lunedì 10 luglio 2017

Conversazione al fronte: Intervista all'avvocato e professor Carmelo Leotta: Una richiesta di archiviazione che minaccia la vita di ogni persona

Il 27 febbraio è morto in Svizzera nella struttura dell'associazione Dignitas a Forch Fabiano Antoniani, in arte dj Fabo, a seguito della sua richiesta di somministrazione di una sostanza letale che ponesse fine alla sua sofferenza, procurandogli la morte. Nella vicenda ha avuto un ruolo significativo il leader radicale Marco Cappato che nei giorni precedenti lo aveva accompagnato in Svizzera con un mezzo attrezzato. Tornato in Italia, Cappato si è autodenunciato ai carabinieri ed è stato indagato per il delitto punito dall'articolo 580 del Codice Penale (istigazione e aiuto al suicidio) per aver agevolato il suicidio di dj Fabo. In data 2 maggio scorso, i media hanno riportato la notizia che la Procura di Milano ha fatto una richiesta di archiviazione del procedimento contro Cappato. Il gip per il momento non si è espresso, e lo farà soltanto dopo l'udienza del 6 luglio.

Considerando la delicatezza del tema, chiediamo a Carmelo Leotta, avvocato del foro di Torino e professore associato di diritto penale presso l'università Europea di Roma, di illustrarci il contenuto della richiesta d'archiviazione e i rischi che possono derivare qualora le motivazioni su cui tale richiesta si fonda venissero accolte e condivise.


Che cosa dispone l'articolo 580 del Codice Penale e che significato ha?

L’art. 580 punisce chi determina un'altra persona al suicidio, ne rafforza il proposito, oppure agevola in qualsiasi modo il compimento di tale atto. L'art. 580 c.p., così come l’art. 579 c.p. che punisce l’omicidio del consenziente, è un segnale di come, per la legge italiana, la volontà di morte del titolare del bene vita non escluda la responsabilità penale di chi la morte gli procura, ovvero di chi lo aiuta a togliersi la vita.

Prevedere, come fanno gli artt. 579 e 580 c.p., che è penalmente responsabile chi asseconda la volontà di morire di un’altra persona vuol dire affermare che il bene della vita non è solo inviolabile da parte di soggetti terzi, ma è anche un indisponibile da parte del titolare. Indisponibilità vuol dire che se il titolare del bene vita distrugge tale bene non esercita un diritto tutelato dall'ordinamento.

Dal momento che esiste l'art. 580 c.p. che punisce l'aiuto al suicidio, sulla base di quale ragionamento i due Pubblici Ministeri di Milano chiedono l'archiviazione?
I PM milanesi richiedono l’archiviazione poiché, come si legge nella richiesta, a loro dire, «le pratiche di suicidio assistito non costituiscono una violazione del diritto alla vita quando siano connesse a situazioni oggettivamente valutabili di malattia terminale o gravida di sofferenze o ritenuta intollerabile o indegna dal malato stesso».

Cosa può fare, secondo quanto si legge nella richiesta, il malato che ritenga che la sua vita non è più degna?

Secondo la prospettiva fatta propria dai due PM che chiedono l'archiviazione del procedimento contro Cappato, il malato che ritiene non più tollerabile la propria vita, ha diritto a porre fine alla propria esistenza non solo in via indiretta con la rinunzia alla terapia, ma anche in via diretta, con l’assunzione di una “terapia finalizzata allo scopo suicidario”. In altre parole: se il malato percepisce le proprie condizioni e la propria sofferenza come non più compatibili con il proprio senso di dignità, l’aiuto al suicidio, si legge nella richiesta, “diviene una condotta radicalmente inoffensiva del bene giuridico tutelato dall’art. 580 Codice penale”.

Secondo lei quali conseguenze può portare l'impostazione che sta alla base della richiesta di archiviazione?

L’impostazione alla base della richiesta dei due P.M. – secondo cui non c’è violazione del diritto alla vita se il malato ritiene indegna la propria – presenta, a mio modo di vedere, tre punti di profonda debolezza, sul piano giuridico.

Cominciamo a dire qual è il primo: se si accoglie l'impostazione dei due PM, che riconduce il "se" della tutela della vita ad un concetto di dignità auto-percepita dal titolare del bene, si modifica il fondamento di tutela del bene vita: l’ordinamento non protegge più la vita in sé e per sé, ma il bene vita fintantoché il suo titolare lo vuole.
In questo modo, però, il diritto è solo più l'espressione della volontà individuale e può anche prevalere sul soggetto, distruggendolo.

Quali sono le altre due criticità che, secondo lei, si rinvengono nell'impostazione su cui si fonda la richiesta di archiviazione?

La seconda criticità è una diretta conseguenza della prima: il passaggio dalla tutela della vita, bene oggettivo, alla tutela della volontà di vivere, bene soggettivo e mutevole, pone questo ulteriore dilemma: se il malato non è in grado di dire se la sua vita è degna di essere vissuta, servirà qualcuno che "parli" al posto suo. Proprio come è successo nel caso di Eluana Englaro, in cui il padre-tutore ha espresso la volontà in nome della figlia. Peccato che lo si sia fatto sulla base di una frase pronunciata dalla diretta interessata oltre 17 anni prima.

E la terza criticità in che cosa consiste?

La terza criticità che si rinviene, a mio avviso, nella richiesta di archiviazione è forse la più radicale. I due PM, infatti, non affermano che esiste un diritto generalizzato di disporre della vita, cioè un diritto al suicidio per tutti; titolari di tale presunto “diritto”, sono, invece, solo coloro che si trovano “in situazioni oggettivamente valutabili di malattia terminale o gravida di sofferenze o ritenuta intollerabile o indegna dal malato stesso”.

Secondo me, una simile affermazione che riconosce il diritto al suicidio al malato e non al sano, suona come dirgli: "la tua vita vale meno di quella del sano, perché tu, e solo tu, che sei malato, puoi disporne". Questo comporta una vistosa violazione del principio d'eguaglianza.


articolo pubblicato su Vita Diocesana Pinerolese

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