giovedì 25 agosto 2016

Come eravamo: Per la politica senza politici

Questo testo fa parte di "La politica, per chi, per cosa", supplemento a "il Sabato" n. 22 del 30 maggio 1987, p.90-92
Edouard Mounier, da «Rivoluzione personalista», Ed. Comunitaria, 1935 

L'azione politica come viene concepita attualmente è viziata nel suo più profondo modo di essere. Le sue mete sono mete limitate, presa del potere e mantenimento o riforma delle istituzioni. Orbene quest'azione politica è diventata insensibilmente totalitaria nelle sue esigenze. La stessa democrazia ha sviluppato una tirannide dell'uomo pubblico sull'uomo privato della quale i fascismi hanno soltanto portato le conseguenze all'estremo.

Tuttavia, ad essere franchi, la vita politica interessa molto meno profondamente il destino del'uomo di quanto si creda abitualmente. L'importanza che le si attribuisce mi pare sia solo spiegabile con l'influsso del vecchio mito ottimista, trasferito dall'individuo alle istituzioni. Dopo aver atteso i miracoli dell'uomo nuovo, da una libertà istintiva e anarchica, ora che li aspettiamo da un congegno politico-sociale ritenuto quasi un immenso distributore automatico di giustizia e d'ordine. Ma si aspetta sempre. L'escatologia marxista ha divinizzato quest'attesa. Non ci stancheremo di dire, per evitare crudeli riflussi d'illusione, che non crediamo, dal canto nostro, al miracolo delle istituzioni. Esse possono aver grande importanza nel mantenere l'oppressione ed è per questo che siamo rivoluzionari contro le istituzioni che opprimono. Esse possono avere anche grande influenza nel creare un certo clima, determinati costumi, nel dare una direzione ai nostri gesti, nel far muovere la macchina: per questo siamo impegnati a sostituire quelle che corrompono i costumi e bloccano la macchina. Non sono le istituzioni che fanno l'uomo nuovo, bensì un lavoro personale e insostituibile dell'uomo su se stesso. Le istituzioni nuove possono facilitargli il compito, ma non sostituirsi al suo sforzo. Le stesse facilitazioni che esse gli procurano, se egli non è sostenuto da una forza spirituale e intima, possono condurlo indifferentemente sia all'apatia che a un rinnovamento. Le diverse concezioni politiche giocano con le nostre vigliaccherie. Quanto più ci fanno sperare in un nostro risveglio per opera di un miracolo istituzionale, tanto più ci allontanano dallo sforzo organico che fin d'ora si fa sentire urgente. Esse dovrebbero presentarci la rivoluzione istituzionale come una condizione necessaria per schiacciare le forze avverse e disincagliare la macchina nebbiosa, ma non come la conclusione miracolosa del mondo cattivo, o come la soluzione definitiva delle nostre difficoltà personali, attingendo al tesoro delle virtù pubbliche. Le diverse politiche dovrebbero incitarci a cominciare fin da questo momento su noi stessi un lavoro di conversione in cui l'aiuto istituzionale non sia che un episodio, indispensabile, ma occasionale e secondario.

Da quando le correnti politiche hanno, in tal modo, ridotto la statura dell'uomo a quella di cittadino e impacciato il cittadino con una vita politica peraltro inefficace, tutti i problemi appaiono a molta gente sotto quell'aspetto meschino dato loro dal tempo. Il mezzo ha sostituito il fine. L'istituzione si è dapprima impossessata di quella cura che, per suo tramite, veniva diretta al servizio dell'uomo. Poi la presa del potere ha distolto l'attenzione stessa, rivolta all'istituzione. Quindi, cadendo ancora più in basso, ha favorito il gioco parlamentare, che prelude a questa presa di potere. Non appena ci si dedica senza riserve alla politica, si scivola a poco a poco su quella china. Vogliamo dire che bisognerebbe stare in politica senza mai essere politici: portarvi con sé la nostalgia e la distinzione degli autentici valori e delle più intime familiarità umane, anche quando far politica diventa mestiere e a maggior ragione quando la si esercita solo per provvedere a necessari controlli. In caso contrario, l'aspirazione religiosa che genera tutte le imprese dell'uomo si ripiega sui mezzi, cade sempre più in basso: così s'instaura nei costumi e subito dopo, nelle dottrine, l'idolatria cortigiana dello Stato. Non si lavora più per dimostrare che cosa sia l'uomo, ma si lavora per il successo pubblico. Non si cerca attraverso il gioco politico la verità e la grandezza dell'uomo (anche se il risultato non fosse altro che quello di mantenerle in una condizione di perpetua sconfitta , di perpetua precarietà ma, comunque, perpetuamente rappresentate e vittoriose per la loro sola presenza); si cerca il potere e il mezzo d'imporre la propria individualità, non sapendo far brillare la propria persona al servizio dell'uomo; oppure ci si perde nelle distrazioni del gioco politico.

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