venerdì 29 aprile 2016

Come eravamo: La politica, per chi, per cosa

Questo testo fa parte di "La politica, per chi, per cosa", supplemento a "il Sabato" n. 22 del 30 maggio 1987, p. 13-21
Intervista a monsignor Luigi Giussani a cura di Alessandro Banfi

Cl e la politica. Un rapporto molto discusso in questi anni, almeno a partire dal 1974. Qual è la concezione di fondo che ha animato questo rapporto e che, in diverse forme, lungo diverse vicende, si è manifestata? 

È la fedeltà alla concezione dell'uomo e della società implicita nell'esperienza cristiana e nella prassi della Chiesa, concezione che trova una sua perspicua esplicitazione nella dottrina sociale del Papa. La fedeltà a questa visione è stata sempre vissuta fino alla difesa di essa a livello sociale e politico, attraverso l'impegno convergente di tutti i cattolici. La posizione di Cl risponde a questa concezione di fondo: come ha detto il Papa a Loreto, c'è la necessità di un'unità dei cattolici, che non deriva soltanto da una convenienza politica o da una convergenza sentimentale di chi ha lo stesso titolo di cristiano, ma nasce da un fatto. Il fatto è che la comunione battesimale lega così l'individuo a tutta la realtà ecclesiale che il confronto ultimamente obbediente con l'espressione autorevole di questa realtà diventa forma del criterio del singolo. Dunque siamo per l'unità dei cattolici e per la posizione politica che, almeno teoricamente, vuole essere fedele alla tradizione cristiana. Ma con un atteggiamento particolare, avendo presente che la Dc è un partito molto articolato, dove la presenza delle sensibilità e delle elaborazioni culturali è ampia, la nostra preoccupazione sarà quella di scegliere e di appoggiare i candidati che maggiormente diano affidamento nel senso che a noi interessa.

Sempre rimanendo sul tema dell'unità dei cattolici, dobbiamo registrare una sorta di paradosso. A metà degli anni Settanta una certa cultura cattolica ha teorizzato l'apertura a sinistra e la diaspora. E in quegli anni Cl si è sempre battuta, controcorrente, per l'unità dei cattolici. In questo ultimo periodo, invece, almeno apparentemente, le parti sembrano rovesciate. Chi ieri teorizzava l'apertura a sinistra oggi invoca per lei e il suo movimento una punizione della gerarchia. Chi ieri teorizzava il no sul divorzio, oggi vi accusa di creare divisioni. Se n'è fatto una ragione di questo paradosso?

Me ne sono fatto una ragione ben chiara e vorrei essere corretto, se sbaglio. Che in loro prevale la categoria politica sulla categoria ecclesiale. Perseguono infatti, con atteggiamenti solo apparentemente opposti a quelli di un tempo, lo stesso scopo: l'affermazione di una stessa antropologia e di una stessa concezione della società. Un'antropologia dualista dove, la fede è separata dalla realtà, per cui il richiamo all'unità è puramente strategico. Cioè puramente funzionale ad un risultato politico. La concezione della società è laicista: questo dualismo viene infatti consacrato dalla prassi del potere.

I giornali hanno sottolineato che lei, accettando di parlare ad Assago ad un'assemblea ufficiale del partito della Dc, «per la prima volta» si è in qualche modo identificato con il partito. Lo rifarebbe? Anche dopo le reazioni suscitate dal suo discorso nel partito?

Lo rifarei perché sono persuaso che dovunque si possa testimoniare ciò in cui si crede, le implicazioni mirabili e le conseguenze umanamente utili della fede, un cristiano deve cercare di farlo. Perciò come ho testimoniato ad un incontro pubblico organizzato dalla Dc, avrei testimoniato al Congresso del Psi, o ad una riunione del Pci o di chiunque altro. Fatta salva, appunto, l'ubbidienza ai superiori.

Dopo l'incontro di Assago, si è sviluppata una polemica culturale con la attuale leadership della Dc. In che cosa è consistita?

Si tratta della concezione del rapporto Stato-società. Io dico: non più Stato meno società, ma più società meno Stato, più creatività resa capace di ordine da un'educazione sociale adeguata e meno pianificazione del potere. Meno tentativo di pianificazione generale da parte del potere.

Sembra che questo sia stato una conseguenza decisiva del discorso di Assago, il rapporto fra Stati e comunità intermedie, fra istituti e movimenti. Può ritornare su questo punto? 

Il vero problema sta in quello che la dottrina sociale della Chiesa chiama il principio di sussidiarietà. Uno Stato è l'ambito in cui un potere cerca di servire come suggerisce l'Evangelo, la realtà viva di un popolo. Servire, cioè sostenere, valorizzare, rendere equilibrata la realtà viva di un popolo. Ma il popolo, la gente, rispondendo alle esigenze originarie della propria natura e ai bisogni profondi della propria vita, normalmente tende ad articolarsi secondo una affinità e secondo una comunionalità, creando un fenomeno associativo in cui si attua immediatamente la solidarietà. Tale solidarietà cerca di darsi strumenti di risposta e questi il potere deve garantire. L'esempio più chiaro è quello della preoccupazione, della esigenza che i genitori hanno che la scuola salvaguardi un certo tipo di educazione che vogliono dare ai loro figli.
Detto questo, posso ribadire che chi ha paura di una generazione dal basso delle cose prima di tutto è ben lontano dal conoscere il principio di sussidiarietà e in secondo luogo è contraddistinto da un solo timore: quello di non aver possesso sulla situazione. Chi teme la libertà, teme di non avere il possesso della situazione; l'insorgenza di movimenti, proprio perché non si riducono a denuncia né scaricano sul futuro la lotta per togliere le contraddizioni del presente, costituisce un intervento appassionatamente concreto e perciò incidente sulla attualità delle circostanze storiche. Ogni movimento si gioca sempre in un tentativo di costruzione, pronto per la sua stessa concretezza viva a cambiare, a correggersi, a rinnovarsi. Per questo è estremamente seccante una tale presenza per il centralismo burocratico che oggi tende a determinare ogni tipo di istituzione. Quello di cui in fondo sentiamo assenza e necessità nell'attuale leadership della Dc è che si traduca in prassi ciò che è stato detto come teoria in sede congressuale.

Potrebbe delineare le caratteristiche di questo centralismo burocratico? 

La caratteristica principale è quella di costruire a tavolino programmi e strategie per poi «giacere» tranquillamente sulla funzionalizzazione di tutto a questi programmi. E in questo processo l'unica preoccupazione è quella di ottenere un consenso sullo statu quo raggiunto. Quindi da un punto di vista umano e sociale questo centralismo è eminentemente conservatore salvo poi nel campo tecnico-scientifico per apparire progressista, rischiare tutto sino al rischio dell'autodistruzione dell'uomo. Nel campo morale, invece, il centralismo sceglie certi valori, di cui si proclama e si fa difensore, obliterando e censurandone altri più scomodi e più radicali. Questi valori selezionati diventano i «valori riconosciuti da tutti», cioè quelli che vengono salvaguardati attraverso l'operazione della creazione del consenso, al fine di mantenere lo statu quo. C'è una frase illuminante del filosofo americano John Dewey, che pur essendo stata formulata ai primi del Novecento fotografa bene una posizione vissuta ancora oggi, anche in tanto mondo cattolico. Dice Dewey: «Abbandonare la ricerca della realtà e del valore assoluto e immutabile, può sembrare un sacrificio, ma questa rinuncia è la condizione per impegnare in una vocazione più vitale. La ricerca dei valori che possono essere assicurati e condivisi da tutti perché connessi alla vita sociale, è una ricerca in cui la filosofia troverà non rivali, ma coadiutori negli uomini di buona volontà».

Questo tema dei valori «comuni», strumenti del mantenimento dello statu quo, della creazione del consenso, può suscitare equivoci. Qual è la corretta definizione di valore? 

Il valore è il nesso fra l'input dato dal desiderio originale e la totalità. Un input operativo dato dall'esigenza originaria, naturale e, per usare un altro termine, l'ideale. Così i valori si incarnano nell'esperienza e non possono essere scollati uno dall'altro, perché il rapporto con l'ideale, con la totalità è uno.

Ci sono stati tre «scandali» sulla stampa italiana che hanno coinvolto lei e il Movimento che dirige: il rapporto con i socialisti, l'incontro con l'Msi fatto a Roma, la relazione con Giulio Andreotti. Per usare un termine in voga tra i cronisti, potremmo parlare di tre patti con Belzebù. Può spiegare questi tre «scandali»? 

Il rapporto sia con i socialisti che con esponenti dell'Msi è stato un rapporto tra persone in cui l'applicazione del senso religioso come determinante valori sociali, nel primo caso, o come messaggio cristiano in quanto tale, nel secondo, abbiamo ritenuto potesse essere valorizzata. Ma questo atteggiamento lo adotteremmo con chiunque. Mentre mi pare che sia totalmente diverso l'ultimo dei tre «scandali»: il rapporto con Giulio Andreotti. Esso deriva infatti dalla scelta di una persona la cui concezione dell'uomo e della vita sociale, per l'esperienza che abbiano del suo modo di pensare e di governare, meglio ci sembra garantire le preoccupazioni dettate dalla dottria cristiana. Chiamare poi Belzebù gli avversari politici è segno di un integrismo da lasciare soltanto a chi ha un'immensa sete di potere, o a chi voglia blandire chi ha molta sete di potere.

Una delle recenti accuse rivolte al suo Movimento è quella che il vostro integralismo si sia tramutato in affarismo. Un'accusa che viene da molte parti del mondo politico e che purtroppo ha trovato echi anche nella Dc. Ad esempio vi è stato rivolto il monito: «La fede non c'entra con gli affari». Come risponde? 

Cercare di applicare la dottrina sociale della Chiesa e perciò, come è sempre accaduto nella tradizione cattolica, cercare di creare strutture più adeguate per rispondere ai bisogni degli uomini o sostenere l'azione educativa e sociale dei cattolici stessi, sarebbe affarismo? L'impegno a creare opere è entusiasmo di intelligenza e carità. Accusare di affarismo questo non può essere forse il segno dell'intolleranza di chi, avendo tutto, si irrita per la provocazione che sente venire da chi gestisce briciole secondo finalità ben diverse? Certe posizioni mi pare siano proclivi ideologicamente a distinguere troppo, per i miei gusti, fra fede e realtà sociale.

Qual è lo stato dei rapporti con l'associazionismo cattolico tradizionale? 

Conosce esperienze di unità profonda come con il Movimento cristiano lavoratori, l'Mcl, accanto ad un più vasto numero di realtà con cui la nostra volontà di dialogo e di collaborazione è ancora una speranza.

E con la gerarchia ecclesiastica? 

Ci sentiamo decisi ad una obbedienza netta, anche disciplinare, pur lottando con tutte le nostre energie per la difesa di quella libertà che soprattutto il Concilio Vaticano II conosce ai fedeli. Pregando Iddio che ci aiuti a creare, come dice la Gaudiurn et Spes, «uomini nuovi artefici di una umanità nuova», o, come ha detto Giovanni Paolo II a Rimini, uomini impegnati a creare «una civiltà della verità e dell'amore». Che per noi, in fondo, significa rendere sempre più miracolo il Mistero divino presente nella Chiesa, attraverso la Sua capacità di creare esperienze di creare esperienze di umanità migliore.

Che cosa spera e che cosa teme dell'attuale situazione politica? 

Spero che la Dc, quale strumento che ci sembra più agibile per dei cattolici democratici, esca con una possibilità di azione più vasta. Che si potenzi però non solo la Dc, ma all'interno della Dc anche la componente più sensibile alla dottrina sociale della Chiesa. Quello che temo di più è che dopo le elezioni si pongano le condizioni per un governo di alternativa che aggreghi il Pci insieme con i partiti di area laica e socialista. Personalmente, potrei anche sbagliarmi, sono anche preoccupato del verificarsi di un bipolarismo Dc-Pci che esaltasse il dispotismo dell'uno o dell'altro polo.

Ma non c'è contraddizione fra i timori suscitati dalla politica bi-polare e un potenziamento di una tentazione presente nella Dc? 

Resto fedele alla speranza che la Dc confermi e accresca la sua posizione, ma che in proporzione crescano nella Dc i fermenti più sensibili alla concezione del Papa espressa nel suo discorso di Loreto. E poi, non essendoci nessun Belzebù, spero che coloro che oggi mi destano preoccupazione possano cambiare.

Che senso, secondo lei, può avere continuare a parlare di «mondo cattolico»? È una nozione, in fondo, molto formale o le desta un'immagine viva? 

Mi desta un'immagine viva, perché, grazie a Dio, ci sono nella realtà sociale italiana vivi ambiti e ricchi trends, in cui la volontà di vivere la fede in modo tale che essa informi la vita culturale e sociale è feconda. È proprio il fenomeno dei movimenti, anche se non si tratta soltanto di ciò, che mi dà questa speranza.

Il Movimento Popolare è sempre stato presentato come il «braccio politico» di Cl. Lei come lo definisce? E come lo vorrebbe? 

Lo vorrei come lo definisco. Perché mi pare che il Movimento popolare abbia sempre cercato e cerchi di realizzare, evolutivamente l'ideale per cui è nato. Ed è nato come trama sociale unitaria, liberamente unitaria di tutto lo sforzo che le persone educate al cristianesimo, in Cl o in altri ambiti, realizzano come tentativo di risposta organica ai bisogni della gente, in tutti i campi, culturale, sociale e politico. È proprio questa immagine di Movimento Popolare che ci rende ipersensibili di fronte alla necessità che la società sia retta secondo una libertà soprattutto associativa. Libertà che, del resto, Giovanni XXIII include nella Pacem in terris fra i supremi diritti dell'uomo.

Un'ultima domanda, un po' maligna. In questa frenetica campagna elettorale, al constatare quanti appelli «cattolici» vengono fatti, viene l'idea che a questo punto la fede c'entri solo con il voto…

Mi pare che questo sia un modo provvidenziale con cui lo Spirito di Dio riesce ad estrarre almeno una volta ogni tanto dalla distrazione estrema e dall'incoerenza quasi totale molti che solo anagraficamente sono cristiani.  

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