martedì 12 luglio 2016

Come eravamo: La sfida agli apparati

Questo testo fa parte di "La politica, per chi, per cosa", supplemento a "il Sabato" n. 22 del 30 maggio 1987, p.86-89
Vaclar Belohradsky, da «L'Altra Europa», novembre-dicembre 1986

Partito e predominio dell'organizzazione 
A ben vedere la parola «partito» ha anche un suo specifico pathos: l'uomo si libera della soggezione alla propria famiglia, alla nazione, alla comunità di sangue ed entra in unità con altri uomini sulla base di fini comuni liberamente scelti. Risuona in questa parola il motivo della libertà di aggregazione, che è il fulcro di una democrazia funzionante. Un fine comune è qualcosa di più di una unione familiare o nazionale. Questi uomini si sentono fratelli o compagni all'interno del partito piuttosto che all'interno della famiglia o della nazione.

Oggi però nella parola partito risuona qualcosa di minaccioso. Il partito già da tempo non è più un'unione di persone che hanno in comune un fine, un'idea, a cui intendono consacrare la loro vita. La minaccia contenuta nella parola «partito» oggi è il predominio dell'organizzazione, dell'apparato sull'ideale. 

La politica è diventata apologia degli apparati esistenti. Si pensa che tutti i partiti sottostiano a questa logica di apparato, alla loro stessa organizzazione che finisce per considerare solo come ostacoli gli ideali e i valori per la cui realizzazione ci si era organizzati. I funzionari di tutti i partiti si capiscono l'un l'altro, come dimostrano bene le brillanti carriere, in Occidente, dei nostri funzionari comunisti dell'emigrazione. Quello che si intende oggi con la parola «dialogo fra Est e Ovest» non è altro che la reciproca intesa fra i funzionari di tutti i paesi, fra gli apologeti delle organizzazioni esistenti. Il funzionario è neutrale, ma non è né comunista né capitalista, si concentra sull'esercizio delle sue funzioni. Non combatte per il potere, lo amministra. Su questo terreno dell'amministrazione comunisti e capitalisti vanno d'accordo: questa è l'essenza della teoria della convergenza. 

L'unità degli uomini che fanno domande 
La perdita della politica come dimensione della propria esistenza è una caratteristica dell'epica degli «ultimi uomini». La politica in quest'epoca tecnica si sforza di entrare nella tecnica, si camuffa da tecnica, si spaccia per amministrazione neutrale, per gestione non sottomessa nella sua tecnicità, ad alcuna etica e neppure alla coscienza comune. Patocka e Havel anticipano il grande tema del prossimo millennio quando mostrano che la politica non è tecnica di governo, come credono eurocomunisti e manager, ma ciò che fonda una «unità fra gli uomini che fanno domande». Non l'unità cieca e violenta del totalitarismo, ma l'unità viva degli uomini liberi. 

La sostanza della politica è l'esperienza della relatività dei valori che abbiamo considerato come assoluti. Le nostre idee sono esposte al punto di vista di altri uomini all'interno di quella che chiamiamo la «vita pubblica» e si rivelano relative. In questa esperienza si forma il terreno della convivenza fra uomini liberi. La politica dunque appartiene al dialogo. 

La politica oggi è ridotta a una sorta di commercio fra apparati di partito, a contraffazione. Questo è il sentimento predominante in tutti gli uomini in Occidente e in Oriente. Il motivo è che la politica oggi fa parte del funzionamento di apparati e di organizzazioni piuttosto che della dimensione drammatica della nostra esistenza, in cui le nostre esperienze si scontrano con le esperienze degli altri e solo in questo scontro si manifesta la relatività dei propri ideali e la loro connessione con la vita degli altri uomini. 

La polis parallela 
La risposta al dominio degli apparati è quella, che io chiamo «polis», cioè città, parallela; per essa, in Occidente, è fondamentale la libertà di intrapresa, la libertà economica. 

A livello di idee ognuno di noi vive una vita diversa e significativa. A livello di idee il socialista vive la sua lotta per l'eguaglianza, il liberale per l'indipendenza dell'uomo dallo Stato e il cattolico per esprimere nella sua vita la Legge che lo oltrepassa infinitamente. A livello di idee ogni posizione politica è degna di rispetto e connessa con le altre. In questo senso, tutti gli uomini che credono che le idee e non le mafie muovono il mondo, sono ugualmente minacciati dal predominio degli apparati. 

La «polis parallela» è anche un tentativo di rinnovare la politica in questo senso profondo. Infatti proprio nella politica l'uomo europeo combatte per la cosa più importante della vita, cioè per quello che della sua vita rimane come eredità per le generazioni future. Salvare qualcosa della propria vita, trovare nella sua finitezza un senso è parte essenziale della nostra europeità. È certamente paradossale che gli uomini che vogliono occuparsi della cosa pubblica, prendersi cura della sfera politica, debbano nascondersi nelle abitazioni private, dal momento che la politica è monopolio della polizia. In Occidente, è vero, non dobbiamo nasconderci dalla polizia, ma dobbiamo in qualche modo liberarci del predominio delle organizzazioni e degli apparati che ha inglobato la vita pubblica. La «polis parallela» è il rinnovamento della politica nel nostro secolo. Se la politica sparirà dalla nostra vita, se verrà risucchiata dalla manipolazione delle prescrizioni gestita dal computer, sparirà dalla storia anche la possibilità di fare della propria vita un testamento, tanto significativo e forte da entrare nella vita di tutti come parte del tempo sostanziale. Io temo che molti segni già annuncino un'epoca in cui l'uomo non avrà né il tempo né il luogo per lasciar tracce dietro di sé. 

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