giovedì 30 giugno 2016

Come eravamo: CL: assumere Cristo e la Chiesa come proposta globale di vita

Nell'opinione pubblica italiana, e ormai non solo a quella italiana, la parola "Comunione e Liberazione" fa venire in mente un fenomeno dei tutto imprevisto rispetto al trend dominante nel nostro Paese negli ultimi decenni: il riaffacciarsi sulla scena pubblica della nostra società, dentro la vita del nostro popolo, di un'energia creativa, piccola, ma tenace, che ha nella volontà di testimoniare la fede la sua ragione esauriente. "Comunione e Liberazione" fa venire in mente il "Meeting internazionale per l'amicizia tra i popoli" che a Rimini, il prossimo agosto, celebrerà la sua quinta edizione, a due anni di distanza da una indimenticabile visita del Papa. Fa venire in mente l'appassionata partecipazione, in prima fila, alle battaglie civili per la difesa e la promozione dei valori fondamentali della persona umana nel contesto delle trasformazioni sociali e culturali che hanno cambiato il volto della nostra convivenza. Fa venire in mente la tenace sequela dei magistero del Papa che è stato donato alla Chiesa di Dio (già dieci anni fa gli extraparlamentari scrivevano sui muri "CL, servi di Montini"). Fa venire in mente il multiforme impegno di tanti adulti, famiglie, di tanti giovani dentro gli ambienti dove la quotidiana vicenda umana si svolge, e dove si definiscono le coordinate della mentalità, e della personalità. In tutte queste forme di impegno, lo scopo ultimo è di realizzare una presenza del fatto cristiano, così che chiunque lo possa incontrare come qualcosa che si può vivere anche oggi; presenza espressa in proposte e strutture di vita accoglienti e interessanti qualsiasi uomo.

Se un "fenomeno Comunione e Liberazione" esiste, esso era già tutto implicato, per quanto imprevisto nei suoi sviluppi, nelle elementari intuizioni che ne sono state all'origine, trent'anni fa, in un Liceo milanese. Dico "implicato", perché le forme di presenza di CL non sono esito di un piano organizzativo, ma frutti di una particolare intuizione della fede, del suo valore per l'uomo e per la vita della società. Dico "imprevisto", perché lo sviluppo di quella intuizione è interamente dovuto alla generosità di adesione, alla volontà di cambiamento di sé di quanti - ragazzi, all'inizio, uomini maturi, professionisti nei vari campi, successivamente - hanno aderito al richiamo di una semplice ed elementare proposta cristiana. Migliaia e migliaia, ormai, di persone, hanno sviluppato, con l'accento della loro personalità e della loro decisione, i valori di un'esperienza cristiana all'inizio semplicemente intuita e amata. Tornando, con la memoria, a trent'anni fa celebriamo infatti il trentennale della nostra esperienza - a quegli inizi, incontriamo nulla più che quell amore e quell'intuizione. Intuizione del cristianesimo come vita, e perciò come storia; amore alla Chiesa come segno visibile della compagnia misericordiosa di Dio, cioè di Cristo, all'uomo di ogni epoca e di ogni condizione, continuo segno del Regno di Dio nel mondo.

Il primo sentimento che questa memoria suscita è la riconoscenza. Tutto è dovuto alla fedeltà di un insegnamento, quello ricevuto negli anni del liceo e Seminario diocesano di Venegono, da maestri veri che seppero farmi assimilare una solida tradizione cristiana. La teologia era forgiata sul solido impianto di un tomismo passato attraverso la robusta disciplina della tradizione ecclesiale ambrosiana. Non posso non ricordare, fra le altre, tre personalità che, negli anni degli studi seminaristici, accesero in me il fascino di una "centrata" percezione della realtà cristiana: parlo di Mors. Gaetano Corti, dei futuro Cardinale di Milano, Giovanni Colombo, e di Mons. Carlo Colombo.

L'intuizione che il fatto di Cristo rivestiva tutto l'orizzonte dell'umana esistenza, della storia e del cosmo intero, è divenuta consapevolezza in me quando, per la prima volta, sentii commentare il Prologo del Vangelo di Giovanni "Il verbo si fatto carne". La chiave di volta della realtà, il centro della vita della persona e dei mondo, si è resa presenza umana incontrabile, Cristo. Questo insegnamento ricevuto sarebbe diventato, in anni successivi, il cardine culturale dell'esperienza di Gioventù Studentesca, prima, e di Comunione e Liberazione, poi. Da allora, la prima volta che ho sentito ripetere quel messaggio con lo stesso accento, anzi con le stesse parole, è stato all'inizio dell'Enciclica di Giovanni Paolo II "Redemptor hominis": "II Redentore dell'uomo, Gesù Cristo, è il centro del cosmo e della storia".

Comunicare alle nuove generazioni una verità che mi era stata trasmessa e che mi aveva colpito; annunciare la possibilità di cambiare la vita alla luce di essa: tutto questo realizzava un sogno concepito già negli anni della prima giovinezza e coltivato insieme ad un grande amico, Enrico Manfredini, "Christus", un fascicolo mensile redatto insieme ad alcuni altri compagni, rappresentò i primi ingenui tentativi di "vedere Cristo in tutto". Questa passione doveva decidere della mia vita.

Tornavo da un viaggio ad Ancona, in treno. Accanto a me, nei compartimento, alcuni giovani conversavano fra di loro. Presi parte al loro discorrere e li interrogai circa le loro opinioni a riguardo della Chiesa; li trovai spaventosamente ignoranti del cristianesimo.

Nella scia dell'impressione rimasta, un incontro fortuito con Mons. Assi prima, e poi con il povero Mons. Aldo Mauri mi fece accettare l'incombenza di vice-assistente per gli studenti di Azione Cattolica. I Superiori non ritennero possibile la coesistenza di un'attività di apostolato diventata subito intensa e dell'insegnamento di Teologia Dogmatica ai corsi seminaristici di Venegono e di Teologia Orientale alla Facoltà Teologica. Scelsi di dedicarmi completamente ai giovani. Ottenni di insegnare religione in un Liceo classico statale di Milano, il "Berchet". L'incontro con quattro ragazzi di quella scuola. nell'anno scolastico 1954/55, segna l'inizio dell'esperienza di Gioventù Studentesca.

Come ho raccontato in un'intervista che mi ha fatto, molti anni dopo, uno dei ragazzi di allora, "fermavo i pochissimi studenti con il distintivo dell'Azione cattolica o degli Scouts, che incontravo negli intervalli nei corridoi o sulle scale, e chiedevo loro esplicitamente: 'Ma voi credete davvero in Cristo?'. Mi guardavano interdetti, e non ricordo che uno solo mi abbia risposto si con la spontaneità caratteristica di chi ha dentro di sé una immediata radice. E un'altra domanda facevo a tutti, i primi tempi: 'Secondo te, il cristianesimo e la Chiesa sono presenti nella scuola, hanno un'incidenza sulla scuola?'. La risposta era quasi sempre stupore e sorriso".

Da notare che questo avveniva agli inizi degli anni '50, quando il cristianesimo appariva ancora una presenza solida, maggioritaria, nella società italiana. Ma lo era probabilmente come portato di una tradizione precedente che, se non si fosse rinnovata secondo modi e accenti che avessero una dignità culturale, non avrebbe saputo sfidare la storia. D'altra parte, proprio in quegli anni si stava preparando - con epicentro nelle scuole superiori e nelle università - quell'attacco alla tradizione cristiana che anni più tardi si sarebbe manifestato con evidente virulenza. Fin da allora - ed erano i tempi in cui la Chiesa sembrava una presenza inattaccabile (si pensi anche soltanto alle manifestazioni religiose di massa o al potere politico saldamente in mano alla Democrazia cristiana) - l'intellighentia laica pianificava la conquista delle cattedre più significative, storia, italiano, filosofia. Si iniziava a propagandare l'ideologia d una scuola "neutra", al di sopra delle parti, cioè delle posizioni culturali, come strumento di demolizione della possibilità dei giovani di verificare l'ipotesi cristiana - suggerita dall'educazione ricevuta in famiglia - come decisione per la loro esistenza.

I quattro ragazzi che per primi incontrai al Liceo Berchet di Milano: li raggiunsi un giorno per strada, all'uscita dalla scuola, dopo le lezioni. Chiesi loro: "Siete cristiani?". Dissero di sì, palesemente sconcertati dalla domanda inaspettata. Incalzai: "E in scuola, chi si accorge che lo siete?". Poco tempo dopo, quei quattro si presentarono in assemblea e intervennero cominciando: "Noi cattolici..." Da allora, in quel liceo, per almeno dieci anni, Chiesa e cristianesimo furono al centro del dibattito.

Cominciò così: parlando di Cristo, cercando di affrontare insieme tutti i problemi dell'esistenza personale, della vita della scuola e della società, alla luce del cristianesimo. Ci si è ritrovati in una compagnia - la comunità - concepita come condizione indispensabile in vista di tale progetto. La si chiamava anche "raggio", dal linguaggio della vita di A.C., cui tranquillamente si faceva riferimento. Per l'assemblea si fissava di settimana in settimana un tema, lo si dettagliava con domande in una specie di "ordine del giorno", che veniva distribuito sui banchi dei compagni. Ognuno - chiunque, anche ebrei e protestanti vi partecipavano - poteva intervenire esclusivamente partendo da ciò che gli suggeriva la propria esperienza, mentre alla fine la persona adulta, in una sintesi, mostrava come il punto di vista cristiano era capace di valorizzare tutta l'umanità contenuta negli interventi.

Il richiamo essenziale all'avvenimento della fede, l'offerta di un ambito in cui poterne fare esperienza in termini di vita: ecco lo scopo di "GS". La permanenza nel tempo di questo tipo di approccio alla personalità del giovane, è la continua origine del movimento di Comunione e Liberazione. Oggi, infatti, rimane intatta questa necessità della fede di andare incontro all'uomo, di proporsi ai giovani raggiungendo il cuore delle loro umane esigenze e offrendosi come significato delle loro genuine esperienze. E forse i tempi sono ancor più propizi di allora: la fine dell'ubriacatura provocata dalle ideologie totalizzanti degli anni '60 e '70 mette allo scoperto l'elementare insopprimibile attesa che ognuno ha di una proposta che dia alla vita significato, gusto e pienezza. In questa condizione, in cui si rivela l'essenziale esigenza dell'uomo, il cristianesimo è chiamato a giocarsi fino in fondo. Come ha ricordato Giovanni Paolo II, nei primi mesi di Pontificato, rivolgendosi a un gruppo di militari (1 marzo 1979): ‘La vostra è l'età dell'incontro voluto e cosciente con Cristo... Solo Cristo è la risposta adeguata e ultima alla domanda circa il senso della vita e della storia... Non basta cercare: bisogna cercare per trovare la certezza. E la certezza è Gesù che afferma 'Io sono la via, la verità, la vita!...'".

L'idea essenziale che ha definito i primi passi dell'esperienza di "Gioventù Studentesca" è dunque, come sopra accennato, che "Cristo è il centro del cosmo e della storia". Alla prima "Tre giorni" di "GS",il professor Lazzati, poi Rettore dell'Università Cattolica del Sacro Cuore per molti anni, invitato a tenere una conferenza, sottolineò con chiarezza questa idea.

Dunque una certezza: la fede come avvenimento che libera l'uomo, che lo salva dalle conseguenze del limite strutturale dell'inclinazione al male, dall'incapacità ad essere se stesso, e lo restituisce alla sua dimensione autentica. Occorreva ridare chiarezza all'essenza del fatto cristiano, e fascino persuasivo all'annuncio di Cristo nella sua semplicità. Ecco insomma un'idea forza caratterizzante tutta quanta la nostra esperienza: la decisione ad impegnare la propria vita con il fatto di Cristo. E poi l'invito a mettersi insieme, in comunità, in modo che quella proposta possa più agevolmente divenire incidente sulla vita di ogni giorno.

Da allora, assumere Cristo e la Chiesa come cuore di una proposta globale di vita ha costituito per molti l'invito a rinnovare e rendere più consapevole un'educazione ricevuta; per molti altri, in numero sempre crescente col passare degli anni e con l'affievolirsi dell'incidenza della tradizione cristiana nel nostro Paese, l'iniziale scoperta della realtà cristiana come vita e come proposta culturale. Proposta culturale ha significato per noi il punto di vista con cui guardare all'intera realtà della persona e del mondo; come fonte del criterio di ogni azione; come principio di unità e di riconciliazione dell'umano.

Oggi il movimento è cresciuto e i frutti che ha prodotto nella società italiana, attraverso l'opera dei suoi aderenti, sono numerosi e, in alcuni casi, considerevoli. L'opinione pubblica, attraverso mass-media, è portata a considerare certi risvolti della nostra esperienza, quelli più appariscenti; quando non a ridurci alla stregua di una componente del panorama politico. Invece, il motivo e lo scopo esauriente dell'azione di quanti, giovani e adulti, partecipano alla compagnia ecclesiale che il movimento è, rimane quello degli inizi: una volontà di fede.

Scopo di Comunione e Liberazione è infatti l'educazione a una fede matura, vale a dire una fede che sa mantenere ed esprimere la propria identità nel contesto della società attuale ed intervenire in essa creativamente. Maturo è il cristiano in cui la fede costituisce la mentalità con cui vivere tutto. In cui la fede determina una posizione culturale.

Lo ha ben richiamato Giovanni Paolo II in un discorso di due anni fa rivolto al "Movimento ecclesiale di impegno culturale": "Una fede che non diventa cultura è una fede non pienamente accolta, non interamente pensata, non fedelmente vissuta" (16 gennaio 1982). Nei trent'anni del nostro cammino, la nostra volontà di servire la Chiesa ci ha costantemente portato ad opporci ad ogni dualismo tra fede e cultura, cioè, in fondo, ad ogni programmatica divaricazione della fede dalla vita (il che, secondo il Concilio, è il pericolo più grave per la presenza della Chiesa nei mondo odierno).

L'avvenimento del Concilio ha profondamente segnato la nostra storia e la nostra sensibilità. Da un lato, alcuni elementi non secondari dell'esperienza di "GS" come la responsabilità dei fedele nella Chiesa, il suo diritto ad associarsi liberamente per un fine apostolico, l'idea della Chiesa come comunione, e quindi di comunità - hanno in qualche modo anticipato talune delle linee ecclesiologiche autorevolmente chiarite dal Vaticano II. Dall'altro lato, dal Concilio abbiamo voluto assumere fino in fondo l'indicazione centrale: quella di una ripresa di coscienza della missione della Chiesa, rivolta ad ogni uomo e a tutti gli uomini. La volontà, quindi, di una rinnovata presenza ecclesiale dentro il mondo. Abbiamo sempre lottato per la libertà di questa presenza. Quando eravamo solo ragazzi, ci siamo mossi con tenacia nelle scuole milanesi, in cui, attraverso la narcosi di un'ideologia "neutralista", si mirava ad imporre agli studenti una visione a senso unico, laicista, della vita. Molti della nostra diocesi ricorderanno certamente la polemica con le Associazioni di istituto, o quella con il Piccolo Teatro. Negli anni successivi, le nostre responsabilità diventarono per forza di cose anche maggiori mentre, nei contempo, veniva sferrato alla presenza del fatto cristiano nella nostra società un attacco di proporzioni mai viste sino ad allora. Alludo non tanto al '68, ma agli anni '70, nei quali l'avanzata delle posizioni radicali e marxiste trovava vuoti paurosi nelle file di un mondo cattolico diviso e incerto.

In quegli anni, i nostri ragazzi si trovarono il più delle volte soli dentro gli ambienti della vita collettiva - scuole, fabbriche, università - a difendere l'identità e la presenza del soggetto cristiano. Per eliminarci come presenza; non si risparmiò la violenza fisica. In quattro mesi, dal novembre 1975 al febbraio 1976, subimmo 120 attacchi con molotov ecc. Imparammo bene, in quegli anni, a desiderare ed amare l'unità dei cristiani, unità che appariva peraltro estremamente difficile: si teorizzava, anche negli ambienti dell'associazionismo ufficiale, la diaspora in nome della separazione tra fede ecclesiale ed impegni culturali, sociali e politici. Il tutto dentro una china di progressiva secolarizzazione, non di rado salutata con inspiegabile favore dai cattolici. Ed imparammo attraverso quelle prove, che una presenza unitaria dei cristiani socialmente visibile è soprattutto richiesta proprio di fronte ai mondo, dentro gli ambienti e nell'impatto coi problemi sociali, culturali e politici. Oggi assistiamo a un mutato contesto: alla fine delle tradizionali ideologie si accompagna il vuoto provocato dalla cultura nichilista: urge la necessità di restituire al soggetto umano la coscienza della sua identità e della sua dignità. Siccome domina un clima sociale determinato dalla collusione di interessi particolaristici, persino la "solidarietà" rischia di essere nulla più che vuota parola, usata per legittimare un potere. Bene, di fronte a tutto questo CL si sente ancor più decisamente disponibile ad una vasta aggregazione di cattolici, chiaramente consapevoli della propria identità, aperti al dialogo e alla collaborazione con chiunque abbia a cuore le esigenze vere dell'uomo. L'orizzonte di una "civiltà della verità e dell'amore", che Paolo Vi e Giovanni Paolo II insistentemente hanno additato alla responsabilità dei cristiani, ci rende appassionati a costruire subito "forme di vita nuove" per l'uomo.

Da adulti di CL è nato il Movimento Popolare (al quale partecipano molti che di CL non sono); incontri tra uomini, esperienze e culture vengono continuamente favoriti (e il Meeting di Rimini ne è l'esempio più macroscopico); molteplici opere assistenziali, educative, culturali, nel campo dei mass-media ed anche in quello economico e della cooperazione sono state intraprese: il senso di tutto questo è che adulti, formati a una concezione intera della fede, sentono la necessità di esprimerla di fronte ai mondo, nell'impegno con i bisogni degli uomini, nella tensione a costruire un tessuto sociale nuovo. Ma non è questo l'unico frutto che ci attendiamo. Noi misuriamo l'esito dell'educazione cristiana che il movimento cerca di assicurare anche sulla capacità che singoli e gruppi hanno di contribuire efficacemente alla edificazione della Chiesa locale. Questa capacità, ai seimila adulti della diocesi di Milano aderenti al movimento, è stata indicata, nell'assemblea di inizio anno (Varese, 17 settembre 1983) come "sintomo della maturità cristiana". Nessuna volontà c'è nel nostro tentativo di costruire un'alternativa alle parrocchie e alle strutture "normali", territoriali, della vita della Chiesa. Solo la sottolineatura della centralità della persona e della sua necessità di crescita nella fede: questo non può evitare mai l'impegno della fede stessa con i problemi dell'ambiente, cioè del luogo in cui la persona normalmente vive e in cui inevitabilmente forma la sua mentalità. La nostra idea di movimento non è quella di un'organizzazione o di un settore specializzato. Nel corso dell'incontro internazionale dei movimenti ecclesiali (Roma, 23-27 settembre 1981), proposto da CL e attuato col beneplacito dei Consilium Pro Laicis, S. E. Monsignor Lucas Moreira Neves definiva un movimento ecclesiale: "non un segmento, un frammento, ma un riflesso dell'unica Chiesa". L'amicizia operativa, espressione della comunità ecclesiale, con altri movimenti di tutto il mondo, da quel convegno è andata crescendo. Specialmente con alcuni di essi, cito solo Schonstatt e Rinnovamento nello Spirito, la sintonia è veramente profonda e la relazione che abbiamo è la continua scoperta di "un'unità di fondo che appare", come pure in quel convegno fu detto.

Lo stupore di quell'indimenticabile incontro è lo stesso che si impone quando si consideri con intelligenza di fede la vicenda della Chiesa in questi anni: l'azione dello Spirito non le fa mancare una straordinaria ricchezza di carismi. L'unità del Popolo di Dio, anche nella nostra Chiesa italiana, può nascere proprio dall'affermazione coerente dei vari carismi e dalla loro valorizzazione e coordinamento ad opera dell'autorità della Chiesa. Questo atteggiamento di "favore e di incoraggiamento per le nuove forme di responsabilità che sorgono nella Chiesa; di rispetto e di accoglienza della responsabile libertà e della sana creatività..." è stato richiesto dai Vescovi italiani nel programma "Evangelizzazione e ministeri" (cfr. par. 96).

Per quanto riguarda in particolare Comunione e Liberazione, non sono mai mancati, insieme a difficoltà e incomprensioni, pastori che hanno dimostrato questa paternità capace di valorizzazione, di vera guida; se necessario di correzione. Il nostro Movimento serba viva gratitudine ai Vescovi che in tutti questi anni hanno avuto la responsabilità della Chiesa ambrosiana, il card. Montini e il card. Colombo, i quali hanno permesso e incoraggiato un adeguato sviluppo della nostra esperienza.

Cosi come è grato all'attuale Arcivescovo, card. Martini, per l'attenzione di cui ci ha fatti oggetto e per le numerose possibilità di dialogo che ci ha concesse, dedicandovi molto del suo tempo.

Il tema che più ci caratterizza è indubbiamente quello della Chiesa come Missione. Nel suo documento "Partenza da Emmaus" Sua Eminenza sottolinea che l'istituzione e le sue forme sono state dettate dall'urgenza missionaria: noi sentiamo riassunte in questa osservazione tutte le nostre preoccupazioni di metodo.

Il gesto di accoglienza e di valorizzazione definitivamente significativo, lo abbiamo ricevuto dalla stessa Chiesa universale, nella sua funzione più autorevole: il riconoscimento che la Santa Sede, attraverso il Pontificio Consiglio per i Laici, ha concesso l'11 febbraio di due anni fa alla Fraternità di Comunione e Liberazione, cioè all'Associazione degli adulti che s'impegnano formalmente a vivere con totale responsabilità la vita di fede, di comunione e di presenza missionaria cui il movimento educa. La Grazia di questo riconoscimento affonda le sue radici in un'altra Grazia, quella di un Papa che ci ha detto: "II vostro modo di affrontare i problemi umani è simile al mio; dirò, anzi, è lo stesso". Queste parole riecheggiano le altre dette da Paolo VI il 19 marzo 1975 sul portone di S. Pietro al termine della Messa delle Palme a me, inginocchiato e commosso: "Coraggio, don Giussani; vada avanti così. Questa è la strada".

Una responsabilità grande verso la Chiesa di oggi. Tanto più che dai confini dell'Italia, dove pure gli impegni si moltiplicano, incontri antichi o recenti con altre comunità cristiane, altri pastori, o semplicemente altri uomini, ci sta chiedendo una dilatazione missionaria nel mondo. Non possiamo negarci alle attese e alle speranze che in molti, in Europa dell'est e dell'Ovest, in America, in Africa, il contatto con la nostra esperienza ha destate. Alla prima presenza missionaria, quella in Brasile, nata e sostenuta vent'anni fa dall'impeto e dalla generosità dei ragazzi di "GS" (e allora erano solo ragazzi) altre se ne sono via via aggiunte, negli ultimi anni, in Francia, Germania, Irlanda, Svizzera, Spagna, Uganda, Paraguay, Cile. Sempre più frequenti sono i casi di Vescovi che ci chiamano a creare un'esperienza di movimento, della quale possa efficacemente avvalersi l'azione pastorale e missionaria delle loro diocesi.

In una delle prime "Tre giorni" di GS nel 1961, lo slogan scelto era "La gente che vive si incontra". A trent'anni dagli inizi, la nostra storia è una continua conferma di quella frase. Continua, e sempre più avvincente.


Luigi Giussani
Terra Ambrosiana, 2 (1984): 29-33

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