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sabato 30 aprile 2016
venerdì 29 aprile 2016
Come eravamo: La politica, per chi, per cosa
Questo testo fa parte di "La politica, per chi, per cosa", supplemento a "il Sabato" n. 22 del 30 maggio 1987, p. 13-21
Intervista a monsignor Luigi Giussani a cura di Alessandro Banfi
Cl e la politica. Un rapporto molto discusso in questi anni, almeno a partire dal 1974. Qual è la concezione di fondo che ha animato questo rapporto e che, in diverse forme, lungo diverse vicende, si è manifestata? Sempre rimanendo sul tema dell'unità dei cattolici, dobbiamo registrare una sorta di paradosso. A metà degli anni Settanta una certa cultura cattolica ha teorizzato l'apertura a sinistra e la diaspora. E in quegli anni Cl si è sempre battuta, controcorrente, per l'unità dei cattolici. In questo ultimo periodo, invece, almeno apparentemente, le parti sembrano rovesciate. Chi ieri teorizzava l'apertura a sinistra oggi invoca per lei e il suo movimento una punizione della gerarchia. Chi ieri teorizzava il no sul divorzio, oggi vi accusa di creare divisioni. Se n'è fatto una ragione di questo paradosso?
Me ne sono fatto una ragione ben chiara e vorrei essere corretto, se sbaglio. Che in loro prevale la categoria politica sulla categoria ecclesiale. Perseguono infatti, con atteggiamenti solo apparentemente opposti a quelli di un tempo, lo stesso scopo: l'affermazione di una stessa antropologia e di una stessa concezione della società. Un'antropologia dualista dove, la fede è separata dalla realtà, per cui il richiamo all'unità è puramente strategico. Cioè puramente funzionale ad un risultato politico. La concezione della società è laicista: questo dualismo viene infatti consacrato dalla prassi del potere.
I giornali hanno sottolineato che lei, accettando di parlare ad Assago ad un'assemblea ufficiale del partito della Dc, «per la prima volta» si è in qualche modo identificato con il partito. Lo rifarebbe? Anche dopo le reazioni suscitate dal suo discorso nel partito?
Lo rifarei perché sono persuaso che dovunque si possa testimoniare ciò in cui si crede, le implicazioni mirabili e le conseguenze umanamente utili della fede, un cristiano deve cercare di farlo. Perciò come ho testimoniato ad un incontro pubblico organizzato dalla Dc, avrei testimoniato al Congresso del Psi, o ad una riunione del Pci o di chiunque altro. Fatta salva, appunto, l'ubbidienza ai superiori.
Dopo l'incontro di Assago, si è sviluppata una polemica culturale con la attuale leadership della Dc. In che cosa è consistita?
Si tratta della concezione del rapporto Stato-società. Io dico: non più Stato meno società, ma più società meno Stato, più creatività resa capace di ordine da un'educazione sociale adeguata e meno pianificazione del potere. Meno tentativo di pianificazione generale da parte del potere.
Il vero problema sta in quello che la dottrina sociale della Chiesa chiama il principio di sussidiarietà. Uno Stato è l'ambito in cui un potere cerca di servire come suggerisce l'Evangelo, la realtà viva di un popolo. Servire, cioè sostenere, valorizzare, rendere equilibrata la realtà viva di un popolo. Ma il popolo, la gente, rispondendo alle esigenze originarie della propria natura e ai bisogni profondi della propria vita, normalmente tende ad articolarsi secondo una affinità e secondo una comunionalità, creando un fenomeno associativo in cui si attua immediatamente la solidarietà. Tale solidarietà cerca di darsi strumenti di risposta e questi il potere deve garantire. L'esempio più chiaro è quello della preoccupazione, della esigenza che i genitori hanno che la scuola salvaguardi un certo tipo di educazione che vogliono dare ai loro figli.
Detto questo, posso ribadire che chi ha paura di una generazione dal basso delle cose prima di tutto è ben lontano dal conoscere il principio di sussidiarietà e in secondo luogo è contraddistinto da un solo timore: quello di non aver possesso sulla situazione. Chi teme la libertà, teme di non avere il possesso della situazione; l'insorgenza di movimenti, proprio perché non si riducono a denuncia né scaricano sul futuro la lotta per togliere le contraddizioni del presente, costituisce un intervento appassionatamente concreto e perciò incidente sulla attualità delle circostanze storiche. Ogni movimento si gioca sempre in un tentativo di costruzione, pronto per la sua stessa concretezza viva a cambiare, a correggersi, a rinnovarsi. Per questo è estremamente seccante una tale presenza per il centralismo burocratico che oggi tende a determinare ogni tipo di istituzione. Quello di cui in fondo sentiamo assenza e necessità nell'attuale leadership della Dc è che si traduca in prassi ciò che è stato detto come teoria in sede congressuale.
Potrebbe delineare le caratteristiche di questo centralismo burocratico?
La caratteristica principale è quella di costruire a tavolino programmi e strategie per poi «giacere» tranquillamente sulla funzionalizzazione di tutto a questi programmi. E in questo processo l'unica preoccupazione è quella di ottenere un consenso sullo statu quo raggiunto. Quindi da un punto di vista umano e sociale questo centralismo è eminentemente conservatore salvo poi nel campo tecnico-scientifico per apparire progressista, rischiare tutto sino al rischio dell'autodistruzione dell'uomo. Nel campo morale, invece, il centralismo sceglie certi valori, di cui si proclama e si fa difensore, obliterando e censurandone altri più scomodi e più radicali. Questi valori selezionati diventano i «valori riconosciuti da tutti», cioè quelli che vengono salvaguardati attraverso l'operazione della creazione del consenso, al fine di mantenere lo statu quo. C'è una frase illuminante del filosofo americano John Dewey, che pur essendo stata formulata ai primi del Novecento fotografa bene una posizione vissuta ancora oggi, anche in tanto mondo cattolico. Dice Dewey: «Abbandonare la ricerca della realtà e del valore assoluto e immutabile, può sembrare un sacrificio, ma questa rinuncia è la condizione per impegnare in una vocazione più vitale. La ricerca dei valori che possono essere assicurati e condivisi da tutti perché connessi alla vita sociale, è una ricerca in cui la filosofia troverà non rivali, ma coadiutori negli uomini di buona volontà».
Il valore è il nesso fra l'input dato dal desiderio originale e la totalità. Un input operativo dato dall'esigenza originaria, naturale e, per usare un altro termine, l'ideale. Così i valori si incarnano nell'esperienza e non possono essere scollati uno dall'altro, perché il rapporto con l'ideale, con la totalità è uno.
Ci sono stati tre «scandali» sulla stampa italiana che hanno coinvolto lei e il Movimento che dirige: il rapporto con i socialisti, l'incontro con l'Msi fatto a Roma, la relazione con Giulio Andreotti. Per usare un termine in voga tra i cronisti, potremmo parlare di tre patti con Belzebù. Può spiegare questi tre «scandali»?
Il rapporto sia con i socialisti che con esponenti dell'Msi è stato un rapporto tra persone in cui l'applicazione del senso religioso come determinante valori sociali, nel primo caso, o come messaggio cristiano in quanto tale, nel secondo, abbiamo ritenuto potesse essere valorizzata. Ma questo atteggiamento lo adotteremmo con chiunque. Mentre mi pare che sia totalmente diverso l'ultimo dei tre «scandali»: il rapporto con Giulio Andreotti. Esso deriva infatti dalla scelta di una persona la cui concezione dell'uomo e della vita sociale, per l'esperienza che abbiano del suo modo di pensare e di governare, meglio ci sembra garantire le preoccupazioni dettate dalla dottria cristiana. Chiamare poi Belzebù gli avversari politici è segno di un integrismo da lasciare soltanto a chi ha un'immensa sete di potere, o a chi voglia blandire chi ha molta sete di potere.
Una delle recenti accuse rivolte al suo Movimento è quella che il vostro integralismo si sia tramutato in affarismo. Un'accusa che viene da molte parti del mondo politico e che purtroppo ha trovato echi anche nella Dc. Ad esempio vi è stato rivolto il monito: «La fede non c'entra con gli affari». Come risponde?
Cercare di applicare la dottrina sociale della Chiesa e perciò, come è sempre accaduto nella tradizione cattolica, cercare di creare strutture più adeguate per rispondere ai bisogni degli uomini o sostenere l'azione educativa e sociale dei cattolici stessi, sarebbe affarismo? L'impegno a creare opere è entusiasmo di intelligenza e carità. Accusare di affarismo questo non può essere forse il segno dell'intolleranza di chi, avendo tutto, si irrita per la provocazione che sente venire da chi gestisce briciole secondo finalità ben diverse? Certe posizioni mi pare siano proclivi ideologicamente a distinguere troppo, per i miei gusti, fra fede e realtà sociale.
Qual è lo stato dei rapporti con l'associazionismo cattolico tradizionale?
Conosce esperienze di unità profonda come con il Movimento cristiano lavoratori, l'Mcl, accanto ad un più vasto numero di realtà con cui la nostra volontà di dialogo e di collaborazione è ancora una speranza.
Ci sentiamo decisi ad una obbedienza netta, anche disciplinare, pur lottando con tutte le nostre energie per la difesa di quella libertà che soprattutto il Concilio Vaticano II conosce ai fedeli. Pregando Iddio che ci aiuti a creare, come dice la Gaudiurn et Spes, «uomini nuovi artefici di una umanità nuova», o, come ha detto Giovanni Paolo II a Rimini, uomini impegnati a creare «una civiltà della verità e dell'amore». Che per noi, in fondo, significa rendere sempre più miracolo il Mistero divino presente nella Chiesa, attraverso la Sua capacità di creare esperienze di creare esperienze di umanità migliore.
Spero che la Dc, quale strumento che ci sembra più agibile per dei cattolici democratici, esca con una possibilità di azione più vasta. Che si potenzi però non solo la Dc, ma all'interno della Dc anche la componente più sensibile alla dottrina sociale della Chiesa. Quello che temo di più è che dopo le elezioni si pongano le condizioni per un governo di alternativa che aggreghi il Pci insieme con i partiti di area laica e socialista. Personalmente, potrei anche sbagliarmi, sono anche preoccupato del verificarsi di un bipolarismo Dc-Pci che esaltasse il dispotismo dell'uno o dell'altro polo.
Ma non c'è contraddizione fra i timori suscitati dalla politica bi-polare e un potenziamento di una tentazione presente nella Dc?
Resto fedele alla speranza che la Dc confermi e accresca la sua posizione, ma che in proporzione crescano nella Dc i fermenti più sensibili alla concezione del Papa espressa nel suo discorso di Loreto. E poi, non essendoci nessun Belzebù, spero che coloro che oggi mi destano preoccupazione possano cambiare.
Mi desta un'immagine viva, perché, grazie a Dio, ci sono nella realtà sociale italiana vivi ambiti e ricchi trends, in cui la volontà di vivere la fede in modo tale che essa informi la vita culturale e sociale è feconda. È proprio il fenomeno dei movimenti, anche se non si tratta soltanto di ciò, che mi dà questa speranza.
Il Movimento Popolare è sempre stato presentato come il «braccio politico» di Cl. Lei come lo definisce? E come lo vorrebbe?
Lo vorrei come lo definisco. Perché mi pare che il Movimento popolare abbia sempre cercato e cerchi di realizzare, evolutivamente l'ideale per cui è nato. Ed è nato come trama sociale unitaria, liberamente unitaria di tutto lo sforzo che le persone educate al cristianesimo, in Cl o in altri ambiti, realizzano come tentativo di risposta organica ai bisogni della gente, in tutti i campi, culturale, sociale e politico. È proprio questa immagine di Movimento Popolare che ci rende ipersensibili di fronte alla necessità che la società sia retta secondo una libertà soprattutto associativa. Libertà che, del resto, Giovanni XXIII include nella Pacem in terris fra i supremi diritti dell'uomo.
Un'ultima domanda, un po' maligna. In questa frenetica campagna elettorale, al constatare quanti appelli «cattolici» vengono fatti, viene l'idea che a questo punto la fede c'entri solo con il voto…
Mi pare che questo sia un modo provvidenziale con cui lo Spirito di Dio riesce ad estrarre almeno una volta ogni tanto dalla distrazione estrema e dall'incoerenza quasi totale molti che solo anagraficamente sono cristiani.
Mi pare che questo sia un modo provvidenziale con cui lo Spirito di Dio riesce ad estrarre almeno una volta ogni tanto dalla distrazione estrema e dall'incoerenza quasi totale molti che solo anagraficamente sono cristiani.
mercoledì 27 aprile 2016
martedì 26 aprile 2016
Come eravamo: Il senso religioso, le opere, il potere
Questo testo fa parte di "La politica, per chi, per cosa", supplemento a "il Sabato" n. 22 del 30 maggio 1987, p. 7-12
La politica, in quanto forma più compiuta di cultura, non può che trattenere come preoccupazione fondamentale l’uomo. Nel discorso all’Unesco (2 giugno 1980), Giovanni Paolo II ha detto: «La cultura si situa sempre in relazione essenziale e necessaria a ciò che è l’uomo».
1) Ora, la cosa più interessante è che l’uomo è uno nella realtà del suo io. Ancora, in quel discorso il Papa dice che occorre sempre, nella cultura, considerare «l’uomo integrale, l’uomo tutto intero, in tutta la verità della sua soggettività spirituale e corporale». Occorre «non sovrapporre alla cultura - sistema autenticamente umano, sintesi splendida dello spirito e del corpo - delle divisioni e delle opposizioni preconcette».
Che cosa determina, cioè dà forma a questa unità dell’uomo, dell’io? È quell'elemento dinamico che attraverso le domande, le esigenze fondamentali in cui si esprime, guida l’espressione personale e sociale dell’uomo. Brevemente, io chiamo «senso religioso» questo elemento dinamico che, attraverso le domande fondamentali, guida l’espressione personale e sociale dell’uomo; la forma dell’unità dell’uomo è il senso religioso. Questo fattore fondamentale si esprime nell'uomo attraverso domande, istanze, sollecitazioni personali e sociali. Il capitolo 17 degli Atti degli apostoli presenta san Paolo che spiega la grande e inarrestabile migrazione dei popoli come ricerca del Dio.
Il senso religioso appare, così, la radice da cui scaturiscono i valori. Un valore, ultimamente, è quella prospettiva del rapporto tra un contingente e la totalità, l’assoluto. La responsabilità dell’uomo, attraverso tutti i tipi di sollecitazioni che gli provengono dall'impatto con il reale, si impegna nella risposta a quelle domande che il senso religioso, o biblicamente «cuore» esprime.
2) Nel gioco di questa responsabilità di fronte ai valori, l’uomo ha a che fare con il potere. Intendo per potere quello che nel suo libro - così intitolato - Romano Guardini definiva come delineazione dello scopo comune e organizzazione delle cose per il suo raggiungimento. Ora, o il potere è determinato dalla volontà di servire la creatura di Dio nel suo dinamico evolversi, servire cioè l’uomo, la cultura e la prassi che ne deriva, oppure il potere tende a ridurre la realtà umana al proprio scopo; e così uno Stato sorgente di tutti i diritti riconduce l’uomo a «pezzo di materia o cittadino anonimo della città terrena», così come ne parla la Gaudium et spes.
3) Se il potere mira solo al suo scopo, esso deve cercare di governare i desideri dell’uomo. Il desiderio, infatti, è l’emblema della libertà perché apre all'orizzonte della categoria della possibilità; mentre il problema del potere, inteso come ho accennato, è quello di assicurarsi il massimo di consenso da una massa sempre più determinata nelle sue esigenze. Così i desideri dell’uomo, e quindi i valori, sono essenzialmente ridotti. Una riduzione dei desideri dell’uomo, delle sue esigenze e, quindi, dei valori, viene perseguita sistematicamente. I mass media e la scolarizzazione diventano strumenti per l’induzione accanita di determinati desideri e per l’obliterazione o l’estromissione di altri. Nell'enciclica Dives in misericordia il Papa nota: «Questa è la tragedia del nostro tempo: la perdita della libertà di coscienza da parte di interi popoli ottenuta con l’uso cinico dei mezzi di comunicazione sociale da parte di chi detiene il potere».
4) Il panorama della vita sociale diventa sempre più uniforme, grigio (pensiamo alla «grande omologazione» di cui parlava Pasolini), così che viene da descrivere la situazione con la formula (che gioco qualche volta con i giovani): bisogna stare attenti che il P (potere) non sia in proporzione diretta con una I (impotenza), perché allora il potere diventerebbe prepotenza di fronte ad un’impotenza perseguita, appunto, con la riduzione sistematica dei desideri, delle esigenze e dei valori.
Un brano dell’intervista concessa a L’Altra Europa dal grande scrittore Václav Belohradský dice: «Tradizione europea significa non poter mai vivere al di là della coscienza riducendola a un apparato anonimo come la legge o lo Stato Questa "fermezza" della coscienza è una eredità della tradizione greca, cristiana e borghese. L’irriducibilità della coscienza alle istituzioni è minacciata nell'epoca dei mezzi di comunicazione di massa, degli Stati totalitari e della generale computerizzazione della società. Infatti è molto facile per noi riuscire a immaginare istituzioni organizzate così perfettamente da imporre come legittima ogni loro azione. Basta disporre di un’efficiente organizzazione per legittimare qualunque cosa. Così potremmo sintetizzare l’essenza di ciò che ci minaccia: gli Stati si programmano i cittadini, le industrie i consumatori, le case editrici i lettori, ecc. Tutta la società, un po’ alla volta, diviene qualcosa che lo Stato si produce».
Nell'appiattimento del desiderio ha origine lo smarrimento dei giovani e il cinismo degli adulti; e nella astenia generale l’alternativa qual è? Un volontarismo senza respiro e senza orizzonte, senza genialità e senza spazio, e un moralismo d’appoggio allo Stato come ultima fonte di consistenza per il flusso umano.
5) Una cultura della responsabilità deve mantenere vivo quel desiderio originale dell’uomo da cui scaturiscono desideri e valori: il rapporto con l’infinito, che rende la persona soggetto vero e attivo della storia. Una cultura della responsabilità non può non partire dal senso religioso. Tale partenza porta gli uomini a mettersi insieme. È impossibile che la partenza dal senso religioso non spinga gli uomini a mettersi insieme. E non nella provvisorietà di un tornaconto, ma sostanzialmente; a mettersi insieme nella società secondo una interezza e una libertà sorprendenti (la Chiesa ne è il caso più esemplare), così che l’insorgere di movimenti è segno di vivezza, di responsabilità e di cultura, che rendono dinamico tutto l’assetto sociale. Occorre osservare che tali movimenti sono incapaci di rimanere nell'astratto. Nonostante l’inerzia o la mancanza di intelligenza di chi li rappresenta o di chi vi partecipa, i movimenti non riescono a rimanere nell'astratto, ma tendono a mostrare la loro verità attraverso l’affronto dei bisogni in cui si incarnano i desideri, immaginando e creando strutture operative capillari e tempestive che chiamiamo «opere», «forme di vita nuova per l’uomo», come disse Giovanni Paolo II al Meeting di Rimini nel 1982, rilanciando la Dottrina sociale della Chiesa. Le opere costituiscono vero apporto a una novità del tessuto e del volto sociale.
Le caratteristiche di opere generate da una responsabilità autentica devono essere realismo e prudenza. Il realismo è connesso con l’importanza del fatto che il fondamento della verità è l’adeguazione dell’intelletto alla realtà; mentre la prudenza, che nella Summa di san Tommaso è definita come un retto criterio nelle cose che si fanno, si misura sulla verità della cosa prima che sulla moralità, sull'aspetto etico di bontà. L’opera, proprio per questa necessità di realismo e prudenza, diventa segno di immaginazione, di sacrificio e di apertura.
È quindi nell'impegno con questo primato di libera e creativa socialità di fronte al potere, che si dimostra la forza e la durata della responsabilità personale. È nel primato della società di fronte allo Stato che si salva la cultura della responsabilità. Primato della società, allora: come tessuto creato da rapporti dinamici tra movimenti, che creando opere e aggregazioni costituiscono comunità intermedie e quindi esprimono la libertà delle persone potenziata dalla forma associativa.
Vorrei trarre ora qualche conclusione. Un partito che soffocasse, che non favorisse o non difendesse questa ricca creatività sociale contribuirebbe a creare o a mantenere uno Stato prepotente sulla società. Tale Stato si ridurrebbe a essere funzionale solo ai programmi di chi fosse al potere e la responsabilità sarebbe evocata semplicemente per suscitare consenso a cose già programmate; perfino la moralità sarebbe concepita e conclamata in funzione dello status quo, che chiamano anche «pace».
Pasolini diceva amaramente che uno Stato di potere, così come tante volte ne abbiamo oggi, è immodificabile; lascia, al massimo, spazio all’utopia perché non dura o alla nostalgia individuale perché è impotente. Politica vera, al contrario, è quella che difende una novità di vita nel presente, capace di modificare anche l’assetto del potere.
Così, la politica deve decidere se favorire la società esclusivamente come strumento, manipolazione di uno Stato e del suo potere, oppure favorire uno Stato che sia veramente laico, cioè al servizio della vita sociale secondo il concetto tomistico di «bene comune», ripreso vigorosamente dal grande e dimenticato Magistero di Leone XIII.
Ho fatto quest’ultima osservazione pur ovvia a tutti per ricordare che è un cammino nient’affatto facile, ma duro come del resto il cammino di ogni verità nella vita. Ma bisogna non aver paura, anche in questo caso, di quello che diceva il Santo Evangelo: «Chi si tiene strette le sue cose, la sua vita, le perderà e chi darà in nome di Cristo la sua vita, la guadagnerà».
I classici della truppa: La politica, per chi, per cosa
Riporto il libretto intitolato "La politica, per chi, per cosa" che è stato supplemento a "il Sabato" nel 30 maggio 1987.
Per fare le cose con un po' di ordine creo questo indice con i riferimenti ai singoli capitoli.
Tutto questo principalmente perché ho trovato utile ed attuale quanto scritto, ma sarebbe sufficiente la pretesa che ha questo piccolo libro per meritare la nostra attenzione e lettura.
In quarta di copertina, infatti, troviamo scritto:
Parte prima: Assago e dintorni
Per fare le cose con un po' di ordine creo questo indice con i riferimenti ai singoli capitoli.
Tutto questo principalmente perché ho trovato utile ed attuale quanto scritto, ma sarebbe sufficiente la pretesa che ha questo piccolo libro per meritare la nostra attenzione e lettura.
In quarta di copertina, infatti, troviamo scritto:
Questo volume raccoglie materiale indispensabile per una «battaglia culturale» in politica, utile anche per una riflessione senza scadenza immediata. La parte forte è costituita da un'antologia di dottrina sociale cristiana. Al centro di essa vi è la preoccupazione per l'uomo e per il bene comune, che si concretizzano nella relativizzazione del potere dello Stato in funzione di un maggior peso delle «comunità intermedie».Mentre, a pagina 3, troviamo la presentazione:
Accanto ad antichi pronunciamenti pontifici ci sono le parti essenziali del discorso di Giovanni Paolo II a Loreto, alcuni paragrafi dell'Istruzione del «Ratzinger 2» su «libertà e liberazione» e brani del documento della Conferenza episcopale italiana su «La Chiesa italiana e le prospettive del Paese».
Questo nucleo centrale è introdotto da contributi di monsignor Luigi Giussani e fatto seguire da illuminazioni di grandi politici e pensatori cristiani del dopoguerra. Lo scopo della raccolta è di porre le basi teoriche e di testimonianza per una passione politica che miri all'incremento della presenza missionaria della Chiesa nel mondo.
Ci sono domande e problemi cui è difficile dare risposte. La nostra è l'età dell'aborto, dell'eutanasia, della bioetica. L'uomo sembra oggi legato ad un suo destino di autodistruzione: è la Chernobyl del nucleare richiamata simbolicamente la Chernobyl del lavoro, della morale, delle coscienze. Gli Stati rispondono avocando a sé il diritto di decidere, di delimitare, di fermare o di accelerare. Mentre le risposte teoriche e politiche organizzate, le ideologie, sono palesemente incapaci di rispondere, si diffonde un modello di potere che tende ad Est e ad Ovest ad omologare il comportamento dei cittadini. Per questo la libertà è affidata ad uno spazio che non sia dovuto (o che sia strappato) alla programmazione dello Stato. La dottrina sociale e la tradizione della Chiesa hanno sempre usato il termine «comunità intermedie» per identificare queste realtà sociali di «resistenza» verso la programmazione del potere e di costruzione libera e intelligente del popolo. Lo slogan «più società meno Stato» porta questo messaggio nel vivo delle contraddizioni contemporanee, come risposta per tutti, come contributo per il bene comune. Lo strumento di questo libretto è pensato per aiutare e diffondere questo messaggio.Indice
Parte prima: Assago e dintorni
- Il senso religioso, le opere, il potere (monsignor Luigi Giussani)
- La politica, per chi, per cosa (intervista a monsignor Luigi Giussani)
- Il desiderio e la politica (dialogo con monsignor Luigi Giussani)
- Collateralismo rovesciato (padre Angelo Macchi)
- Politica «cristiana» e stato laico (intervista al cardinale Giacomo Biffi)
- Lo Stato e la Chiesa (Papa Leone XIII)
- Lo Stato e la persona (Papa Leone XIII)
- Lavoro e proprietà (Papa Leone XIII)
- A proposito di bene comune (Papa Pio XI)
- Quale giustizia costruire (Papa Pio XI)
- I diritti della famiglia (Papa Pio XII)
- La nuova civiltà (Papa Giovanni Paolo II)
- La civiltà delle opere (Papa Giovanni Paolo II)
- Il metodo della presenza (documento Cei 1981)
- Solidarietà e sussidiarietà (Documento Sacra congregazione)
Parte terza: Gli uomini non sono atomi
- Le premesse della politica (Giorgio La Pira)
- La lezione della Costituzione (Giorgio La Pira)
- Ragionando sulla libertà (Giorgio La Pira)
- Uno Stato popolare (Luigi Sturzo)
- Il soggetto educatore (Luigi Sturzo)
- Comunità intermedie di libertà (Aldo Moro)
- La libertà di scuola (Aldo Moro)
- La Dc secondo De Gasperi (Alcide De Gasperi)
- Dov'è la libertà (Intervista con Giulio Andreotti)
- Libertà vigilata (Editoriale de Il Sabato)
- Il bene comune (Rocco Buttiglione)
- La sfida agli apparati (Vaclav Belhoradski)
- Per la politica senza politici (Edouard Mounier)