Un impegno concreto: più buoni per tutti
-
Scorie - I banchieri centrali non sono eroi
-
Distruzione di statue e monumenti negli USA, una forsennata corsa verso il nulla. - Rischio Calcolato
-
PENSIONI RIFORMATE PIÙ VOLTE, MA RESTA SEMPRE E SOLO UNO SCHEMA PONZI - Rischio Calcolato
-
Così si cambia la Dottrina sociale della Chiesa
-
Ischia, terremoto. Boschi «Morti e danni dovuti alla mancanza di prevenzione»
-
Sbarchi? Spariti. Morbillo? Sparito. Crisi in Qatar? Sparita. Si vive di emergenza politica, non di realtà - Rischio Calcolato
-
Di cosa parlano i capi di stato quando si riuniscono nel Consiglio Europeo?
-
Il trogloditismo progressista e l'odio verso il passato
-
Scorie: Scorie - Legge di bilancio e numeri in libertà
-
Gay scout dell’Avvenire
-
Il ruolo fondamentale dell’Africa nell’attuazione della Nuova Via della Seta
-
Ischia, Bertolaso: «Se costruisci un castello di carte, basta una scossa per farlo venire giù»
-
Le vere “fake news”: Papa Francesco e l’immigrazione – Moto Retrogrado
-
Sochi caput mundi: Israele e Vaticano (anche per conto del governo) trattano con Putin. E Merkel... - Rischio Calcolato
-
Alfie, la ricerca di un ospedale: parte la campagna
-
L’Islanda vuole diventare il primo paese down free. «Un impossibile sogno eugenetico»
-
LA NATO DI RIGA HA INDICATO IL NUOVO NEMICO: I BLOG. E L’ITALIA HA FIRMATO. - Rischio Calcolato
-
L'aborto di tutti i Down come libera scelta? Era la speranza dell'eugenetica
-
Il partito unico dei condoni
-
Non ha fine la tempesta di "Amoris laetitia". A Francesco la quiete non piace
▼
sabato 26 agosto 2017
mercoledì 23 agosto 2017
martedì 22 agosto 2017
Obice: Il Fatto Quotidiano e quel suo scoop che non c'è
“Da cinquecent'anni quelli che si dicono spiriti liberi perché hanno disertato la Milizia per gli Ergastoli smaniano per assassinare una seconda volta Gesù. Per ucciderlo nei cuori degli uomini. Appena parve che la seconda agonia di Cristo fosse ai penultimi rantoli vennero innanzi i necrofori. Bufoli presuntuosi che avevan preso le biblioteche per stalle; cervelli aerostatici che credevano di toccare le sommità del cielo montando nel pallon volante della filosofia; professori insatiriti da fatali sbornie di filologia e di metafisica si armarono – l'Uomo vuole! - come tanti crociati contro la Croce”. Sono le parole che Giovanni Papini ha usato nell'introduzione alla sua Storia di Cristo e che sicuramente avrebbe dedicato oggi ai giornalisti di Millennium, mensile del Fatto Quotidiano, in particolare a Ersilio Mattioni, il quale si è infiltrato dentro i confessionali di Milano e provincia, fingendosi un cattolico perplesso nei confronti di papa Francesco, per poi scrivere un presunto scoop.
A questo punto, credo si possano fare due riflessioni. Il giornalista e tutti i suoi colleghi, tra cui direttore del cartaceo Marco Travaglio e il direttore online Peter Gomez, hanno commesso un sacrilegio, occorre sottolinearlo. Essi hanno “smaniato per uccidere una seconda volta Gesù nel cuore degli uomini”, oltraggiando uno dei 7 sacramenti, il sigillo sacramentale o segreto confessionale. Tra l'altro, stupisce che Travaglio abbia permesso un atto di questo tipo, essendo cattolico, seppure “adulto”, come lui stesso ha dichiarato in varie occasioni, e un allievo dei salesiani al Val Salice di Torino.
Non a caso, si legge all'art. 4 delle norme sostanziali della Congregazione per la Dottrina della Fede: “§ 2. Fermo restando il disposto del § 1 n. 5, alla Congregazione per la Dottrina della Fede è riservato anche il delitto più grave consistente nella registrazione, fatta con qualunque mezzo tecnico, o nella divulgazione con i mezzi di comunicazione sociale svolta con malizia, delle cose che vengono dette dal confessore o dal penitente nella confessione sacramentale, vera o falsa. Colui che commette questo delitto, sia punito secondo la gravità del crimine, non esclusa la dimissione o la deposizione, se è un chierico”. La scomunica è dietro l'angolo.
Non solo, l'azione dei giornalisti del FQ si pone in contrapposizione perfino con la legislazione italiana, la quale protegge - come quella di molti Paesi - il segreto confessionale. Il concordato del 18 febbraio 1984, art. 4, n. 4, sancisce: «Gli ecclesiastici non sono tenuti a dare ai magistrati o ad altra autorità informazioni su persone o materie di cui siano venuti a conoscenza per ragione del loro ministero». Aggiungerei, men che meno ai giornalisti!
Ma cosa avrebbero fatto di così male i sacerdoti ambrosiani, per portare i giornalisti del FQ a rischiare contro tutto e tutti? Non appena si leggono le 5 pagine su Millennium, dedicate loro, si scopre che prima di tutto i sacerdoti presi di mira non sono disobbedienti o scandalosi. Per esempio, il Parroco di Vanzaghello afferma quello che la dottrina di sempre ricorda: “il Papa non è infallibile ogni volta che parla in pubblico, a meno che non lo faccia ex cathedra su questioni appunto di morale e di dottrina. E ancora, a Legnano il sacerdote ricorda semplicemente che accogliere gli immigrati senza mostrar loro la nostra identità non è vera accoglienza; d'altronde, solo chi ha un'identità, una storia precisa non ha paura dell'altro e sa accogliere per davvero. Altrimenti, si rischia che un'immigrazione pacifica si trasformi in un'invasione che distrugge e sostituisce la cultura ospitante. Ma cosa più importante, ricorda il dovere dei cattolici: “Difendere Cristo come l’unica cosa importante”. Sembra aver imparato bene la lezione del card. Biffi, di cui non si poteva dire che fosse un razzista. Ad un certo il don risponde con: “Eh, sì, ognuno è fatto a suo modo”, alla preoccupazine del giornalista fintosi 'pecorella smarrita': “Tanto i Papi, prima o poi, cambiano. Prima ce n’era uno, quello tedesco, che mi sembrava più rigido su certe cose e mi piaceva”. Dov'è che il sacerdote mostrerebbe disobbedienza verso Papa Francesco?
Sul sagrato della Chiesa non si ferma la riforma pastorale di Papa Francesco, ma il buon senso dei giornalisti del FQ.
Emerge così, sia dal punto di vista giornalistico sia della dottrina cattolica, che le 5 pagine più che contenere uno scoop, riportano un grande flòp, giacché nessuna infrazione è stata rivelata. Anzi, la serenità e fermezza dei parroci, che emergono nonostante le manipolazioni di redazione dimostrano che da anni sussiste lo stesso problema: la gente è sempre più disorientata e persino contrariata da certe dichiarazioni e da certi silenzi che vengono dall’alto e vanno in confessionale per chiedere luce e orientamento. Perfino il Mattioni lo fa emergere con la parte che ha recitato, seppure inconsapevolmente e arrivando a conclusioni opposte. Per lui chi si pone quel problema sbaglia; invece, per i 2000 anni della Chiesa e per i milioni, o miliardi di cattolici, vissuti prima di noi (la democrazia dei morti non sbaglia, direbbe Chesterton) chi si pone tale problema fa bene, poiché viol dire che vi sono ancora cristiani con una coscienza.
Perciò diceva il card. Newman: «Se fossi obbligato a introdurre la religione nei brindisi dopo un pranzo - il che in verità non mi sembra proprio la cosa migliore -, brinderò, se volete, al Papa; tuttavia prima alla coscienza, poi al Papa». Per non travisare questa frase, vedendovici un'idea di coscienza non cattolica, essa va inquadrata, come diceva l'allora cardinal Joseph Ratzinger, nel complessivo pensiero di Newman e nella sua fedeltà alla tradizione medioevale, la quale aveva individuato due livelli del concetto di coscienza: sinderesi e coscienza.
Ancora un'ultima osservazione. E' interessante notare che pure i giornalisti de Il Fatto Quotidiano si sono iscritti al club esclusivo del nuovo sport nazionale “la caccia al presunto integralista cattolico”. Aveva iniziato il Foglio, con un articolo di Crippa, a proposito dei cosiddetti cattolici ideologici e integristi; su questa strada si è costruito pure il dossier de la Nuova Europa sui fondamentalismi a cura di Massimo Introvigne nell'autunno 2016; seguito subito dopo da una “lista di proscrizione” su La Stampa a cura di Andrea Tornielli e sempre con la collaborazione di Massimo Introvigne, che fino a qualche mese prima si trovava dalla parte opposta di Tornielli and Co; e di recente, l'articolo di padre Antonio Spadaro e del pastore presbiteriano Marcelo Figueroa (direttore dell'edizione argentina de L’Osservatore Romano: sì, lettori, è lecito essere perplessi). Questa alleanza tra cattolici e mondo laicista – il quale appoggia il Papa in modo del tutto strumentale – non può non destare qualche preoccupazione, dal momento che favorisce la scomparsa dei cattolici dalla vita pubblica della nostra patria; a discapito del bene comune, della libertà religiosa, degli articoli 19 e 21 della costituzione.
A questo punto, credo si possano fare due riflessioni. Il giornalista e tutti i suoi colleghi, tra cui direttore del cartaceo Marco Travaglio e il direttore online Peter Gomez, hanno commesso un sacrilegio, occorre sottolinearlo. Essi hanno “smaniato per uccidere una seconda volta Gesù nel cuore degli uomini”, oltraggiando uno dei 7 sacramenti, il sigillo sacramentale o segreto confessionale. Tra l'altro, stupisce che Travaglio abbia permesso un atto di questo tipo, essendo cattolico, seppure “adulto”, come lui stesso ha dichiarato in varie occasioni, e un allievo dei salesiani al Val Salice di Torino.
Non a caso, si legge all'art. 4 delle norme sostanziali della Congregazione per la Dottrina della Fede: “§ 2. Fermo restando il disposto del § 1 n. 5, alla Congregazione per la Dottrina della Fede è riservato anche il delitto più grave consistente nella registrazione, fatta con qualunque mezzo tecnico, o nella divulgazione con i mezzi di comunicazione sociale svolta con malizia, delle cose che vengono dette dal confessore o dal penitente nella confessione sacramentale, vera o falsa. Colui che commette questo delitto, sia punito secondo la gravità del crimine, non esclusa la dimissione o la deposizione, se è un chierico”. La scomunica è dietro l'angolo.
Non solo, l'azione dei giornalisti del FQ si pone in contrapposizione perfino con la legislazione italiana, la quale protegge - come quella di molti Paesi - il segreto confessionale. Il concordato del 18 febbraio 1984, art. 4, n. 4, sancisce: «Gli ecclesiastici non sono tenuti a dare ai magistrati o ad altra autorità informazioni su persone o materie di cui siano venuti a conoscenza per ragione del loro ministero». Aggiungerei, men che meno ai giornalisti!
Ma cosa avrebbero fatto di così male i sacerdoti ambrosiani, per portare i giornalisti del FQ a rischiare contro tutto e tutti? Non appena si leggono le 5 pagine su Millennium, dedicate loro, si scopre che prima di tutto i sacerdoti presi di mira non sono disobbedienti o scandalosi. Per esempio, il Parroco di Vanzaghello afferma quello che la dottrina di sempre ricorda: “il Papa non è infallibile ogni volta che parla in pubblico, a meno che non lo faccia ex cathedra su questioni appunto di morale e di dottrina. E ancora, a Legnano il sacerdote ricorda semplicemente che accogliere gli immigrati senza mostrar loro la nostra identità non è vera accoglienza; d'altronde, solo chi ha un'identità, una storia precisa non ha paura dell'altro e sa accogliere per davvero. Altrimenti, si rischia che un'immigrazione pacifica si trasformi in un'invasione che distrugge e sostituisce la cultura ospitante. Ma cosa più importante, ricorda il dovere dei cattolici: “Difendere Cristo come l’unica cosa importante”. Sembra aver imparato bene la lezione del card. Biffi, di cui non si poteva dire che fosse un razzista. Ad un certo il don risponde con: “Eh, sì, ognuno è fatto a suo modo”, alla preoccupazine del giornalista fintosi 'pecorella smarrita': “Tanto i Papi, prima o poi, cambiano. Prima ce n’era uno, quello tedesco, che mi sembrava più rigido su certe cose e mi piaceva”. Dov'è che il sacerdote mostrerebbe disobbedienza verso Papa Francesco?
Sul sagrato della Chiesa non si ferma la riforma pastorale di Papa Francesco, ma il buon senso dei giornalisti del FQ.
Emerge così, sia dal punto di vista giornalistico sia della dottrina cattolica, che le 5 pagine più che contenere uno scoop, riportano un grande flòp, giacché nessuna infrazione è stata rivelata. Anzi, la serenità e fermezza dei parroci, che emergono nonostante le manipolazioni di redazione dimostrano che da anni sussiste lo stesso problema: la gente è sempre più disorientata e persino contrariata da certe dichiarazioni e da certi silenzi che vengono dall’alto e vanno in confessionale per chiedere luce e orientamento. Perfino il Mattioni lo fa emergere con la parte che ha recitato, seppure inconsapevolmente e arrivando a conclusioni opposte. Per lui chi si pone quel problema sbaglia; invece, per i 2000 anni della Chiesa e per i milioni, o miliardi di cattolici, vissuti prima di noi (la democrazia dei morti non sbaglia, direbbe Chesterton) chi si pone tale problema fa bene, poiché viol dire che vi sono ancora cristiani con una coscienza.
Perciò diceva il card. Newman: «Se fossi obbligato a introdurre la religione nei brindisi dopo un pranzo - il che in verità non mi sembra proprio la cosa migliore -, brinderò, se volete, al Papa; tuttavia prima alla coscienza, poi al Papa». Per non travisare questa frase, vedendovici un'idea di coscienza non cattolica, essa va inquadrata, come diceva l'allora cardinal Joseph Ratzinger, nel complessivo pensiero di Newman e nella sua fedeltà alla tradizione medioevale, la quale aveva individuato due livelli del concetto di coscienza: sinderesi e coscienza.
Ancora un'ultima osservazione. E' interessante notare che pure i giornalisti de Il Fatto Quotidiano si sono iscritti al club esclusivo del nuovo sport nazionale “la caccia al presunto integralista cattolico”. Aveva iniziato il Foglio, con un articolo di Crippa, a proposito dei cosiddetti cattolici ideologici e integristi; su questa strada si è costruito pure il dossier de la Nuova Europa sui fondamentalismi a cura di Massimo Introvigne nell'autunno 2016; seguito subito dopo da una “lista di proscrizione” su La Stampa a cura di Andrea Tornielli e sempre con la collaborazione di Massimo Introvigne, che fino a qualche mese prima si trovava dalla parte opposta di Tornielli and Co; e di recente, l'articolo di padre Antonio Spadaro e del pastore presbiteriano Marcelo Figueroa (direttore dell'edizione argentina de L’Osservatore Romano: sì, lettori, è lecito essere perplessi). Questa alleanza tra cattolici e mondo laicista – il quale appoggia il Papa in modo del tutto strumentale – non può non destare qualche preoccupazione, dal momento che favorisce la scomparsa dei cattolici dalla vita pubblica della nostra patria; a discapito del bene comune, della libertà religiosa, degli articoli 19 e 21 della costituzione.
domenica 20 agosto 2017
I classici della truppa: Guglielmo Massaja. Contenuto e stile di una singolare missione africana
E'
uscito per la casa editrice Effatà il libro Guglielmo Massaja.
Contenuto e stile di una singolare missione africana. Libro
scritto da don Vittorio Croce, storico teologo e giornalista
astigiano. Prefazione a cura di Fra Mario Durando OFMcap,
Vicepostulatore del processo di canonizzazione del Venerabile Servo
di Dio Fra Guglielmo Massaja dalla Piovà.
Con precisione e semplicità, come solo un buon divulgatore scientifico sa fare, don Vittorio propone la vita di un grande missionario piemontese, che non lascia indifferenti. Senza problemi ci si appassiona velocemente ai suoi viaggi e alle sue vicissitudini avventurosi. Messe tutte nero su bianco nelle tante lettere che scrisse in più di 35 anni di missione in terra africana. Affrontò cinque viaggi per raggiungere l'impervio e spettacolare acrocoro etiopico, subì una drammatica prigionia sotto l'imperatore Teodoro e l'espulsione ad opera del negus Johannes per aver collaborato (perché costretto con la forza) con il ras Menelik, futuro imperatore e unificatore dell'Etiopia.
Fu Esploratore, con un acuto interesse per la natura, di fatti scoprì e raccolse informazioni su territori sconosciuti in Europa: dati geografici, montagne fiumi clima, flora e fauna, per questo divenne socio della Società Geografica Italiana. Tale raccolta di dati era facilatata dal suo essere francescano. Egli camminava a piedi nudi senza sandali, evitava di salire sulle bestie da soma, a meno che non fosse costretto dalle malattie, a fianco dei locali che lo accompagnavano. In questo modo si faceva prossimo agli altri per conoscere le loro esigenze e vedere coi loro occhi i territori africani che attraversava fino all'Etiopia. Si adattava ai costumi locali anche per quanto riguardava i lunghi e terribili digiuni etiopici. Si fece medico, in particolare producendo e praticando il vaccino contro il vaiolo, cosa che lo tramandò nella memoria locale come il “padre del fantatà”. Condivise la sua cultura contadina dell'astigiano: coltivò la vite per ricavarne il vino per la Messa; affrontò e insegnò ad affrontare la carestia capitalizzando il tief, cereale tipico del posto. E si fece pure diplomatico, per risolvere le contese locali, e impegnarsi sul fronte francese e inglese.
Fece tutto questo solo per un motivo. Salvare tutte le anime possibili, per portarle a Dio. Tale santa esigenza era il cuore della sua personalità. Per l’evangelizzazione dell’Etiopia si fece pure linguista e mise per iscritto le diverse lingue etiopiche, tra cui la oromo, attraverso le quali potè scrivere due-tre catechismi, in primis il Catechismo Galla. Grazie a questi strumenti potè formare i giovani da avviare anche al sacerdozio. Inoltre, riformò attentamente la liturgia abissina nel rispetto della sua tradizione e lavorò per trovare le soluzioni accettabili per ammettere al battesimo e risolvere difficili casi matrimoniali; inventò una forma di vita monastica.
Massaja oltre ad accettare il confronto con la cultura abissina ormo e Kaffa, volle affrontare la chiesa copta e l'islam, con cui ebbe un rapporto rispettoso ma duro, soprattutto con la II religione, la quale era impegnata a sottomettere i popoli dell'Africa orientale. Avvertì La Chiesa di Roma di questo grande pericolo, in tempi non sospetti. Anche perciò rimane una figura molto attule, considetati i tempi che corrono.
Questo passo del libro non è solo la conclusione della recensione, bensì anche un ottimo assaggio di quanto vi aspetta nel libro.
“Maggiori dettagli richiedeva la spiegazione dei comandamenti, sia nell'orientamento della teologia del tempo più motivata sull'aspetto etico che su quello dogmatico, sia per le esigenze di una popolazione che viveva tra paganesimo tradizionale, cristianesimo contaminato, ebraismo e islamismo. Massaja punta decisamente a una cristianizzazione dell'etica, che significa il superamento del legalismo in direzione del cuore della morale cristiana, l'amore a Dio e al prossimo. Colpiscono l'insistenza sull'aspetto positivo dei comandamenti di Dio dati a Mosè e sul loro orientamento alla perfezione della legge di Gesù nelle opere della misericordia, cosa che non accadeva sempre nella teologia e nella catechesi europea del tempo, spesso impegolata in una casistica asfissiante. Ciò indubbiamente era facilitato per Massaja dalla sua formazione francescana”.
Anche sul giornale della Diocesi di Pinerolo
Con precisione e semplicità, come solo un buon divulgatore scientifico sa fare, don Vittorio propone la vita di un grande missionario piemontese, che non lascia indifferenti. Senza problemi ci si appassiona velocemente ai suoi viaggi e alle sue vicissitudini avventurosi. Messe tutte nero su bianco nelle tante lettere che scrisse in più di 35 anni di missione in terra africana. Affrontò cinque viaggi per raggiungere l'impervio e spettacolare acrocoro etiopico, subì una drammatica prigionia sotto l'imperatore Teodoro e l'espulsione ad opera del negus Johannes per aver collaborato (perché costretto con la forza) con il ras Menelik, futuro imperatore e unificatore dell'Etiopia.
Fu Esploratore, con un acuto interesse per la natura, di fatti scoprì e raccolse informazioni su territori sconosciuti in Europa: dati geografici, montagne fiumi clima, flora e fauna, per questo divenne socio della Società Geografica Italiana. Tale raccolta di dati era facilatata dal suo essere francescano. Egli camminava a piedi nudi senza sandali, evitava di salire sulle bestie da soma, a meno che non fosse costretto dalle malattie, a fianco dei locali che lo accompagnavano. In questo modo si faceva prossimo agli altri per conoscere le loro esigenze e vedere coi loro occhi i territori africani che attraversava fino all'Etiopia. Si adattava ai costumi locali anche per quanto riguardava i lunghi e terribili digiuni etiopici. Si fece medico, in particolare producendo e praticando il vaccino contro il vaiolo, cosa che lo tramandò nella memoria locale come il “padre del fantatà”. Condivise la sua cultura contadina dell'astigiano: coltivò la vite per ricavarne il vino per la Messa; affrontò e insegnò ad affrontare la carestia capitalizzando il tief, cereale tipico del posto. E si fece pure diplomatico, per risolvere le contese locali, e impegnarsi sul fronte francese e inglese.
Fece tutto questo solo per un motivo. Salvare tutte le anime possibili, per portarle a Dio. Tale santa esigenza era il cuore della sua personalità. Per l’evangelizzazione dell’Etiopia si fece pure linguista e mise per iscritto le diverse lingue etiopiche, tra cui la oromo, attraverso le quali potè scrivere due-tre catechismi, in primis il Catechismo Galla. Grazie a questi strumenti potè formare i giovani da avviare anche al sacerdozio. Inoltre, riformò attentamente la liturgia abissina nel rispetto della sua tradizione e lavorò per trovare le soluzioni accettabili per ammettere al battesimo e risolvere difficili casi matrimoniali; inventò una forma di vita monastica.
Massaja oltre ad accettare il confronto con la cultura abissina ormo e Kaffa, volle affrontare la chiesa copta e l'islam, con cui ebbe un rapporto rispettoso ma duro, soprattutto con la II religione, la quale era impegnata a sottomettere i popoli dell'Africa orientale. Avvertì La Chiesa di Roma di questo grande pericolo, in tempi non sospetti. Anche perciò rimane una figura molto attule, considetati i tempi che corrono.
Questo passo del libro non è solo la conclusione della recensione, bensì anche un ottimo assaggio di quanto vi aspetta nel libro.
“Maggiori dettagli richiedeva la spiegazione dei comandamenti, sia nell'orientamento della teologia del tempo più motivata sull'aspetto etico che su quello dogmatico, sia per le esigenze di una popolazione che viveva tra paganesimo tradizionale, cristianesimo contaminato, ebraismo e islamismo. Massaja punta decisamente a una cristianizzazione dell'etica, che significa il superamento del legalismo in direzione del cuore della morale cristiana, l'amore a Dio e al prossimo. Colpiscono l'insistenza sull'aspetto positivo dei comandamenti di Dio dati a Mosè e sul loro orientamento alla perfezione della legge di Gesù nelle opere della misericordia, cosa che non accadeva sempre nella teologia e nella catechesi europea del tempo, spesso impegolata in una casistica asfissiante. Ciò indubbiamente era facilitato per Massaja dalla sua formazione francescana”.
Anche sul giornale della Diocesi di Pinerolo
I classici della truppa: Gesù Scartato
Il piccolo libro “Gesù Scartato” è un'opera scritta da Giordano Tantucci per le edizioni Tau. L'autore offre una riflessione semplice e profonda su uno degli aspetti più significativi della missione di Gesù Cristo.
Da come si evince dal titolo, il libriccino prende in considerazione lo scarto dell’uomo Gesù. In questo modo Tantucci ci fa capire che l’umanità non riconosce il Figlio di Dio (Come ricorda San Giovanni al capitolo 1,1-18). Gesù, dunque, vede scartata dagli uomini la propria proposta di idee e valori. Egli sapeva, comunque, di essere quella pietra che, chiamata ad edificare il Tempio di Dio nel mondo, sarebbe stata scartata dai costruttori (gli uomini), i quali non l’hanno accolto, come testimonia lo scarto totale che si consuma con la morte in croce sulle alture del Gòlgota. Ciò perché gli uomini non hanno saputo, o meglio non hanno voluto, riconoscere in Lui la natura divina, il suo essere il Figlio Unigenito del Padre. Lo scarto nei confronti di Gesù continua a verificarsi ogniqualvolta non si accetta la sua proposta, per molti motivo di scandalo, avvezzi come sono agli usi ed ai costumi del proprio tempo.
Ed emerge che il momento in cui Gesù si è sentito più abbandonato è quando pregò nel Getsemani. Quanto accadde nel Getsemani rappresentò un momento di grande pathos emotivo, che venne ricordato nel 1992 da Giovanni Paolo II, quando invitò i giovani a rivivere quella che viene considerata una “veglia mancata” da parte degli Apostoli in una “veglia continuata”, da condividere tutti insieme. Un grande insegnamento che impone all’uomo una serie di riflessioni su quanto in effetti sia necessario condividere i propri sentimenti, senza avere timori di alcun tipo. Questa condivisione riemerge anche analizzando lo scenario del Calvario, attraverso una lettura attenta di ciò che è avvenuto fra i due ladroni. Le tre crocifissioni (Gesù in mezzo ai due ladroni) appaiono agli occhi degli spettatori, come ‘tre pietre scartate’ che per una ragione diversa dall’altra si ritrovano a condividere il medesimo percorso. Sappiamo però che i due ladroni sono stati giustamente scartati dalla società perché peccatori, mentre Gesù lo è stato ingiustamente. Il fatto che Gesù abbia spezzato l’alleanza tra i due ladroni facendo dire ad uno dei due “Neanche tu hai timore di Dio benché condannato alla stessa pena?” (Lc.23,40), dimostra chiaramente che abbia fatto breccia nel suo cuore e che il male può essere combattuto anche nelle condizioni più difficili. Siamo di fronte ad un pentimento sentito, vero, dettato da una forte spinta emotiva, tanto da indurlo a scagliarsi contro l’amico dicendo “Noi giustamente, perché riceviamo il giusto per le nostre azioni, Egli invece non ha fatto nulla di male” (Lc 23,41). L’umiltà quindi ha premiato il buon ladrone con la salvezza, mentre l’orgoglio ha condannato il suo amico.
Il tutto è proposto in un cammino lungo “11 capitoli”, ove la Passione la morte su croce del Figlio di Dio conduce alla gloria della Risurrezione. La Croce diviene il simbolo della vittoria sulla morte e sul peccato. In questo itinerario spirituale, l'autore trova spazio anche per Maria Santissima, madre cui siamo stati affidati dallo stesso Gesù.
Nota conclusiva. Questo libretto è una buona opera, come si diceva all'inizio. Linguaggio semplice e un certo rigore lo rendono adatto anche per il tempo pasquale. Inoltre, tornano utili gli scritti citati di altri autori: autorevoli come Luigi Gedda, il card. Giacomo Biffi. Comunque sia, ciò non impedisce di riconoscere qualche punto debole. A volte l'autore corre il rischio di trattare Gesù come un semplice uomo. Si è certi che non sia la sua intenzione. Però, va detto che asserzioni come “La liberazione da un grosso fardello che gli pesava nel cuore e nella mente, ha dato modo a Gesù di riacquistare quella serenità divina che una vita terrena gli aveva fatto momentaneamente smarrire”. Gesù non ha rifiutato nessuna sofferenza umana ma la sua divinità non è mai venuta meno, essendo Dio (ndr). “Questa immagine di uomo, così eroicamente coerente, ci attrae e ci scandalizza contemporaneamente. Egli viene a scuotere la nostra coscienza, sopita e apparentemente soddisfatta della verità propinataci dalla cultura del consumismo e dell’edonismo”. Certo, Cristo era vero uomo ma in primis vero Dio; e non è venuto a salvarci da semplici problemi sociali e culturali, bensì da una ferita e dalla schiavitù di un nemico terribili – che sono la causa di essi – il peccato e Satana.
Dunque, Tornerà utile accompagnare/completare questa lettura con il Catechismo e un'edizione autorevole della Bibbia, come quella dell'abate e biblista Giuseppe Ricciotti.
Anche sul giornale della Diocesi di Pinerolo
Da come si evince dal titolo, il libriccino prende in considerazione lo scarto dell’uomo Gesù. In questo modo Tantucci ci fa capire che l’umanità non riconosce il Figlio di Dio (Come ricorda San Giovanni al capitolo 1,1-18). Gesù, dunque, vede scartata dagli uomini la propria proposta di idee e valori. Egli sapeva, comunque, di essere quella pietra che, chiamata ad edificare il Tempio di Dio nel mondo, sarebbe stata scartata dai costruttori (gli uomini), i quali non l’hanno accolto, come testimonia lo scarto totale che si consuma con la morte in croce sulle alture del Gòlgota. Ciò perché gli uomini non hanno saputo, o meglio non hanno voluto, riconoscere in Lui la natura divina, il suo essere il Figlio Unigenito del Padre. Lo scarto nei confronti di Gesù continua a verificarsi ogniqualvolta non si accetta la sua proposta, per molti motivo di scandalo, avvezzi come sono agli usi ed ai costumi del proprio tempo.
Ed emerge che il momento in cui Gesù si è sentito più abbandonato è quando pregò nel Getsemani. Quanto accadde nel Getsemani rappresentò un momento di grande pathos emotivo, che venne ricordato nel 1992 da Giovanni Paolo II, quando invitò i giovani a rivivere quella che viene considerata una “veglia mancata” da parte degli Apostoli in una “veglia continuata”, da condividere tutti insieme. Un grande insegnamento che impone all’uomo una serie di riflessioni su quanto in effetti sia necessario condividere i propri sentimenti, senza avere timori di alcun tipo. Questa condivisione riemerge anche analizzando lo scenario del Calvario, attraverso una lettura attenta di ciò che è avvenuto fra i due ladroni. Le tre crocifissioni (Gesù in mezzo ai due ladroni) appaiono agli occhi degli spettatori, come ‘tre pietre scartate’ che per una ragione diversa dall’altra si ritrovano a condividere il medesimo percorso. Sappiamo però che i due ladroni sono stati giustamente scartati dalla società perché peccatori, mentre Gesù lo è stato ingiustamente. Il fatto che Gesù abbia spezzato l’alleanza tra i due ladroni facendo dire ad uno dei due “Neanche tu hai timore di Dio benché condannato alla stessa pena?” (Lc.23,40), dimostra chiaramente che abbia fatto breccia nel suo cuore e che il male può essere combattuto anche nelle condizioni più difficili. Siamo di fronte ad un pentimento sentito, vero, dettato da una forte spinta emotiva, tanto da indurlo a scagliarsi contro l’amico dicendo “Noi giustamente, perché riceviamo il giusto per le nostre azioni, Egli invece non ha fatto nulla di male” (Lc 23,41). L’umiltà quindi ha premiato il buon ladrone con la salvezza, mentre l’orgoglio ha condannato il suo amico.
Il tutto è proposto in un cammino lungo “11 capitoli”, ove la Passione la morte su croce del Figlio di Dio conduce alla gloria della Risurrezione. La Croce diviene il simbolo della vittoria sulla morte e sul peccato. In questo itinerario spirituale, l'autore trova spazio anche per Maria Santissima, madre cui siamo stati affidati dallo stesso Gesù.
Nota conclusiva. Questo libretto è una buona opera, come si diceva all'inizio. Linguaggio semplice e un certo rigore lo rendono adatto anche per il tempo pasquale. Inoltre, tornano utili gli scritti citati di altri autori: autorevoli come Luigi Gedda, il card. Giacomo Biffi. Comunque sia, ciò non impedisce di riconoscere qualche punto debole. A volte l'autore corre il rischio di trattare Gesù come un semplice uomo. Si è certi che non sia la sua intenzione. Però, va detto che asserzioni come “La liberazione da un grosso fardello che gli pesava nel cuore e nella mente, ha dato modo a Gesù di riacquistare quella serenità divina che una vita terrena gli aveva fatto momentaneamente smarrire”. Gesù non ha rifiutato nessuna sofferenza umana ma la sua divinità non è mai venuta meno, essendo Dio (ndr). “Questa immagine di uomo, così eroicamente coerente, ci attrae e ci scandalizza contemporaneamente. Egli viene a scuotere la nostra coscienza, sopita e apparentemente soddisfatta della verità propinataci dalla cultura del consumismo e dell’edonismo”. Certo, Cristo era vero uomo ma in primis vero Dio; e non è venuto a salvarci da semplici problemi sociali e culturali, bensì da una ferita e dalla schiavitù di un nemico terribili – che sono la causa di essi – il peccato e Satana.
Dunque, Tornerà utile accompagnare/completare questa lettura con il Catechismo e un'edizione autorevole della Bibbia, come quella dell'abate e biblista Giuseppe Ricciotti.
Anche sul giornale della Diocesi di Pinerolo
I classici della truppa: Le parole del Papa
È l’ultima fatica letteraria di Alessandro Barbero, dedicata ai discorsi dei papi, dal Medioevo fino ai giorni nostri, considerati come le potenti “armi segrete” della comunicazione della chiesa. In origine si trattava del testo preparato per una conferenza, poi trasformato in libro. Scorrendolo, si evince che il modo di parlare dei pontefici cambia a seconda del ruolo occupato dalla chiesa e delle sfide che si trovavano (e ancora si trovano) di fronte, da un’epoca all’altra.
Quindi, la “parola” era il modo in cui si difendevano dagli attacchi del potere secolare, rappresentato ora dagli imperatori, dai principi e dai signori feudali, ora dalle rivoluzioni e dai partiti. A giudizio dell’autore, il papato contemporaneo sta riscoprendo la potenza della “parola”; e infatti l’opera si apre al 15 gennaio 2015, una settimana dopo gli attacchi alla redazione di Charlie Hebdo, quando Papa Francesco parlò del “pugno”. Per forza e disinvoltura non ha nulla da invidiare, o quasi, ai pontefici del Medioevo con cui si apre il primo capitolo: il grande Papa Gregorio VII, al secolo Ildebrando di Soana, si fa avanti per far valere la plenitudo potestatis del proprio ruolo sull’imperatore Enrico IV; subito dopo vi si trovano Gregorio IX, Innocenzo III (il Papa che vide in sogno san Francesco), Onorio III e lo stupor mundi Federico II; poi, è la volta di Bonifacio VIII con la bolla Unam Sactam, attraverso la quale difese il primato delle istituzioni giuridiche dalla volontà di Filippo il Bello. Barbero procede, passando dal Quattrocento all’Ottocento, per giungere al 1967, sotto il pontificato di Paolo VI. Lasciando da parte, per ora, Giovanni Paolo II e Papa Francesco, perché le loro parole e azioni sono ancora attualità e non storia. Cita Papa Niccolò V e Paolo III. Parla di Leone X, san Pio V, che dovettero affontare minacce esterne, gli Ottomani, e quelle interne, la riforma-rivoluzione di Lutero e lo scisma anglicano, che frantumarono l’unità cristiana dell’Europa. Guarda a Innocenzo X, che si trovò di fronte la pace di Westfalia dopo la guerra dei Trent’anni, Clemente XI, che combatté le affermazioni eretiche contenute nei libri. A seguire, indaga sull’Ottocento, riprendendo la Mirari Vos di Gregorio XVI (1832) e la Nostis et nobiscum di Pio IX (1849). Conferma che i Papi tornavano ad affrontare con maggior vigore, rispetto ai predecessori del XVI-XVII secolo, gli avversari della chiesa, senza circonlocuzioni.
Verso il Novecento, vediamo considerato Leone XIII, l’autore della Rerum Novarum: per Barbero l’importante enciclica rappresenta una svolta decisiva nell’atteggiamento dei pontefici verso la modernità. Il primo punto su cui il Papa giudicò opportuno insistere fu la “questione operaia”. Poi, arrivano Benedetto XV, Pio XI, Pio XII, Giovanni XXIII e Paolo VI, i Papi che dovettero affrontare le due guerre mondiali, i totalitarismi e le culture politiche e sociologiche del XX secolo, in cui il papato ritrova autorevolezza a livello internazionale.
Sebbene l’opera di Barbero presenti nel suo complesso molti aspetti positivi, come ad esempio è pregevole la parte in cui ricorda che il Medioevo non fu un’epoca buia, dispiace notare che il professore non abbia dedicato uno spazio a Pio XII, il Pontefice che tanto si prodigò nella lotta ai totalitarismi. Dispiace non abbia considerato i discorsi che il Papa tenne alla radio durante i Natali della Seconda guerra mondiale, soprattutto del 1942 e del 1944, in cui chiedeva con vigore, anticipando la situazione politica sociale del Dopoguerra, la difesa della famiglia, della dignità di ogni persona, la nascita di forme di governo nazionali e internazionali orientate verso il bene comune.
Anche su Il Foglio
Quindi, la “parola” era il modo in cui si difendevano dagli attacchi del potere secolare, rappresentato ora dagli imperatori, dai principi e dai signori feudali, ora dalle rivoluzioni e dai partiti. A giudizio dell’autore, il papato contemporaneo sta riscoprendo la potenza della “parola”; e infatti l’opera si apre al 15 gennaio 2015, una settimana dopo gli attacchi alla redazione di Charlie Hebdo, quando Papa Francesco parlò del “pugno”. Per forza e disinvoltura non ha nulla da invidiare, o quasi, ai pontefici del Medioevo con cui si apre il primo capitolo: il grande Papa Gregorio VII, al secolo Ildebrando di Soana, si fa avanti per far valere la plenitudo potestatis del proprio ruolo sull’imperatore Enrico IV; subito dopo vi si trovano Gregorio IX, Innocenzo III (il Papa che vide in sogno san Francesco), Onorio III e lo stupor mundi Federico II; poi, è la volta di Bonifacio VIII con la bolla Unam Sactam, attraverso la quale difese il primato delle istituzioni giuridiche dalla volontà di Filippo il Bello. Barbero procede, passando dal Quattrocento all’Ottocento, per giungere al 1967, sotto il pontificato di Paolo VI. Lasciando da parte, per ora, Giovanni Paolo II e Papa Francesco, perché le loro parole e azioni sono ancora attualità e non storia. Cita Papa Niccolò V e Paolo III. Parla di Leone X, san Pio V, che dovettero affontare minacce esterne, gli Ottomani, e quelle interne, la riforma-rivoluzione di Lutero e lo scisma anglicano, che frantumarono l’unità cristiana dell’Europa. Guarda a Innocenzo X, che si trovò di fronte la pace di Westfalia dopo la guerra dei Trent’anni, Clemente XI, che combatté le affermazioni eretiche contenute nei libri. A seguire, indaga sull’Ottocento, riprendendo la Mirari Vos di Gregorio XVI (1832) e la Nostis et nobiscum di Pio IX (1849). Conferma che i Papi tornavano ad affrontare con maggior vigore, rispetto ai predecessori del XVI-XVII secolo, gli avversari della chiesa, senza circonlocuzioni.
Verso il Novecento, vediamo considerato Leone XIII, l’autore della Rerum Novarum: per Barbero l’importante enciclica rappresenta una svolta decisiva nell’atteggiamento dei pontefici verso la modernità. Il primo punto su cui il Papa giudicò opportuno insistere fu la “questione operaia”. Poi, arrivano Benedetto XV, Pio XI, Pio XII, Giovanni XXIII e Paolo VI, i Papi che dovettero affrontare le due guerre mondiali, i totalitarismi e le culture politiche e sociologiche del XX secolo, in cui il papato ritrova autorevolezza a livello internazionale.
Sebbene l’opera di Barbero presenti nel suo complesso molti aspetti positivi, come ad esempio è pregevole la parte in cui ricorda che il Medioevo non fu un’epoca buia, dispiace notare che il professore non abbia dedicato uno spazio a Pio XII, il Pontefice che tanto si prodigò nella lotta ai totalitarismi. Dispiace non abbia considerato i discorsi che il Papa tenne alla radio durante i Natali della Seconda guerra mondiale, soprattutto del 1942 e del 1944, in cui chiedeva con vigore, anticipando la situazione politica sociale del Dopoguerra, la difesa della famiglia, della dignità di ogni persona, la nascita di forme di governo nazionali e internazionali orientate verso il bene comune.
Anche su Il Foglio
I classici della truppa: Alfabeto Familiare, di don Roberto Carelli
“Tutto è contro il capo famiglia, contro il padre di famiglia; e di conseguenza contro la famiglia stessa, contro la vita di famiglia. Solo lui è letteralmente coinvolto nel mondo, nel secolo. Solo lui è letteralmente un avventuriero, corre un’avventura”. (Charles Péguy, Véronique. Dialogo della storia e dell’anima carnale).
“Posso dubitare, fino a prova contraria, del carattere soprannaturale della vocazione di una giovane che si crede chiamata alla contemplazione infusa o di un intellettuale che arde dal desiderio di servire Dio con la parola o con gli scritti (non dico che tali vocazioni non esistano allo stato puro, dico che molte di esse sono adulterate), ma se vedo l’amore di Dio rifare un buon contadino o un buon padre di famiglia, non dubiterò più dell’autenticità di quest’amore”. (Gustave Thibon, Ritorno al reale. Prime e seconde diagnosi in tema di fisiologia sociale, scritto del filosofo Gustave Thibon)
Tali asserzioni possiedono venature profetiche - si pensi che la I fu scritta nel periodo 1909-1910 e la II nel 1943 - giacché colgono, anticipandola, l'esigenza primaria del nostro tempo, quella di avere padre e madre, quindi la famiglia, e di difenderla da ogni pericolo. Un autore attuale ha preso sul serio tale importante compito, dedicandogli la sua ultima opera; si sta parlando del salesiano don Roberto Carelli. Egli ha scritto Alfabeto Familiare, un vademecum a metà tra gli scritti di San Giovanni Crisostomo (in materia di cose vane ed educazione dei figli) e, ovviamente, le opere di don Bosco, per semplicità profondità e precisione. Un agile volumetto che si rivolge a tutti, credenti e non, siccome i temi presi in considerazione e le soluzioni proposte riguardano il cuore di ogni persona.
Alfabeto Familiare consta di 27 voci ”alfabetiche”; tra queste vi sono: A come Amore, D come Donna, E come Eucarestia, F come Famiglia, N come Nazareth, Q come Queer (legato alla perniciosa ideologia gender), U come Uomo etc E non manca un'importante e ben curata bibliografia, nella quale si offrono le coordinate per ulteriori aggiornamenti, attraverso la citazione delle opere di autori del calibro di Costanza Miriano, del cardinal Carlo Caffarra, del filosofo Fabrice Hadjadj, l'autore delle cronache di Narnia Lewis, il sociologo Bauman, gli psicoterapeuti Tony Anatrella e Claudio Risé; e non manca nemmeno il riferimento a chi con le proprie teorie ferisce l'uomo e la famiglia, Judith Butler, tra i principali ideologi del gender.
Come si evince nella prefazione, scritta da Mons. Renzo Bonetti, e nell'introduzione, curata dalla stesso autore, il vademecum è nato dall'esigenza di fronteggiare la liquefazione e liquidazione post-moderna, per aver cura dell'universo familiare e mostrarne la profondità, attraverso il proporre quei frutti della civiltà classica e cristiana che hanno reso la vita umana più buona bella e vera: aspetti elementari dell'amore umano che sono costitutivi della famiglia e che si imparano in famiglia, a beneficio di ogni altro legame.
Queste voci da una parte richiamano le verità di sempre sull'amore, dall'altra puntano l'attenzione sulle problematiche emergenti nel nostro tempo. Senza mai dimenticare di annunciare il Vangelo della famiglia al tempo e nell'ottica della nuova evangelizzazione. In questo modo l'obiettivo è chiaro. Ritrovare la "grammatica" dei sessi, rimettere in moto la "sintassi" degli affetti e riarticolare il discorso dell'amore in vista di una sua felice riuscita. La lucidità dell'analisi si accompagna a una visione profondamente ottimista, permeata e sostenuta dalla fede. Nella stesura, si è tenuto conto di diverse esigenze. Anzitutto quella di coniugare una certa agilità espositiva con una precisione nei contenuti. Inoltre, se da una parte si richiamano le verità di sempre sull'amore, dall'altra si cerca di dare notizia delle problematiche emergenti nel nostro tempo, anche le più attuali. In altre parole, si annuncia il Vangelo della famiglia al tempo e nell'ottica della nuova evangelizzazione.
La famiglia – scrive don Roberto nell’introduzione – è sempre stata, è, e sarà sempre un bene prezioso, ma oggi è in caduta libera. Pochi matrimoni, poche nascite, famiglie ferite. È innegabile che si diventa umani in famiglia, ma intanto le coppie scoppiano, l'educazione è in affanno, le persone mostrano tante fragilità. In pochi decenni la "società tradizionale" ha ceduto il passo alla cosiddetta "società complessa", con vistosi guadagni in termini di benessere ed evidenti perdite quanto a qualità della vita. Ci siamo liberati di qualche rigidezza tipica delle epoche sacrali, ma l'età secolare ci consegna una società liquida nella quale tutti i legami sono in frantumi. Unica cura a tutto ciò: un'azione volta a ritrovare la grammatica dei sessi, a rimettere in moto la sintassi degli affetti, a riarticolare il discorso dell'amore in vista della sua felice riuscita.
Come riporta un detto, attribuito sia a Cicerone che a Chesterton, “A room without books is like a body without a soul-Una stanza senza libri è come un corpo senza anima”. Perciò, la biblioteca di casa non rimanga senza Alfabeto Familiare, l’anima ne trarrà giovamento!
Anche su Vita Diocesana Pinerolese
“Posso dubitare, fino a prova contraria, del carattere soprannaturale della vocazione di una giovane che si crede chiamata alla contemplazione infusa o di un intellettuale che arde dal desiderio di servire Dio con la parola o con gli scritti (non dico che tali vocazioni non esistano allo stato puro, dico che molte di esse sono adulterate), ma se vedo l’amore di Dio rifare un buon contadino o un buon padre di famiglia, non dubiterò più dell’autenticità di quest’amore”. (Gustave Thibon, Ritorno al reale. Prime e seconde diagnosi in tema di fisiologia sociale, scritto del filosofo Gustave Thibon)
Tali asserzioni possiedono venature profetiche - si pensi che la I fu scritta nel periodo 1909-1910 e la II nel 1943 - giacché colgono, anticipandola, l'esigenza primaria del nostro tempo, quella di avere padre e madre, quindi la famiglia, e di difenderla da ogni pericolo. Un autore attuale ha preso sul serio tale importante compito, dedicandogli la sua ultima opera; si sta parlando del salesiano don Roberto Carelli. Egli ha scritto Alfabeto Familiare, un vademecum a metà tra gli scritti di San Giovanni Crisostomo (in materia di cose vane ed educazione dei figli) e, ovviamente, le opere di don Bosco, per semplicità profondità e precisione. Un agile volumetto che si rivolge a tutti, credenti e non, siccome i temi presi in considerazione e le soluzioni proposte riguardano il cuore di ogni persona.
Come si evince nella prefazione, scritta da Mons. Renzo Bonetti, e nell'introduzione, curata dalla stesso autore, il vademecum è nato dall'esigenza di fronteggiare la liquefazione e liquidazione post-moderna, per aver cura dell'universo familiare e mostrarne la profondità, attraverso il proporre quei frutti della civiltà classica e cristiana che hanno reso la vita umana più buona bella e vera: aspetti elementari dell'amore umano che sono costitutivi della famiglia e che si imparano in famiglia, a beneficio di ogni altro legame.
Queste voci da una parte richiamano le verità di sempre sull'amore, dall'altra puntano l'attenzione sulle problematiche emergenti nel nostro tempo. Senza mai dimenticare di annunciare il Vangelo della famiglia al tempo e nell'ottica della nuova evangelizzazione. In questo modo l'obiettivo è chiaro. Ritrovare la "grammatica" dei sessi, rimettere in moto la "sintassi" degli affetti e riarticolare il discorso dell'amore in vista di una sua felice riuscita. La lucidità dell'analisi si accompagna a una visione profondamente ottimista, permeata e sostenuta dalla fede. Nella stesura, si è tenuto conto di diverse esigenze. Anzitutto quella di coniugare una certa agilità espositiva con una precisione nei contenuti. Inoltre, se da una parte si richiamano le verità di sempre sull'amore, dall'altra si cerca di dare notizia delle problematiche emergenti nel nostro tempo, anche le più attuali. In altre parole, si annuncia il Vangelo della famiglia al tempo e nell'ottica della nuova evangelizzazione.
La famiglia – scrive don Roberto nell’introduzione – è sempre stata, è, e sarà sempre un bene prezioso, ma oggi è in caduta libera. Pochi matrimoni, poche nascite, famiglie ferite. È innegabile che si diventa umani in famiglia, ma intanto le coppie scoppiano, l'educazione è in affanno, le persone mostrano tante fragilità. In pochi decenni la "società tradizionale" ha ceduto il passo alla cosiddetta "società complessa", con vistosi guadagni in termini di benessere ed evidenti perdite quanto a qualità della vita. Ci siamo liberati di qualche rigidezza tipica delle epoche sacrali, ma l'età secolare ci consegna una società liquida nella quale tutti i legami sono in frantumi. Unica cura a tutto ciò: un'azione volta a ritrovare la grammatica dei sessi, a rimettere in moto la sintassi degli affetti, a riarticolare il discorso dell'amore in vista della sua felice riuscita.
Come riporta un detto, attribuito sia a Cicerone che a Chesterton, “A room without books is like a body without a soul-Una stanza senza libri è come un corpo senza anima”. Perciò, la biblioteca di casa non rimanga senza Alfabeto Familiare, l’anima ne trarrà giovamento!
Anche su Vita Diocesana Pinerolese
I classici della truppa: Narnia. La teologia fuori dall'armadio
Il libro “Narnia. La teologia fuori dall'armadio”, curato da padre Antonio Carriero per le Edizioni del Messaggero di Padova, da come si comprende dall'avvincente titolo, si propone di accompagnare il lettore in una grande avventura attraverso l'armadio più famoso della lettaratura, per conoscere la fantastica terra della saga di Charles Staples Lewis, docente di Oxford e amico del collega-subcreatore J.R.R Tolkien. Un saggio che contiene le riflessioni di una “compagnia del buon senso comune”, formata da autorevoli esperti del fantasy, quali Edoardo Rialti Paolo Gulisano Chiara Nejrotti Ives Coassolo (collaboratrice di Vita Diocesana Pinerolese).
Curatore ed esperti sono riusciti a coniugare, in modo lodevole, agilità espositiva con la precisione nei contenuti, per fornire la famiglia la scuola e la parrocchia di uno strumento assai valido per la crescita spirituale di tutti, giovani e non. Merito appunto dell'opera di Lewis, così ricca di simboli cristiani. Si pensi al leone Aslan, immagine di Cristo, che come Questi si sacrifica per salvare molti, muore e risorge; ai dialoghi che intercorronno tra il leone e i fratelli Pavensie, un simbolo della Rivelazione. Ne consegue che Narnia è un “viaggio di formazione” - non a caso, è il titolo di uno saggi del libro curato da Carriero - nel quale Aslan e gli altri personaggi permettono di riflettere sui grandi temi della fede: la Grazia, il Perdono, la Risurrezione, la tentazione per ogni uomo. Un viaggio verso la realtà, un viaggio che permette ad ogni persona, bambino o adulto, di riflettere su se stesso e sulla vita. Il bene più prezioso è il rapporto con Dio: Aslan risveglia nel cuore dei protagonisti - e dei lettori - questa certezza.
Tuttavia, Lewis si rivolge anche a “chi vede nella sua opera – riporta padre Carriero nell'introduzione – solo racconti fantastici senza alcuna allusione alla fede cristiana. La sua fantasia di scrittore che (sub)crea altri mondi, magici e fatati, mette in evidenza ciò che la quotidianità nasconde e ignora: la presenza impalpabile ma reale del vero Creatore, di Dio, una realtà che il romanzo realista non era più in grado di raccontare”.
Infine, si può ancora dire con il professor Edoardo Rialti che: “Lo studioso non può che ammirare la freschezza con cui in Lewis i rimandi colti, le strutture allegoriche sfavillano come i colori delle miniature medievali. Come nel suo amato Spenser, o in Dante. Per non parlare dello humour, del pathos, e di quella strana capacità che hanno certi racconti fantastici di farti come “raddoppiare il gusto” per ciò che costituisce la semplice stoffa della nostra vita quotidiana. Lo splendore dell'ordinario, direbbe Thomas Howard.
E con il “filosofo contadino” Gustave Thibon, si potrebbe ancora dire che il fantasy non è fuga dal mondo ma opportunità per tornare al reale ed essere al servizio del suo Creatore, e cioè di Dio. Cosa di cui erano consapevoli sia Lewis sia Tolkien, che con i loro scritti hanno offerto panacèe alle anime di milioni di lettori, ferite a causa delle terribili ideologie del XX secolo.
Anche sul giornale della Diocesi di Pinerolo
Tuttavia, Lewis si rivolge anche a “chi vede nella sua opera – riporta padre Carriero nell'introduzione – solo racconti fantastici senza alcuna allusione alla fede cristiana. La sua fantasia di scrittore che (sub)crea altri mondi, magici e fatati, mette in evidenza ciò che la quotidianità nasconde e ignora: la presenza impalpabile ma reale del vero Creatore, di Dio, una realtà che il romanzo realista non era più in grado di raccontare”.
Infine, si può ancora dire con il professor Edoardo Rialti che: “Lo studioso non può che ammirare la freschezza con cui in Lewis i rimandi colti, le strutture allegoriche sfavillano come i colori delle miniature medievali. Come nel suo amato Spenser, o in Dante. Per non parlare dello humour, del pathos, e di quella strana capacità che hanno certi racconti fantastici di farti come “raddoppiare il gusto” per ciò che costituisce la semplice stoffa della nostra vita quotidiana. Lo splendore dell'ordinario, direbbe Thomas Howard.
E con il “filosofo contadino” Gustave Thibon, si potrebbe ancora dire che il fantasy non è fuga dal mondo ma opportunità per tornare al reale ed essere al servizio del suo Creatore, e cioè di Dio. Cosa di cui erano consapevoli sia Lewis sia Tolkien, che con i loro scritti hanno offerto panacèe alle anime di milioni di lettori, ferite a causa delle terribili ideologie del XX secolo.
Anche sul giornale della Diocesi di Pinerolo
I classici della truppa: I preti di Stargorod
I preti di Stargorod ” è la narrazione più nota di Nikolaj Semonovic Leskov. Si colloca nei romanzi e racconti di vita ecclesiastica, scritti tra il 1869 e il 1872, dopo “Anni vecchi a Plodomasovo” e “Una famiglia decaduta”. Ambientato in una città immaginaria, si presenta in forma di cronache, incastonate su cinque parti; per questo, in origine aveva il sottotitolo di “Cronaca”.
Non è un caso dunque che le sue parole siano in grado di dare quel trait d’union tanto necessario alle stesse cronache per superare una certa anarchia: d’altra parte, non è facile tenere insieme “dei racconti nel racconto”. Due elementi lo permettono. Il primo vede l’arciprete Savelij Tuberozov, un autentico cristiano, sempre in lotta con l’ipocrisia dei governanti e la burocrazia ecclesiastica; e il sanguigno diacono cosacco Achillà, innamorato filialmente dell’arciprete. Questi vive molte “disavventure”, che danno all’opera una vena di ironia. Diverse le scene in cui lo si vede combattere con gli intellettuali (spesso finti) anticlericali del paese, come “l’idiota” professor Varnava Prepotenski. In realtà, ve ne sarebbe un terzo, il sacerdote Zacharija Benefaktov, solo non fosse così “modesto da occupare semplicemente lo spazio che occupa il suo minuscolo corpo”.
Il secondo elemento, invece, che emerge man mano si procede nella lettura, è rappresentato da un duplice senso: di vitalità tipicamente russo e di morte incombente. Il tutto è raccontato con spirito arguto e humour schietto, attraverso i quali riesce a stemperare i momenti più drammatici. I protagonisti incontrano in Stargorod e dintorni una varietà umana straordinaria, costituita da persone quali la munifica e spietata bojarina Marfa Andreevna Plodomasova, benefattrice dell’arciprete Tuberozov; il suo servo, il nano Nikolaj Afanas’evic. Personaggio indimenticabile, che presenta le caratteristiche migliori del popolo russo: saggio, mite, semplice, rispettoso di chi considera superiore a sé e fedele all’amicizia fino alla morte. Nonostante le umiliazioni, anche senza malizia, della sua benefattrice. Non mancano i personaggi meschini e tragici come Danilka e il malvagio Termosiesov, presente nella Terza parte, che con i suoi crimini e inganni contribuirà alle sofferenze di Tuberozov e di Achillà. Fino agli esiti fatali dell’ultima parte. Tutta l’opera è quindi il semplice racconto della vita delle persone all’interno di una comunità. La Prima parte, ad esempio, offre soprattutto il punto di vista dell’arciprete, attraverso la lettura che egli stesso fa del proprio diario. Qui si inizia a vedere la grande personalità di Tuberozov e l’affetto paterno, giacché l’amata moglie non ha potuto dargli un figlio, che nutre verso Achillà. Un appunto del 15 agosto 1859 conferma: sia l’arciprete che il diacono sono a un banchetto a casa del sindaco. A un certo punto tra il diacono e il medico, altro invitato, si scatena la “disputa sull’ingegno”; litigano perché il secondo ha osato dire che l’arciprete non è dotato di ingegno e, per tutta risposta, il diacono ha reagito incastrandolo su un armadio. Così commenta Tuberozov nel suo diario: “E’ straordinario, che davvero questo diacono cosacco si sia accorto che io gli voglio bene, non sapendo perché io stesso, e che mi ami egli pure senza rendersene conto”.
Leskov affascina con la sua “Cronaca”. Sebbene questo aspetto renda lo scritto disarmonico ed eterogeneo, tali limiti sono superati dalla straordinaria scrittura di Leskov, capace di rendere vitali i personaggi e di descrivere con profondità i momenti poetici di cui è intessuta l'opera. Infatti, lo scrittore Peskov, in arte Maksim Gor’kij, lo definiva mago della parola.
Anche su Il Foglio
Il secondo elemento, invece, che emerge man mano si procede nella lettura, è rappresentato da un duplice senso: di vitalità tipicamente russo e di morte incombente. Il tutto è raccontato con spirito arguto e humour schietto, attraverso i quali riesce a stemperare i momenti più drammatici. I protagonisti incontrano in Stargorod e dintorni una varietà umana straordinaria, costituita da persone quali la munifica e spietata bojarina Marfa Andreevna Plodomasova, benefattrice dell’arciprete Tuberozov; il suo servo, il nano Nikolaj Afanas’evic. Personaggio indimenticabile, che presenta le caratteristiche migliori del popolo russo: saggio, mite, semplice, rispettoso di chi considera superiore a sé e fedele all’amicizia fino alla morte. Nonostante le umiliazioni, anche senza malizia, della sua benefattrice. Non mancano i personaggi meschini e tragici come Danilka e il malvagio Termosiesov, presente nella Terza parte, che con i suoi crimini e inganni contribuirà alle sofferenze di Tuberozov e di Achillà. Fino agli esiti fatali dell’ultima parte. Tutta l’opera è quindi il semplice racconto della vita delle persone all’interno di una comunità. La Prima parte, ad esempio, offre soprattutto il punto di vista dell’arciprete, attraverso la lettura che egli stesso fa del proprio diario. Qui si inizia a vedere la grande personalità di Tuberozov e l’affetto paterno, giacché l’amata moglie non ha potuto dargli un figlio, che nutre verso Achillà. Un appunto del 15 agosto 1859 conferma: sia l’arciprete che il diacono sono a un banchetto a casa del sindaco. A un certo punto tra il diacono e il medico, altro invitato, si scatena la “disputa sull’ingegno”; litigano perché il secondo ha osato dire che l’arciprete non è dotato di ingegno e, per tutta risposta, il diacono ha reagito incastrandolo su un armadio. Così commenta Tuberozov nel suo diario: “E’ straordinario, che davvero questo diacono cosacco si sia accorto che io gli voglio bene, non sapendo perché io stesso, e che mi ami egli pure senza rendersene conto”.
Leskov affascina con la sua “Cronaca”. Sebbene questo aspetto renda lo scritto disarmonico ed eterogeneo, tali limiti sono superati dalla straordinaria scrittura di Leskov, capace di rendere vitali i personaggi e di descrivere con profondità i momenti poetici di cui è intessuta l'opera. Infatti, lo scrittore Peskov, in arte Maksim Gor’kij, lo definiva mago della parola.
Anche su Il Foglio