domenica 8 maggio 2016

Come eravamo: Il desiderio e la politica

Questo testo fa parte di "La politica, per chi, per cosa", supplemento a "il Sabato" n. 22 del 30 maggio 1987, p. 22-30
Appunti da una conversazione di mons. Luigi Giussani con alcuni esponenti politici cristiani al Centro Culturale San Carlo Milano, 30 aprile 1987 

Parto da una considerazione generale fatta dopo il suo intervento ad Assago, che è stato sentito come una cosa insolita, non usuale. Vi era una preoccupazione che certamente non è normale per un discorso «politico». Era presente un accento diverso, un contenuto diverso. Anche lei rileva questa diversità di tono, di preoccupazione e di contenuto? 

Io non ho sentito nessun accento nuovo: voglio dire che ho parlato secondo quello che la ragione mi detta tutti i giorni, secondo il tipo di educazione che ho avuto e secondo il tipo di preoccupazione nel rapporto con gli altri che normalmente vivo. Invece capisco che il mio intervento può essere stato faticoso da capire. Io credo che il problema di oggi sia una riscossa del cristiano per cui applichi i parametri della fede, della speranza e della carità nella vita quotidiana: occorre una riscossa perché si è quasi soffocato l'impeto di novità cristiana, che è una novità di essere, un altro modo d'essere uomini.
Il Nuovo Testamento parla di «nuova creatura» (San Paolo) e Gesù dice a Nicodemo: «Occorre nascere di nuovo». E non l'ha detto per modo di dire; l'ha detto con una tale concretezza che Nicodemo (che era un saggio) è rimasto sconcertato. Una realtà si può dimostrare per gli effetti che genera e non vederla direttamente.
Scriveva Dante: «Chi sei tu che vuoi sedere a scranna / per giudicare da lunge mille miglia / con la veduta corta di una spanna».
Sostenere o ammettere che la realtà è un po' debordante rispetto alla misura normale nostra equivale a dire: «Credo in Dio».

Il suo intervento è stato accolto da una grande attenzione. Il contenuto del suo intervento, però, non è diventato contenuto dei discorsi politici o dei discorsi concernenti l'impegno sociale. Come si spiega tutta questa situazione? 

L'assenza di critica, o almeno di critica acre a quanto ho detto è da attribuire 'in primis' al fatto che l'accento era posto su considerazioni umane elementari (e perciò più difficilmente criticabili) e in secondo luogo al fatto che un certo tipo di persone, di mentalità e di stampa sono così lontani dall'umano che non capiscono il senso delle parole e perciò non ne parlano.
Invece di fronte alle conseguenze del discorso di Assago sono sorti irritazione e attacchi.
Per esempio: che l'aspetto politico sia tutto teso a favorire l'urgenza della creatività dal basso o, come dice la dottrina sociale della Chiesa, «favorire il moltiplicarsi delle comunità intermedie», questo per me è una questione di vita o di morte per la vita di un popolo. E può darsi, a proposito di questo, che il giudizio e l'azione sulla libertà della scuola, per esempio, sia meglio espresso da uno di un altro partito che neanche da uno del partito da me favorito.

Il segretario della Dc ha detto, commentando il suo discorso: «Il processo politico costruito tutto sul domani, riferito soltanto al desiderio è un processo lontano dalle analisi e dalle costruzioni che ci consentono di individuare i processi democratici all'interno della comunità». Perché lei ha posto il desiderio al centro della riflessione sul potere? 

Io ho iniziato con una affermazione che riprendeva un giudizio di Giovanni Paolo II: «la politica è un affare che riguarda l'uomo». Ma, qual'è la cosa fondamentale nell'uomo? È il potere? Se così fosse, l'uomo sarebbe destinato ad essere schiavo ed alienato di pochi altri che fortunosamente esprimono il momento culminante passeggero ed effimero del flusso storico. Invece ciò che è fondamentale nell'uomo è quello che io chiamo desiderio.
Il desiderio è come la scintilla con cui si accende il motore. Tutte le mosse umane nascono da questo fenomeno, da questo dinamismo costitutivo dell'uomo. Il desiderio accende il motore dell'uomo. E allora si mette a cercare il pane e l'acqua, si mette a cercare il lavoro, a cercare la donna, si mette a cercare una poltrona più comoda e un alloggio più decente, si interessa a come mai taluni hanno e altri non hanno, si interessa a come mai certi sono trattati in un modo e lui no, proprio in forza dell'ingrandirsi, del dilatarsi, del maturarsi di questi stimoli che ha dentro e che la Bibbia chiama globalmente «cuore», e che io chiamerei anche «ragione». E non c'è ragione senza, in qualche modo, un destato affetto.
Ed è proprio sotto l'influsso di questo desiderio, dell'impeto di queste esigenze che io colgo con gli occhi, con le mani, con le mie cellule cerebrali e con la forza del mio cuore, il momento per tradurre in qualche modo il bisogno che sento dentro.
Non esiste la possibilità di costruire sul domani. Esiste solo la possibilità di costruire sul desiderio presente, il quale soltanto mi rende capace di stare attentissimo: un padre o una madre che hanno il bambino ammalato sono attenti a prestargli tutte le cure di cui ha bisogno, fino nei più piccoli particolari. Il desiderio è anche analitico nel guardarsi attorno: non gli scappa un capello; come energia di costruzione, non si stanca mai. È caratteristica dell'utopia costruire sul domani attraverso un'analisi ed una impostazione che, se non segue il desiderio naturale, segue il preconcetto proposto dall'ideologia al potere. Non esiste alternativa tra il seguire un'ideologia al potere o perseguire il desiderio del cuore dell'uomo. L'uomo ormai da 400 anni guarda la realtà cercando di proiettare su di essa la propria immagine già concepita e perciò il rapporto tra il soggetto e la realtà è un rapporto di possesso, di potere. 
Il desiderio, per natura, spalanca l'uomo sulla realtà per imparare la mossa, per imparare dove si deve costruire. «La cultura — diceva Giovanni Paolo II all'Unesco — ha come scopo ultimo il maturarsi dell'uomo. L'uomo soggetto e oggetto della cultura». Tutto parte dall'uomo e vi arriva. 
Per questo motivo la frase dalla quale siamo partiti è drammatica e costringe a scegliere tra due posizioni: o la costruzione come esito dell'impegno analitico ed edificante dell'uomo nel presente, per trovare ciò che può far sperare di soddisfare il desiderio, oppure la costruzione politica futura come da un preconcetto stabilito, un programma ideologico (cioè una concezione della realtà che parte da certe preoccupazioni intellettuali) che analizza e usa la realtà in base a questa precomprensione, e perciò la violenta. Faccio sempre un paragone drammatico, soprattutto in questi tempi: il potere non potrebbe essere totalmente giocato nel suo preconcetto per creare una umanità fresca, creativa, senza i pesi della vecchiaia? E perciò chi potrebbe impedire a questo potere di fare una legge generale sull'eutanasia a 30 anni? Che cosa glielo potrebbe impedire? Nessuno. 
C'è differenza fra un progetto sull'uomo che nasca da ciò per cui l'uomo è fatto (desiderio, esigenza, urgenza, evidenza, cuore) e un progetto politico costruito su una concezione dell'uomo e del suo rapporto col mondo inventata dagli intellettuali.  
L'analisi e la costruzione dipendono dall'intensità realistica del desiderio. 
Non è perciò utopia, idealismo; l'utopia e l'idealismo, invece, sono propri di coloro che mettono il tecnocraticismo come principio di una politica, perché il tecnocraticismo presuppone degli uomini macchina, totalmente ed esaurientemente osservati attraverso l'analisi e manipolati integralmente dalla costruzione. Ma, grazie a Dio, l'uomo non è così. È infinitamente più astratta e avveniristica la speranza marxiana di Bloch che la speranza cristiana, poiché la speranza cristiana è dentro il piccone usato contro la roccia dell'istante. Non l'istante astratto, ma l'istante secondo le condizioni concrete che porta con se. È solo il preconcetto che fa fuggire dalla concretezza. E il preconcetto nasce da una immagine costruita senza amore. L'immagine costruita con amore è l'immagine che investe la realtà secondo la corrispondenza al proprio desiderio cui questa realtà si presta. 

La verità è che il potere si gioca spesso in contraddizione col desiderio. Questa contraddizione ci pone, se vogliamo far politica, come dei cavalieri medievali che entrano coraggiosamente in una realtà che è diversa dal desiderio ed è una sfida che si gioca come uomini: la possibilità di piegare il potere al desiderio. Ma è una sfida che non ha spiegazione come linea politica. Per questo faccio l'esempio del cavaliere medievale, perché lui deve risolvere il fatto che il potere non è piegato al desiderio e lo deve risolvere con la sua unità di uomo. 

Il potere ha a che fare con degli uomini. E l'uomo è più complesso dell'elenco analitico di bisogni che il sociologo o lo psicologo di turno fissano. Per esempio, l'uomo ha un bisogno assoluto di creare, in qualche modo, la propria realtà: per capire bene questo pensate che cosa accadrebbe se lo Stato stabilisse per voi la moglie e la famiglia, quanti figli avere, dove stare, ecc. Sarebbe un inferno! Perché l'uomo è protagonista di se stesso. Dobbiamo tener presente che il potere guida una società umana, cioè una società complessa, fatta di uomini. L'uomo non è riconducibile a nessuno schema analitico. La saggezza con cui la dottrina sociale della Chiesa invita il potere a sollecitare, ad aiutare, e quindi a valorizzare l'iniziativa dell'uomo e il protagonismo della gente, ha coniato un principio che Giovanni XXIII prima e Paolo VI poi hanno continuamente ripetuto: il principio di sussidiarietà; cioè lo Stato, il potere, devono intervenire là dove l'uomo manca, dove l'uomo non riesce a costruire quello che vuole costruire e a cui ha diritto perché corrisponde alla sua natura, non là dove l'uomo non riesce a fare quello che si immagina il capo del governo. 
Riprendo qui il concetto di «comunità intermedie» cui accennavo ad Assago: un uomo ha un desiderio e cerca di soddisfarlo. Ci sono altri uomini che, sentendo lo stesso desiderio, cercano di soddisfarlo e capiscono che mettendosi insieme soddisfano ognuno il proprio desiderio in modo più facile e più grande. Quanto più si lascia libertà al crearsi delle comunità intermedie, e quanto più il potere sente il suo servizio, tanto più esiste una umanità felice. 
Tanto è vero che la gente per cui il potere viene prima di ogni altra cosa, ha bisogno che l'uomo non sia felice per poter lavorare, ha bisogno di schiavizzare l'ordine umano, ha bisogno di complicare o soffocare il moto creativo dei gruppi. 
Il potere che è fatto per servire (principio di sussidiarietà), può diventare facilissimamente — per la natura dell'uomo — aguzzino o despota, anche senza giungere a creare le camere a gas di Auschwitz o i lager sovietici. 

Che differenza c'è tra il discorso sul desiderio fatto finora — sul quale lei dimostra una notevole certezza — e le cosiddette battaglie di liberazione fatte in passato e fondate sul presupposto di liberare una serie di desideri che altrimenti sarebbero stati oppressi (divorzio, aborto, libertà sessuale), ormai costituiti come sistema di valori comuni in cui siamo immersi e che appaiono una specie di consenso comune sul desiderio? 

C'è una parola che corrisponde all'idea di uomo vero, e quindi di politica vera: la parola libertà. La libertà è il contrario di quello che s'è detto prima (libertà di aborto, di divorzio, ecc.), perché la libertà non è quella definita dal potere attraverso i mass-media. 
Io dico in Università agli studenti, se sentite la parola libertà o se sentite la parola uomo-donna, immediatamente vi vengono alla mente le immagini del cinema e dei mass-media, e così venite rovinati dal potere, dal potere dei potenti. Voi siete bloccati dal dal potere. 
La libertà è una parola che uno deve imparare osservando la propria natura. 
Se la libertà nasce come soddisfazione del desiderio, vuol dire che la natura ci indica la libertà come la capacità della soddisfazione totale, finale, cioè la capacità della felicità. I filosofi dicevano che la libertà è la capacità del fine, del destino. 
Questo vuol dire che la libertà è la capacità di aderire, non di tagliare via legami. La capacità di aderire con fedeltà ad una donna, questo è libertà. Non abbandonarla quando ti pare e piace. Un'azione politica deve avere come criterio quello che la natura dell'uomo indica, ciò a cui la natura dell'uomo sospinge come ideale. 
Nel dare una risposta al proprio bisogno, il desiderio realizzerà una costruzione come può. Dieci anni dopo la costruirà meglio. L'esaltazione del desiderio non è un rimandare al domani: per nulla affatto. È non lasciare andare nessuna possibilità del presente; il domani è della violenza, se non è il frutto del sacrificio presente: è la violenza dell'immagine che si proietta spingendo le cose secondo il programma prestabilito. Cosa vuol dire servizio se non principio di sussidiarietà? Vedo uno che cade e corro a risollevarlo, perché lui non è più capace di alzarsi. Questa e sussidiarietà, cioè servizio. Il potere è questo servizio. Per questo il potere è la cosa più grande, più buona. Il potere si giudica sintomaticamente, se vive il principio di sussidiarietà o se è prepotenza (come mi sono permesso di dire ad Assago). Perché il pericolo più imponente del potere è il prepotere, è la prepotenza. Perché allora l'imitazione di Dio che è il Signore sparisce del tutto. 
Un cristiano deve tener presente nelle sue scelte a qualunque livello (e quindi fino alla politica) l'indicazione del magistero della Chiesa. O io non credo in questa unità, oppure, se io sono parte di questa unità, io confronto il mio criterio con questa unità ed ascolto l'organo che esprime con potenza il senso del destino e della strada. Perché questo è il magistero ecclesiale. Da Cristo in poi la cosa più grande è che il criterio ermeneutico, l'ultimo criterio interpretativo non è qualcosa dentro di noi, ma fuori. Non c'è una terza possibilità, O questo «fuori» è Cristo («Io sono la via, la verità, la vita»), che prosegue nella storia come un magistero infallibile, oppure è il potere. La cosa più drammatica nell'oggi è il pericolo di un'assenza totale di libertà, nell'intelligenza e nell'affetto. 
Il Papa ha detto in un discorso che è meglio morire piuttosto che perdere la propria umanità. La propria umanità è persa quando il potere ti determina pensieri e sentimenti. Dobbiamo stare attenti a salvare questo anche nella vita della Chiesa. Tanto ubbidire al magistero nelle sue direttive quanto avere il coraggio di applicare con libertà l'obbedienza che si persegue. 

Perché un cristiano non potrebbe avere come desiderio di inseguire il potere, una volta resosi conto che solo attraverso il potere può perseguire il suo desiderio, il desiderio di realizzazione? 

Lei invita il cristiano a desiderare il potere... Sicuro! Sono totalmente d'accordo. Qual'è il nostro compito? Desiderare il potere per servire. 
Non c'è niente di più vicino al potere della parola amore. Gesù l'ha realizzata questa unità. Moltiplicatevi come impegno: a qualunque partito apparteniate. Basta che queste cose vi stiano davanti.

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