regime mutualistico, il diritto di libera scelta della farmacia”.

Tuttavia, il consociato, pur vedendosi effettivamente limitato nel diritto alla libera scelta della farmacia, non viene frustrato né inibito nella possibilità di ottenere comunque tale prodotto. Infatti, è lo stesso titolare o direttore della farmacia, secondo quanto prevede il comma 3 dell’art. unico del d.d.l., che deve fornire “le opportune informazioni sull’ubicazione delle strutture più vicine nelle quali operino farmacisti non obiettori”. Non solo, ma il successivo comma 4 stabilisce, come già si è detto, che l’assessore competente invii a tutte le farmacie, affinché ne sia fatta affissione, “l’elenco delle farmacie del comune, se capoluogo di provincia, o dei comuni limitrofi, negli altri casi, nelle quali non è stata sollevata l’obiezione di coscienza”.

Nella pratica, la limitazione del diritto che è imposta al cliente è certamente proporzionata perché comporta, dinnanzi ad un beneficio considerevole – consentire ad una categoria di cittadini di agire fuori da una situazione di conflitto “serio” e “insormontabile” tra coscienza e legge – un disagio tollerabile per il cliente della farmacia. Tale sacrificio, nella prassi, non sembra troppo diverso da quello che egli deve sopportare quando necessita un farmaco in giorni festivi o in orari notturni: in quel frangente, come a tutti è capitato, ci si reca nella farmacia più vicina e, salvo che questa non sia aperta, si verifica nell’apposito elenco esposto quale sia la farmacia “di turno”.

A proposito si ricordi, peraltro, che il servizio farmaceutico italiano è tale per cui, come prevede l’art. 1, comma 2, legge n. 475 del 1968, il rapporto farmacia-popolazione è di una farmacia ogni 3.300 abitanti. Le farmacie, dunque, ci sono!

Non solo: anche il cliente consumatore di prodotti con potenziali effetti letali per il concepito e il malato terminale potrebbe paradossalmente avere un vantaggio in virtù dell’obiezione del farmacista: tiene sveglia la coscienza, infatti, venire a sapere che “qualcuno la pensa diversamente!”.

- L’obiezione del farmacista in rapporto all’obiezione del medico alla pratica dell’aborto, nella legge 22 maggio 1978, n. 194

Un ultimo argomento che merita di essere trattato riguarda il rapporto tra il diritto all’obiezione di coscienza del farmacista e la disciplina prevista per il medico obiettore rispetto alle pratiche di aborto, ai sensi dell’art. 9 della legge n. 194 del 1978.

Ivi si stabilisce che “il personale sanitario ed esercente le attività ausiliarie non è tenuto a prendere parte alle procedure di cui agli articoli 5 e 7 ed agli interventi per l’interruzione della gravidanza quando sollevi obiezione di coscienza, con preventiva dichiarazione” (comma 1).

Come noto, “l’obiezione di coscienza esonera il personale sanitario ed esercente le attività ausiliarie dal compimento delle procedure e delle attività specificamente e necessariamente dirette a determinare l’interruzione della gravidanza, e non dall’assistenza antecedente e conseguente all’intervento” (comma 3). Inoltre “l’obiezione di coscienza non può essere invocata dal personale sanitario, ed esercente le attività ausiliarie quando, data la particolarità delle circostanze, il loro personale intervento è indispensabile per salvare la vita della donna in imminente pericolo” (comma 5).

Le due limitazioni al diritto all’obiezione di coscienza del medico sono ragionevoli perché non vanno ad intaccare la scelta del professionista di non praticare l’aborto che rimane salva; più precisamente, egli non può invocare il diritto di astenersi da un intervento perché le due condotte prescritte non implicano un facere causale alla soppressione del concepito, ma un trattamento volto a beneficio della salute della donna.

Il fatto che simili limitazioni non siano previste nel d.d.l. in commento non consente di affermare che le previsioni a favore del farmacista siano sproporzionate rispetto all’obiezione del medico “anti-abortista”, con le quali anzi ben si armonizzano. Infatti, è in re ipsa che il farmacista non possa rifiutarsi dal somministrare farmaci che si rendono necessari prima o dopo l’assunzione dei prodotti abortivi o eutanasici poiché in questo caso tale somministrazione, in termini simili a quanto avviene nel caso del medico obiettore, non innesca nessun rapporto causa-effetto con il possibile evento letale del concepito o del malato, rimanendo così “fuori” dal diritto all’obiezione.

Ad ogni buon conto, una norma che espliciti quanto si è ora precisato potrà essere inserita nel corso dei lavori parlamentari. Parimenti è auspicabile che sia chiarito qual è il potere decisionale del farmacista obiettore che sia al contempo titolare o direttore di farmacia rispetto alla somministrazione del prodotto da parte dei farmacisti collaboratori non obiettori; così pure che siano inserite norme a tutela del farmacista collaboratore obiettore quando svolga la professione in una farmacia il cui titolare non è obiettore.

Su questo, come su altri aspetti (tra cui proprio quello del coordinamento tra obiezione del farmacista e del medico anti-abortista) potrà essere di utilità un confronto con il d.d.l. Atto S.1087, Disposizioni in materia di definizione e regolamentazione dei diritto all’obiezione di coscienza da parte dei farmacisti, presentato il 9 ottobre 2013, su iniziativa dei senatori Luigi D’Ambrosio Lettieri e Andrea Mantelli (PdL). Quest’ultimo testo prevede, peraltro, che “il presidio sanitario nel quale opera il farmacista obiettore di coscienza, sia esso una farmacia pubblica, privata od ospedaliera o un servizio farmaceutico dell’azienda sanitaria locale che svolge attività di distribuzione diretta di farmaci, deve sempre garantire l’intervento di un farmacista che possa in ogni caso dare corso alla spedizione della ricetta e alla conseguente consegna del farmaco, nel rispetto dei tempi utili per una sua corretta ed efficace assunzione, così come indicati dalla prescrizione medica”.






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