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sabato 7 ottobre 2017
venerdì 6 ottobre 2017
Lettera dal fronte: Dacci oggi la nostra eresia quotidiana/04bis: Il vero problema del Meeting di Rimini
«Sancho,
si
los perros ladran
es señal
de que avanzamos»,
ovvero: il Meeting e la fede cattolica
Il IV articolo di questa rubrica, dedicato al Meeting di Rimini, ha suscitato numerose polemiche tra i lettori del blog: la cosa era stata da me ampiamente prevista, ed io stesso lo avevo accennato alla Redazione che gentilmente mi ospita con i miei articoli. Non dico di essere stato un veggente, bensì avevo compreso una cosa abbastanza semplice: parlare di CL e del suo Moloch per eccellenza, ossia il Meeting, vuol dire sottoporsi obbligatoriamente a critiche aspre da parte di appartenenti e simpatizzanti sia del movimento che della kermesse riminese. Le critiche tuttavia non sono state né nel merito né fondate – cosa che spiegherò tra poco – in quanto l’articolo era composto per il 90% (e forse anche più) di dati presi dal sito internet ufficiale del Meeting, e quindi forniti dalla Fondazione Meeting per l’Amicizia tra i popoli: l’unica cosa che ho pensato è stata pertanto la celebre frase attribuita erroneamente a Cervantes riportata nel titolo: «Sancho, se i cani abbaiano vuol dire che stiamo camminando» ovvero abbiamo parlato, siamo stati criticati.
Mi dispiace per i tanti che hanno speso buona parte del loro tempo ad insultare sia me che la Redazione su quanto scritto ma ritengo che le loro parole non hanno alcun serio fondamento, come peraltro magistralmente segnalato su Facebook da una Penna de La Baionetta. Pian pianino spiegherò perché le critiche sono scorrette e non veritiere ma in questo articolo ci occuperemo anche di costruire e non solo di difendere continuando ad analizzare la questione portante dell’articolo di cui sopra: il rapporto tra il Meeting per l’amicizia tra i popoli e la fede cattolica alla luce anche dell’intervista di Giancarlo Cesana a Tempi post-Meeting (che non condivido praticamente in nessuna cosa, e lo dico subito a scanso di equivoci).
Innanzitutto, devo fare una premessa: il sottoscritto conosce da vicino CL in quanto è figlio di un figlio spirituale di Giussani il quale, fedele a quanto detto dal fondatore, ha cercato in tutti i modi di far conoscere la realtà del movimento in lungo e in largo sia a Roma che nei posti in cui quotidianamente vive e lavora. Mio padre non ha scelto di entrare nel movimento in un momento calmo, in quanto ha iniziato ad avere rapporti con CL all'epoca dell’università, durante i tristemente celebri anni ’70 italiani e romani in particolare. Non vorrei aggiungere altro volendo invece sottolineare come il sottoscritto conosce CL da quando era nella culla, ed è cresciuto in una casa in cui si faceva scuola di comunità ogni venerdì sera – e guai ad accendere la televisione quando papà leggeva e spiegava quel librone che teneva sempre sulla sua scrivania – e si andava a fare le vacanze a Rimini ma non al mare, bensì al Meeting cui mio padre partecipò anche all'epoca della I edizione.
Un’altra premessa da fare è che il sottoscritto deve molto a Don Giussani e specialmente al suo libro L’Avvenimento Cristiano: similmente devo molto al Meeting in quanto è lì che ho conosciuto personalmente Eugenio Corti, ho apprezzato Claudio Chieffo, Antonio Socci, etc etc etc.
Poiché le due premesse smontano buona parte degli insulti ricevuti (non conoscete Cl, non conoscete il Meeting, seguite la Messa solo se trasmessa alla RAI, etc), andiamo ad analizzare la questione portante del precedente articolo: il Meeting, la fede cattolica, la Messa.
Il fatto che al Meeting si dica una sola Messa non lo dice il sottoscritto, bensì la Fondazione, e il fatto che la Fondazione non riporta il dato all'interno dei numeri della manifestazione è visionabile da tutti con una semplice lettura dell’elenco fornito: decade dunque una delle obiezioni mosse all'articolo, ossia il fatto di non esserci informati, in quanto sono stati pubblicati dati ufficiali. Un’altra obiezione, degna di un vero sofista, è il fatto che Rimini è pieno di Parrocchie e che a Viserba i volontari hanno la possibilità di una Messa ogni mattina: questa cosa è degna di un sofista perché non si è capita la natura della critica giacché non si contesta il fatto che a Rimini non si celebrino Messe, bensì che il Meeting non presenti e proponga ai suoi visitatori la fonte della grazia, ossia la Santa Messa e che, contestualmente, ci si quasi vergogna di celebrare la Messa in quanto ci si vergogna di farlo sapere a tutto il mondo (affermare che i volontari hanno la possibilità di una loro celebrazione è ancora più grave in quanto sembra che solo essi abbiano bisogno del Pane dei pellegrini mentre gli altri ne possono essere esenti).
Il discorso inoltre era molto più pregno di significato e si capiva bene nelle ultime due righe dell’articolo: non solo il Meeting non presenta né propone la Messa quotidiana, ma non offre neanche la presenza fissa di sacerdoti per confessioni e direzioni spirituali come neanche è presente, all'interno della fiera, di un luogo di culto dove, ad esempio, poter celebrare le Ore Canoniche, recitare l’Angelus (fino a poco tempo fa bandiera dei Ciellini) o poter fare l’adorazione eucaristica. In una parola: nella fiera manca un posto dove, ordinariamente, si può incontrare Cristo ossia meditare e rivivere – e qui parafraso volutamente le pagine de L’Avvenimento Cristiano – ciò che gli Apostoli hanno vissuto quando hanno incontrato Gesù, lo hanno seguito, lo hanno visto morire, lo hanno visto risorto ed ascendere al Cielo.
Al Meeting, dunque, manca la ragione profonda di CL: l’avvenimento cristiano, l’incontro con il Signore, la Chiesa: dispiace dire che la manifestazione nasce fin dall'inizio zoppa e deficitaria da questo punto di vista ma è la cruda quanto dura realtà. E se manca la fede, abbondano solo le opere come vuole il pelagianesimo di cui abbiamo parlato nel I articolo di questa rubrica: ecco perché dicevamo che nel Meeting c’è più Marta che Maria, più Pelagio che Agostino. Non si tratta di insultare nessuno bensì del presentare un’analisi che – e lo dico con il cuore in mano grondante di sangue – è impietosa e presenta un qualcosa di profondamente diverso da quello che sembra. Ben prima dell’invito di Mario Monti, Renzi, Fedeli, D’Alema, etc etc c’è infatti un problema di identità: se si è cattolici non si può fare una copia della festa dell’Unità aperta da una Messa anziché dall'esecuzione dell’Internazionale e da Bandiera Rossa.
È innegabile e risaputo infatti che il Meeting nacque per dare una risposta culturale cattolica al mondo gramsciano-marxista e l’idea, lodevole, si scontrò ben presto con il mondo politico-sociale-religioso-culturale dei ruggenti anni ‘80 in cui il comunismo sembrava dover trionfare da un momento ad un altro complice la teologia della liberazione che appassionava e attraeva sempre più migliaia e migliaia di fedeli e religiosi cattolici: come per miracolo, pur tra mille difficoltà, il Meeting anziché morire esplose nell'attuale kermesse settimanale considerata il più importante evento culturale estivo europeo. Il pubblico aumentava; lo spazio cresceva; i ricavi entravano: la Messa, tuttavia, una era e una rimase; le confessioni zero erano e zero sono rimaste; i sacerdoti non dovevano essere cercati in una Cappella bensì dietro gli stand a fare propaganda a questa o quella congregazione.
Non sto dicendo che il Meeting non abbia prodotto o non produca grazie: non sono Dio, non sia mai! Dico tuttavia che si vede troppa natura e poco soprannaturale, troppo Mammona (come non dimenticare gli anni in cui Lottomatica faceva propaganda al gioco d’azzardo e contemporaneamente il movimento si occupava di ludopatie e indebitamento da gioco?) e non il Buon Dio, relegato ad avere a disposizione in pubblico una misera oretta e lasciando invece a cantanti, politici, economisti, calciatori e modelle il grosso del tempo. Non si dimentichi inoltre che durante la Messa gli stand sono sì in allestimento (ma solo se il Meeting apre di domenica come un tempo altrimenti è tutto allestito) e si può anche seguire qualche mostra o andare in libreria. Se solo un’anima si è già salvata grazie al Meeting – e io penso che sia andata così – la manifestazione è da lodare: perché, tuttavia, non provare a salvarne 100, 1000, 10000 per mezzo dei Sacramenti dispensati quotidianamente dai tanti sacerdoti che lo vivono e/o lo visitano?
Cesana nella sua intervista a Tempi nomina Cristo una sola volta e quasi di sfuggita e si giustifica dinanzi le critiche dicendo che la prova che il Meeting sia buono è dato dal fatto che due Santi lo hanno visitato (Madre Teresa e Giovanni Paolo II) cosicché, secondo Cesana, la teologia della liberazione e il marxismo sono buoni perché Giovanni Paolo II ha visitato il Nicaragua sandinista e la Cuba castrista. Vorrei evitare commenti al riguardo.
I Ciellini di vecchia data sanno che uno degli slogan preferiti del movimento è il cateriniano se sarete quello che dovete essere metterete a fuoco l’Italia: perché il Meeting non dovrebbe essere invece quello che è, ovvero un’opera cattolica? Ossia: perché ci si deve vergognare di presentare nella sua interezza il messaggio cristiano, comprensivo quindi anche della grazia?
Se un marziano o una persona che ignora completamente Cristo dovesse recarsi a Rimini durante il Meeting capirebbe che quella è un’opera di cattolici e che solo essi possono organizzare?
Conversazione al fronte: Intervista al professor Rémi Brague
Un'intervista a tutto campo con uno dei più brillanti pensatori del XXI secolo, per approfondire diversi temi e questioni di attualità. Rémi Brague è docente alle università di Parigi I Pantheon-Sorbona e di Monaco Ludwig-Maximilian. Tra i temi da lui studiati e trattati in diversi saggi, vi sono l'identità europea, il pensiero medievale, la filosofia araba. Nel 2012 è stato insignito del premio Ratzinger, promosso dalla Fondazione Vaticana Joseph Ratzinger - Benedetto XVI, insieme al gesuita patrologo statunitense Brian Edward Daley. In Italia è conosciuto in particolare per i celebri libri: Dove va la storia? Dilemmi e speranze (Editrice La Scuola 2015), Il futuro dell’Occidente. Nel modello romano la salvezza dell’Europa (Bompiani 2005) Il Dio dei cristiani. L’unico Dio? (Cortina 2009); Ancore nel cielo. L’infrastruttura metafisica (Vita e Pensiero 2012).
Professore, spesso si sente dire che per la formazione dell'Europa è stato fondamentale l'incontro tra Roma Atene e Gerusalemme: le cose stanno proprio così?
Vi è una banalità nel parlare delle "tre città simbolo" e nell'affermare che è dalla loro combinazione che viene la civiltà occidentale. Altri oltre me, e ben prima di me, l'hanno dimostrato meglio di me; come Paul Valéry. Per quanto mi riguarda, la novità del mio lavoro sta nell'aver sottolineato l'importanza dell'esperienza romana: la Roma della storia, ma anche e soprattutto l'atteggiamento romano, che ho descritto con i concetti come "la secondarità", "il rinascimento" (distinta dalla semplice reviviscenza), "l'adozione inversa" e così via. I Romani hanno compreso che il loro compito storico consisteva anche nel diffondere una cultura che non era la loro. Non a caso, la secondarità ha questo significato: sapere che ciò che si trasmette non proviene da sé stessi, e che lo si possiede solo in modo fragile e provvisorio. Questo implica tra l’altro che nessuna costruzione storica ha niente di definitivo. Deve essere sempre rivista, corretta, riformata. Perciò, in Europa non vedo tanto la sintesi delle tre città, ma piuttosto, i frutti della "via romana", la quale ha permesso la feconda tensione tra le tre. Ciò ha reso possibile la coesistenza delle caratteristiche di ciascuna: l'impero il diritto da Roma, la filosofia la cultura da Atene, il rapporto con un Dio unico e personale da Gerusalemme, grazie in primis ai cristiani; senza che una assorbisse le altre.
Leggendo le sue opere, appare chiaro che oggi è necessario un ritorno al Medio Evo (epoca tutt'altro che buia) dei padri della Chiesa, dei grandi filosofi teologi scrittori, quali San Tommaso. Perché è così importante ciò, c'entra il bene dell'Europa?
Già, in effetti è così. Ne ho parlato in modo particolare in un libro che non è stato tradotto in italiano, e dal quale è stata lanciata, in qualche modo come una provocazione, l'idea che abbiamo bisogno di un ritorno al Medioevo (Le Propre de l’homme. Sur une légitimité menacée, Paris, Flammarion, 2013, p. 186-189). È chiaro che non ho intenzione di gettare via i contributi dei tempi moderni, alcuni dei quali sono molto positivi nei settori della scienza, della tecnologia, della politica, ecc. Voglio, d'altra parte, l'atteggiamento intellettuale fondamentale del Medioevo, e più precisamente del Medioevo cristiano. Bisogna riprenderlo; mi sembra l'unico possibile, dato che il fallimento del progetto moderno è stato riconosciuto (come ho scritto nel mio ultimo volumone Le Règne de l’homme. Genèse et échec du projet moderne, Paris, Gallimard, 2015). In questo momento, sto cercando di chiarire come tale ritorno potrebbe essere fatto per bene.
I cristiani non credono ad una semplice religione ma all'incontro con Gesù Cristo, Dio Incarnato nella storia. Da questo “Incontro” sono nate concezioni straordinarie come la creazione, la provvidenza, la redenzione, il perdono, le quali hanno permesso la costruzione della civiltà dell'Europa cristiana. Come si possono difendere e riproporre oggi (e qui si pone anche la questione della tradizione), senza correre il rischio di “trasbordo ideologico” e di “cristianismo”, e cioè di trattare il cristianesimo come fosse una 'bella teoria', al pari del liberalismo, dell'occidentalismo, e non un fatto storico?
È proprio per evitare di mettere il cristianesimo sullo stesso livello delle dottrine in "ism" (marxismo, nazismo, ecc.) che ho inventato questo "spaventapasseri" che è il cristianismo. In francese, non si possono distinguere due parole come in italiano. Ma possiamo distinguere i cristiani che credono in Cristo e i "cristianisti" che credono nel valore culturale positivo della religione cristiana. Queste persone mi sono totalmente simpatiche, dato che è vero che il contributo del cristianesimo è stato e resta una cosa buona. L'invocazione della "civiltà cristiana" non deve tuttavia servire come un camuffamento per politiche che non hanno niente a che fare con il cristianesimo. Il primo passo nella giusta direzione è senza dubbio il ricordarci che questa civiltà cristiana non è stata costruita dai "cristianisti", ma dai cristiani che non pensavano alla civiltà, ma solo a cercare Dio e a seguire Cristo.
Cristo non è venuto per costruire una civiltà, ma per salvare gli uomini di tutte le civiltà. Quella che si chiama “civiltà cristiana” non è nient’altro che l’insieme degli effetti collaterali che la fede in Cristo ha prodotto sulle civiltà che si trovavano sul suo cammino. Quando si crede alla Sua resurrezione, e alla possibilità della resurrezione di ogni uomo in Lui, si vede tutto in maniera diversa e si agisce di conseguenza, in tutti i campi. Ma serve molto tempo per rendersene conto e per realizzare questo nei fatti. Per questo, forse, noi siamo solo all'inizio del cristianesimo.
Come possiamo – noi cattolici – dialogare con l'islam e le altre religioni, senza per questo far perdere le radici cristiane all'Europa?
Il dialogo con l'Islam non ha la stessa natura di quello con, ad esempio, l'ebraismo e il buddismo. Con l'ebraismo abbiamo in comune un libro, quello che chiamiamo l'Antico Testamento, e soprattutto l'esperienza di Dio registrata nel libro. Con il buddismo siamo così lontani che difficilmente si può trovare un terreno di conflitto e che la curiosità può essere reciproca. Con l'Islam, siamo in una relazione di falsa prossimità. Le parole identiche e persino i nomi propri identici (Abramo, ad esempio) riguardano non solo realtà molto diverse ma diametralmente opposte. In effetti, sono stati spesso elaborati dall'Islam con l'intenzione esplicita di differenziarsi dal cristianesimo che era davanti a esso. Certo, non bisogna avere paura del dialogo: quello vero non può minacciare le radici cristiane dell'Europa. Però, sarebbe fatale se si sciogliesse la Fede cattolica in un sincretismo umanitario.
Che cos'è che impedisce alla religione maomettana il dialogo sereno con chi non fa parte dell'umma? C'entrano le influenze nestoriane e gnostiche su Maometto, le quali hanno reso l'islam una méontologia, ossia la negazione del valore di tutte le realtà – quali una sana idea di laicità, la Verità come Logos comunicabile e intellegibile, la dignità della persona – considerate in opposizione al corano?
La gnosi è una parola molto vaga, in cui possiamo introdurre quantità di significati, talvolta contrari l'uno all'altro. Non è solo nell'islam che se ne possono trovare tracce. Sono molto più chiare in alcuni aspetti del progetto moderno. Erich Voegelin ne ha avuto l'intuizione, che senza dubbio ha spinto troppo lontano. Non è assente dall'Islam, dove riceve anche un nome completamente positivo lodatore, quello di 'irfān'. Ma conosce forme meno virulente di quelle che si sono sviluppate nel cristianesimo. È normale che la gnosi minacci di più la religione dell'incarnazione e non l'islam, che respinge, al contrario, l'idea che Dio sarebbe entrato nella storia umana, facendo un'alleanza con un popolo (giudaismo) e incarnandosi per portare a compimento quell'alleanza. Di conseguenza, l'islam può tranquillamente assumere temi di origine gnostica (sópra tutto la sua teologia islamica, la quale si è costituita in polemica contro il cristianesimo), forse passati dal manicheismo. O temi neoplatonici.
Lo “scontro” tra islamici e cattolici non rischia di avvantaggiare proprio quelle realtà del post-umanismo da rivoluzione biopolitica e gnostica, penso a certe potenti lobby come Google Facebook Amazon Planned Parenthood, insofferenti alle tradizioni, alle religioni, e soprattutto alla Chiesa cattolica, ultimo baluardo tra il loro tentativo di trasformare l'uomo, homo religiosus-viator, quindi con un'identità precisa e in relazione con Dio e le altre persone, in una “monade” liquida, chiusa in se stessa e modellabile secondo certi piani (da qui il gender il relativismo il nichilismo e altri mali)?
Un pericolo che non è da escludere. Lobby come quelle appena citate, dove lo spettro del "transumanismo" si manifesta, mi sembrano essere soprattutto il punto avanzato di un movimento di grande portata. Esse hanno tutto l'interesse a cercare di ridurre le società umane in una polvere di atomi isolati, e di conseguenza, a combattere tutto ciò che è in grado di frapporsi con valori e princìpi tra loro e l'uomo, come le religioni, come la Chiesa cattolica in primis. Il sogno di queste élite è di gestire le macchine, la tecnologia e imporre il consumismo alle persone.
La “via” che Benedetto XVI propose ai musulmani a Ratisbona può essere un grande aiuto per risolvere problemi come quelli sopra citati?
Il discorso di Regensburg è un grande testo, ho avuto la possibilità di commentarlo (Der Kosmos der Vernunft und sein Schöpfer. Marginalien zur Regensburger Rede H.-R. Tuck (ed.), Der Theologenpapst. Eine kritische Würdigung Benedikts XVI, Freiburg e altri, Herder, 2013, pp. 97-112). Non aveva come tema centrale l'Islam. La rabbia del mondo islamico è stata provocata dalle manipolazioni dei media, rilanciate dalle autorità locali. Il vero argomento del discorso era la ragione e i pericoli che la minacciavano. Tuttavia, indirettamente, la domanda proposta può rivolgersi ai musulmani che riflettono sulla propria religione.
L'apologetica musulmana sostiene, ribadisce che l'Islam sia una religione razionale, a differenza del cristianesimo che ammette "misteri". Questo è facile da sostenere quando ci si trova all'interno dell'islam. Ma è da soli, senza autorità, che riconosciamo l'autenticità della profezia del Mahomet e della "divina origine del Corano"? E se l'islam pretende di avere solo fatti tangibili, poi come può sostenere di avere un contenuto rivelato? Quanto è interessante ciò? In che modo non è inutile?
In questa epoca, da “after virtue” come ci ricorda MacIntyre, non dissimile quindi dalla caduta dell'impero romano, appare fondamentale La Città di Dio di Sant'Agostino. Che cosa dobbiamo prendere dalla sua opera e dal suo pensiero?
L'opera di Sant'Agostino è arrivata infatti in un momento in cui l'Impero Romano, diventato cristiano, era minacciato. La tentazione di tornare agli dèi del paganesimo era grande durante quel momento. Oggi, non abbiamo più l'esperienza pagana del mondo. Non possiamo più seriamente pretendere di vivere in un mondo pieno di sacralità. La conoscenza che la scienza ci ha dato della natura ci impedisce di vedere ninfe nelle sorgenti, Giove dietro i fulmini.
Oggi abbiamo sostituito gli dei pagani con quello che chiamiamo "valori". Così, per i francesi, vi sono i "valori della Repubblica". È da loro che attendiamo la salvezza. È importante sconfiggerli con tanto rigore, anche crudeltà, come ha fatto Sant'Agostino contro le divinità romane. Lo ha fatto per dimostrare che se si può chiedere ("agli altri, naturalmente") di morire per esse, esse non sono in grado di far vivere.
Per affrontare in modo appropriato il problema immigrazione, quanto risulta importante rileggere ma in primis ascoltare l'Ecclesia in Europa di Giovanni Paolo II?
Non poco. A causa della sua origine polacca, Giovanni Paolo II aveva avuto un'esperienza diretta dei due grandi mostri del XX secolo, il nazismo e poi il comunismo. Aveva capito la tentazione di disperazione e di ritiro in un felice passato, che è in gran parte immaginario. La sua enciclica è incentrata sulla speranza. È là che lui, per la prima volta, parla della "cultura della morte". L'espressione è in sé contraddittoria, in quanto la cultura è solo una cultura della vita. Ma questa contraddizione è utile per spiegare le nostre società così contraddittorie. È il vuoto prodotto dalla cultura della morte che spinge molti ad immigrare. È questo vuoto, soprattutto, che fa immaginare noi cattolici incapaci di offrire loro la Fede.
Per rimanere in tema letture. L'ironia, la profondità, l'epicità, contenute nelle opere di autori come Chesterton Tolkien Lewis, possono essere aiuti validi per rivitalizzare la presenza dei cattolici nello spazio pubblico e contribuire così al bene comune?
Hai nominato qui tre autori inglesi che sono tra i miei riferimenti preferiti. Ho letto con gioia le loro opere, e con poca o nessuna interruzione. Tolkien, un filologo, è meglio conosciuto come scrittore fantasy, grazie a quell'opera grandiosa che è Il Signore degli anelli. Chesterton scrisse romanzi, "storie poliziesche" con protagonista padre Brown e saggi. Lewis era uno storico della letteratura, ma anche un apologo capace di ragionare come filosofo e un romanziere: Le cronache di Narnia, la trilogia cosmica, e A viso scoperto-Till have faces sono opere straordinarie. Con questo intendo dire che gli argomenti storici e filosofici, che sono indirizzati alla ragione, devono essere completati da narrazioni capaci di toccare l'immaginazione. Si tratta anche di mostrare il mondo in una luce cristiana. E scrittori, poeti, romanzieri o drammaturghi vi riescono meglio dei filosofi. Penso, in quanto francese, a Péguy, Claudel o a Bernanos.
Professore, spesso si sente dire che per la formazione dell'Europa è stato fondamentale l'incontro tra Roma Atene e Gerusalemme: le cose stanno proprio così?
Vi è una banalità nel parlare delle "tre città simbolo" e nell'affermare che è dalla loro combinazione che viene la civiltà occidentale. Altri oltre me, e ben prima di me, l'hanno dimostrato meglio di me; come Paul Valéry. Per quanto mi riguarda, la novità del mio lavoro sta nell'aver sottolineato l'importanza dell'esperienza romana: la Roma della storia, ma anche e soprattutto l'atteggiamento romano, che ho descritto con i concetti come "la secondarità", "il rinascimento" (distinta dalla semplice reviviscenza), "l'adozione inversa" e così via. I Romani hanno compreso che il loro compito storico consisteva anche nel diffondere una cultura che non era la loro. Non a caso, la secondarità ha questo significato: sapere che ciò che si trasmette non proviene da sé stessi, e che lo si possiede solo in modo fragile e provvisorio. Questo implica tra l’altro che nessuna costruzione storica ha niente di definitivo. Deve essere sempre rivista, corretta, riformata. Perciò, in Europa non vedo tanto la sintesi delle tre città, ma piuttosto, i frutti della "via romana", la quale ha permesso la feconda tensione tra le tre. Ciò ha reso possibile la coesistenza delle caratteristiche di ciascuna: l'impero il diritto da Roma, la filosofia la cultura da Atene, il rapporto con un Dio unico e personale da Gerusalemme, grazie in primis ai cristiani; senza che una assorbisse le altre.
Leggendo le sue opere, appare chiaro che oggi è necessario un ritorno al Medio Evo (epoca tutt'altro che buia) dei padri della Chiesa, dei grandi filosofi teologi scrittori, quali San Tommaso. Perché è così importante ciò, c'entra il bene dell'Europa?
Già, in effetti è così. Ne ho parlato in modo particolare in un libro che non è stato tradotto in italiano, e dal quale è stata lanciata, in qualche modo come una provocazione, l'idea che abbiamo bisogno di un ritorno al Medioevo (Le Propre de l’homme. Sur une légitimité menacée, Paris, Flammarion, 2013, p. 186-189). È chiaro che non ho intenzione di gettare via i contributi dei tempi moderni, alcuni dei quali sono molto positivi nei settori della scienza, della tecnologia, della politica, ecc. Voglio, d'altra parte, l'atteggiamento intellettuale fondamentale del Medioevo, e più precisamente del Medioevo cristiano. Bisogna riprenderlo; mi sembra l'unico possibile, dato che il fallimento del progetto moderno è stato riconosciuto (come ho scritto nel mio ultimo volumone Le Règne de l’homme. Genèse et échec du projet moderne, Paris, Gallimard, 2015). In questo momento, sto cercando di chiarire come tale ritorno potrebbe essere fatto per bene.
I cristiani non credono ad una semplice religione ma all'incontro con Gesù Cristo, Dio Incarnato nella storia. Da questo “Incontro” sono nate concezioni straordinarie come la creazione, la provvidenza, la redenzione, il perdono, le quali hanno permesso la costruzione della civiltà dell'Europa cristiana. Come si possono difendere e riproporre oggi (e qui si pone anche la questione della tradizione), senza correre il rischio di “trasbordo ideologico” e di “cristianismo”, e cioè di trattare il cristianesimo come fosse una 'bella teoria', al pari del liberalismo, dell'occidentalismo, e non un fatto storico?
È proprio per evitare di mettere il cristianesimo sullo stesso livello delle dottrine in "ism" (marxismo, nazismo, ecc.) che ho inventato questo "spaventapasseri" che è il cristianismo. In francese, non si possono distinguere due parole come in italiano. Ma possiamo distinguere i cristiani che credono in Cristo e i "cristianisti" che credono nel valore culturale positivo della religione cristiana. Queste persone mi sono totalmente simpatiche, dato che è vero che il contributo del cristianesimo è stato e resta una cosa buona. L'invocazione della "civiltà cristiana" non deve tuttavia servire come un camuffamento per politiche che non hanno niente a che fare con il cristianesimo. Il primo passo nella giusta direzione è senza dubbio il ricordarci che questa civiltà cristiana non è stata costruita dai "cristianisti", ma dai cristiani che non pensavano alla civiltà, ma solo a cercare Dio e a seguire Cristo.
Cristo non è venuto per costruire una civiltà, ma per salvare gli uomini di tutte le civiltà. Quella che si chiama “civiltà cristiana” non è nient’altro che l’insieme degli effetti collaterali che la fede in Cristo ha prodotto sulle civiltà che si trovavano sul suo cammino. Quando si crede alla Sua resurrezione, e alla possibilità della resurrezione di ogni uomo in Lui, si vede tutto in maniera diversa e si agisce di conseguenza, in tutti i campi. Ma serve molto tempo per rendersene conto e per realizzare questo nei fatti. Per questo, forse, noi siamo solo all'inizio del cristianesimo.
Come possiamo – noi cattolici – dialogare con l'islam e le altre religioni, senza per questo far perdere le radici cristiane all'Europa?
Il dialogo con l'Islam non ha la stessa natura di quello con, ad esempio, l'ebraismo e il buddismo. Con l'ebraismo abbiamo in comune un libro, quello che chiamiamo l'Antico Testamento, e soprattutto l'esperienza di Dio registrata nel libro. Con il buddismo siamo così lontani che difficilmente si può trovare un terreno di conflitto e che la curiosità può essere reciproca. Con l'Islam, siamo in una relazione di falsa prossimità. Le parole identiche e persino i nomi propri identici (Abramo, ad esempio) riguardano non solo realtà molto diverse ma diametralmente opposte. In effetti, sono stati spesso elaborati dall'Islam con l'intenzione esplicita di differenziarsi dal cristianesimo che era davanti a esso. Certo, non bisogna avere paura del dialogo: quello vero non può minacciare le radici cristiane dell'Europa. Però, sarebbe fatale se si sciogliesse la Fede cattolica in un sincretismo umanitario.
Che cos'è che impedisce alla religione maomettana il dialogo sereno con chi non fa parte dell'umma? C'entrano le influenze nestoriane e gnostiche su Maometto, le quali hanno reso l'islam una méontologia, ossia la negazione del valore di tutte le realtà – quali una sana idea di laicità, la Verità come Logos comunicabile e intellegibile, la dignità della persona – considerate in opposizione al corano?
La gnosi è una parola molto vaga, in cui possiamo introdurre quantità di significati, talvolta contrari l'uno all'altro. Non è solo nell'islam che se ne possono trovare tracce. Sono molto più chiare in alcuni aspetti del progetto moderno. Erich Voegelin ne ha avuto l'intuizione, che senza dubbio ha spinto troppo lontano. Non è assente dall'Islam, dove riceve anche un nome completamente positivo lodatore, quello di 'irfān'. Ma conosce forme meno virulente di quelle che si sono sviluppate nel cristianesimo. È normale che la gnosi minacci di più la religione dell'incarnazione e non l'islam, che respinge, al contrario, l'idea che Dio sarebbe entrato nella storia umana, facendo un'alleanza con un popolo (giudaismo) e incarnandosi per portare a compimento quell'alleanza. Di conseguenza, l'islam può tranquillamente assumere temi di origine gnostica (sópra tutto la sua teologia islamica, la quale si è costituita in polemica contro il cristianesimo), forse passati dal manicheismo. O temi neoplatonici.
Lo “scontro” tra islamici e cattolici non rischia di avvantaggiare proprio quelle realtà del post-umanismo da rivoluzione biopolitica e gnostica, penso a certe potenti lobby come Google Facebook Amazon Planned Parenthood, insofferenti alle tradizioni, alle religioni, e soprattutto alla Chiesa cattolica, ultimo baluardo tra il loro tentativo di trasformare l'uomo, homo religiosus-viator, quindi con un'identità precisa e in relazione con Dio e le altre persone, in una “monade” liquida, chiusa in se stessa e modellabile secondo certi piani (da qui il gender il relativismo il nichilismo e altri mali)?
Un pericolo che non è da escludere. Lobby come quelle appena citate, dove lo spettro del "transumanismo" si manifesta, mi sembrano essere soprattutto il punto avanzato di un movimento di grande portata. Esse hanno tutto l'interesse a cercare di ridurre le società umane in una polvere di atomi isolati, e di conseguenza, a combattere tutto ciò che è in grado di frapporsi con valori e princìpi tra loro e l'uomo, come le religioni, come la Chiesa cattolica in primis. Il sogno di queste élite è di gestire le macchine, la tecnologia e imporre il consumismo alle persone.
La “via” che Benedetto XVI propose ai musulmani a Ratisbona può essere un grande aiuto per risolvere problemi come quelli sopra citati?
Il discorso di Regensburg è un grande testo, ho avuto la possibilità di commentarlo (Der Kosmos der Vernunft und sein Schöpfer. Marginalien zur Regensburger Rede H.-R. Tuck (ed.), Der Theologenpapst. Eine kritische Würdigung Benedikts XVI, Freiburg e altri, Herder, 2013, pp. 97-112). Non aveva come tema centrale l'Islam. La rabbia del mondo islamico è stata provocata dalle manipolazioni dei media, rilanciate dalle autorità locali. Il vero argomento del discorso era la ragione e i pericoli che la minacciavano. Tuttavia, indirettamente, la domanda proposta può rivolgersi ai musulmani che riflettono sulla propria religione.
L'apologetica musulmana sostiene, ribadisce che l'Islam sia una religione razionale, a differenza del cristianesimo che ammette "misteri". Questo è facile da sostenere quando ci si trova all'interno dell'islam. Ma è da soli, senza autorità, che riconosciamo l'autenticità della profezia del Mahomet e della "divina origine del Corano"? E se l'islam pretende di avere solo fatti tangibili, poi come può sostenere di avere un contenuto rivelato? Quanto è interessante ciò? In che modo non è inutile?
In questa epoca, da “after virtue” come ci ricorda MacIntyre, non dissimile quindi dalla caduta dell'impero romano, appare fondamentale La Città di Dio di Sant'Agostino. Che cosa dobbiamo prendere dalla sua opera e dal suo pensiero?
L'opera di Sant'Agostino è arrivata infatti in un momento in cui l'Impero Romano, diventato cristiano, era minacciato. La tentazione di tornare agli dèi del paganesimo era grande durante quel momento. Oggi, non abbiamo più l'esperienza pagana del mondo. Non possiamo più seriamente pretendere di vivere in un mondo pieno di sacralità. La conoscenza che la scienza ci ha dato della natura ci impedisce di vedere ninfe nelle sorgenti, Giove dietro i fulmini.
Oggi abbiamo sostituito gli dei pagani con quello che chiamiamo "valori". Così, per i francesi, vi sono i "valori della Repubblica". È da loro che attendiamo la salvezza. È importante sconfiggerli con tanto rigore, anche crudeltà, come ha fatto Sant'Agostino contro le divinità romane. Lo ha fatto per dimostrare che se si può chiedere ("agli altri, naturalmente") di morire per esse, esse non sono in grado di far vivere.
Per affrontare in modo appropriato il problema immigrazione, quanto risulta importante rileggere ma in primis ascoltare l'Ecclesia in Europa di Giovanni Paolo II?
Non poco. A causa della sua origine polacca, Giovanni Paolo II aveva avuto un'esperienza diretta dei due grandi mostri del XX secolo, il nazismo e poi il comunismo. Aveva capito la tentazione di disperazione e di ritiro in un felice passato, che è in gran parte immaginario. La sua enciclica è incentrata sulla speranza. È là che lui, per la prima volta, parla della "cultura della morte". L'espressione è in sé contraddittoria, in quanto la cultura è solo una cultura della vita. Ma questa contraddizione è utile per spiegare le nostre società così contraddittorie. È il vuoto prodotto dalla cultura della morte che spinge molti ad immigrare. È questo vuoto, soprattutto, che fa immaginare noi cattolici incapaci di offrire loro la Fede.
Per rimanere in tema letture. L'ironia, la profondità, l'epicità, contenute nelle opere di autori come Chesterton Tolkien Lewis, possono essere aiuti validi per rivitalizzare la presenza dei cattolici nello spazio pubblico e contribuire così al bene comune?
Hai nominato qui tre autori inglesi che sono tra i miei riferimenti preferiti. Ho letto con gioia le loro opere, e con poca o nessuna interruzione. Tolkien, un filologo, è meglio conosciuto come scrittore fantasy, grazie a quell'opera grandiosa che è Il Signore degli anelli. Chesterton scrisse romanzi, "storie poliziesche" con protagonista padre Brown e saggi. Lewis era uno storico della letteratura, ma anche un apologo capace di ragionare come filosofo e un romanziere: Le cronache di Narnia, la trilogia cosmica, e A viso scoperto-Till have faces sono opere straordinarie. Con questo intendo dire che gli argomenti storici e filosofici, che sono indirizzati alla ragione, devono essere completati da narrazioni capaci di toccare l'immaginazione. Si tratta anche di mostrare il mondo in una luce cristiana. E scrittori, poeti, romanzieri o drammaturghi vi riescono meglio dei filosofi. Penso, in quanto francese, a Péguy, Claudel o a Bernanos.
mercoledì 4 ottobre 2017
Congedo con onore: Ordoliberalismo
L'Ordoliberalismo – la Scuola di Friburgo
Il fallimento editoriale di Mises, la crisi della repubblica di Weimar e l'ascesa del nazionalsocialismo non impedirono la ricerca di una via tedesca al liberalismo da parte di un gruppo di studiosi, i quali, già durante gli anni del regime nazista, si raccolsero intorno alla guida del professor Walter Eucken. Detto gruppo assunse il nome di Scuola di Friburgo e la filosofia che la ispirava venne chiamata "ordoliberalismo", dal titolo della rivista "Ordo", fondata da Eucken nel 1940. Decisamente più critici di Adam Smith rispetto alla fede in una spontanea armonia che sarebbe dovuta scaturire dall'opera della "mano invisibile", gli ordoliberali, anche noti come i fautori della economia sociale di mercato (Soziale Marktwirtschaft), hanno contribuito in modo sostanziale all'evoluzione della teoria economica, ed in particolar modo a quella branca dell'economia che incontra il diritto, e del diritto che incontra l'analisi economica, avendo sostenuto l'idea che il sistema economico per esprimere al meglio le proprie funzioni produttive-allocative dovrebbe operare in conformità con una "costituzione economica" che lo Stato stesso pone in essere. Si tratta di una visione politico-economica che non ha nulla a che vedere con la pianificazione economica centralizzata o con una politica statale interventista. Per il semplice motivo che il ruolo dello Stato nell'economa sociale di mercato non è semplicemente quello di "guardiano notturno", tipico del liberalismo del laisser-faire, bensì è quello di uno "Stato forte" che si preoccupa di contrastare l'assalto contro il funzionamento del mercato da parte dei monopoli e dei cacciatori di rendite.
Tra gli studiosi che contribuirono all'elaborazione e alla diffusione dell'ordoliberalismo possiamo annoverare economisti come Alexander Rüstov e Wilhelm Röpke e giuristi come Hans Grossman-Dörth e Franz Böhm; questi ultimi condirettori insieme ad Eucken della rivista "Ordo".
Potremmo sintetizzare il contenuto della teoria politico-economica ordoliberale nell'affermazione che gli autori della Scuola di Friburgo riconoscevano il ruolo e la funzione dello stato e nel contempo erano strenui avversari di ogni forma di dirigismo. Intendiamo dire che per la teoria ordoliberale il mercato è un sistema di relazioni che necessita di essere organizzato giuridicamente dallo stato e che lo stato non dovrebbe in alcun modo modificare i risultati che provengono dai processi di mercato. In questa prospettiva, gli ordoliberali, nell'ambito delle politiche economiche internazionali, si espressero a favore delle liberalizzazioni degli scambi e, di conseguenza, avversarono tutte quelle politiche creditizie e fiscali che a loro avviso avrebbero potuto incentivare le concentrazioni di capitale. Riguardo alla politica economica interna, si mostrarono estremamente scettici nei confronti dell'interventismo di stato nel campo sociale ed evidenziarono gli effetti deresponsabilizzanti sulla condotta individuale di un atteggiamento paternalistico da parte dello stato.
La Scuola di Friburgo parte dall'ipotesi che "l'ordine di mercato è un ordine costituzionale, cioè un ordine caratterizzato da un quadro istituzionale che, come tale, è questione di scelte costituzionali (esplicite o implicite). è una Scuola i cui rappresentanti suppongono che i processi di mercato funzioneranno bene o male in ragione della natura del quadro giuridico e istituzionale all'interno del quale essi si situano, e che la questione di sapere quali regole debbano o non debbano figurare in questo quadro è un affare di scelte istituzionali tenendo conto dei vantaggi rispettivi di ciascuna delle scelte possibili".
Il contributo più originale dell'"ordoliberalismo" è stato di aver aggredito le problematiche del mercato concorrenziale a partire da un approccio istituzionale. Gli "ordoliberali" hanno colto l'idea che l'ordine concorrenziale è di per sé un "bene pubblico" e in quanto tale andrebbe tutelato. La scuola di Friburgo ci aiuta a comprendere che esiste una dimensione istituzionale nel paradigma liberale, dimensione negata o, quanto meno, assente in gran parte della letteratura liberale di matrice libertaria, accecata dall'idea che possa esistere un "mercato non intralciato". Il programma di ricerca degli "ordoliberali" ha incentrato l'attenzione sul fatto che l'idea liberale di una società libera è un'idea costituzionale, che necessita di una formalizzazione costituzionale.
Tale prospettiva costituzionalista relativa al mercato – insiste Vanberg – "avvicina la tradizione di ricerca della Scuola di Friburgo al programma di ricerca in economia politica istituzionale di recente elaborato da James Buchanan". Il premio Nobel per l'Economia ha universalizzato l'ideale liberale di cooperazione volontaria, trasferendolo dall'ambito delle scelte di mercato a quello delle scelte istituzionali, mostrando "come il paradigma liberale classico, tradizionalmente applicato alla libertà di scelta sui mercati possa venir esteso alla libertà di scelta delle istituzioni, Così facendo, Buchanan ha completato su un punto capitale i suoi predecessori della Scuola di Friburgo".
L'umanesimo liberale – Wilhelm Röpke
È opinione diffusa presso gli storici che alla base del cosiddetto "miracolo economico" tedesco ci sia la scelta di Erhard di promuovere, contro il volere delle truppe di occupazione angloamericane, la liberalizzazione dei prezzi.
Tra gli autori che hanno maggiormente contribuito all'elaborazione teorica dell'economia sociale di mercato, troviamo indubbiamente Wilhelm Röpke. Con Röpke, secondo la terminologia che fu di Oppenheimer ed in parte di Erhard, la dottrina economico-sociale della Scuola di Friburgo assunse la collocazione di "terza via", tra un liberalismo nella versione del laissez faire e il collettivismo socialista. La "terza via" di Röpke condurrebbe ad un'economia imprenditoriale basata sul "libero mercato" e non sul "mero capitalismo", che, per il nostro autore, si distingue dal libero mercato per la sua tendenza – no necessità – a risolversi in meccanismi anticoncorrenziali, favorendo la nascita di monopoli, di cartelli e l'abuso di posizione dominante. Per questa ragione, il liberalismo di Röpke ammette l'intervento pubblico, a condizione che sia "conforme" alle leggi di mercato, non sopprimendone l'autonomia. Prevede, altresì, una "politica strutturale", in grado di assicurare la conformità del sistema economico con i fini dell'organizzazione sociale e politica.
Con particolare riferimento alla riflessione socio-economica, lo specifico apporto di Wilhelm Röpke è consistito nel tentativo di elaborare una nuova teoria dell'ordinamento sociale, il cui sistema prese il nome di Ordotheorie o Ordoliberalismus, e più tardi venne chiamato "economia sociale di mercato". Primogeniture a parte, "Con l'espressione ‘economia sociale di mercato' si vuole caratterizzare una economia di mercato che soddisfi anche le esigenze di giustizia. In definitiva, Röpke considerava l'economia di mercato una condizione necessaria per lo sviluppo di una società che fosse degna dell'uomo, che in forza della libera iniziativa sviluppasse le attitudini proprie di ciascuna persona, che rendesse possibile lo sviluppo economico integrale, di un uomo a tutto tondo. In breve, un sistema economico che necessariamente deve fare i conti con alcuni "indispensabili meccanismi", che rappresentano nel contempo gli "attributi" e le "ragioni" dell'"economia di mercato". Si tratta della personale aspirazione al profitto; del perseguimento dei propri fini, un'attitudine che richiede la promozione della libertà; della concorrenza tra differenti ed alternative idee e strategie imprenditoriali; del diritto alla proprietà privata; della funzione imprenditoriale come processo creativo; del reddito derivante dall'uso imprenditoriale dei capitali; della speculazione, intesa come processo di scoperta esposto al rischio di un futuro incerto. Per Röpke, chi opera per una società libera non può non sostenere l'economia di mercato e, di conseguenza, non può non accettare tali strumenti.
I punti programmatici fondamentali dell'economia sociale di mercato che, almeno nella versione dei suoi padri fondatori, intende essere un'economia di mercato che si attiene a "condizioni quadro", si possono sintetizzare nel seguenti argomenti: un severo ordinamento monetario; un credito conforme alle norme di concorrenza; la regolamentazione della concorrenza per scongiurare la formazione di monopoli; una politica tributaria neutrale rispetto alla concorrenza; una politica che eviti sovvenzioni che alterino la concorrenza; la protezione dell'ambiente, l'ordinamento territoriale; la protezione dei consumatori da truffe negli atti d'acquisto. In definitiva, i sostenitori dell'economia sociale di mercato furono strenui critici tanto della concentrazione del potere economico e politico, quanto dello sfrenato antagonismo e l'esasperata frammentazione degli interessi. La lotta di Röpke si giocò su due fronti: "contro il collettivismo" e "contro il liberalismo bisognoso di una fondamentale revisione".
Sulla base di quanto affermato, ne deduciamo che per i fautori dell'economia sociale di mercato, ed in particolare per Röpke, esisterebbe intervento statale ed intervento statale , un intervento coerente con la "soluzione hobbesiana" che sfocia in forme più o meno burocratiche di "paternalismo di stato" ed un intervento, coerente con il principio di sussidiarietà orizzontale, oltre che verticale, che chiama in causa il dinamismo spontaneo dei corpi intermedi, i quali danno forma e sostanza alla società civile. Ne consegue che per Röpke non tutti i programmi statali sono identici. Il modello di welfare society ispirato al principio di sussidiarietà incontra l'analisi compiuta dagli autori dell'economia sociale di mercato sul terreno dei cosiddetti "interventi conformi". è stato A. Röstow a coniare la formula apparentemente ossimorica di "interventismo liberale", in quanto orientato da due criteri definiti "decisivi" dalla stesso Röpke: la distinzione tra "interventi conservativi" e "interventi di adeguamento". Il secondo criterio – propriamente röpkiano – riguarda il grado di conformità dell'intervento alla natura dell'ordine economico. L'ordine economico al quale Röpke pensava era stato delineato dallo stesso autore in Civitas humana nei seguenti punti: 1. Costituzione di un vero ordine di concorrenza (politica antimonopolistica); 2. politica economica positiva (contro il laissez faire), così declinata: a. politica di cornice; b. politica di mercato (interventismo liberale); c. interventi di adeguamento contro interventi di conservazione; d. interventi conformi contro interventi non conformi; 3. politica di struttura economico-sociale (adeguamento, decentramento, "umanesimo economico"); 4. politica sociale.
Rileviamo che per Röpke, "conforme" non è sinonimo di "raccomandabile". Egli intende per "conforme" quegli interventi dello stato che non sopprimono la "meccanica dei prezzi", e "l'autogoverno del mercato", ma che al contrario si inseriscono in esso, offrendosi come "nuovi dati", e che possono essere assimilati dallo stesso mercato. Non conformi saranno quegli interventi che distruggono la meccanica dei prezzi, sostituendola con "un ordine economico programmatico cioè collettivo". La distinzione di Röpke tra interventi conformi e interventi non conformi sposta l'attenzione da un criterio meramente quantitativo ad uno di tipo qualitativo, ciò significa che in linea di principio non si pone alcun limite quantitativo all'intervento dello stato, ma che si escludono in modo assoluto alcuni tipi: "Noi sentiamo vivo il bisogno di superare il puro criterio quantitativo e ricercare una linea divisoria nella ‘qualità' dell'intervento stesso". Il carattere conforme di un intervento non è ancora sufficiente a renderlo raccomandabile. Secondo Röpke, questi interventi dovrebbero essere "ben dosati e studiati". Resta l'importanza della distinzione conforme/non conforme in quanto evidenzia quali interventi sono per loro natura distruttivi dell'economia di mercato e quali, se ben dosati e studiati, possono essere assorbiti dal mercato e migliorarne il funzionamento dello stesso. Esempi di interventi conformi sono la svalutazione monetaria e la politica dei dazi protettivi, mentre esempi di interventi non conformi sono la calmierazione dei fitti, il controllo dei cambi e il contingentamento delle importazioni. Questi ultimi distruggerebbero il meccanismo che regola la formazione dei prezzi.
Il secondo pilastro sul quale poggia la teoria economica di Röpke è la distinzione tra interventi di conservazione e interventi di adeguamento ovvero di assestamento. Come nel caso della distinzione tra interventi conformi e non conformi, anche in merito a questa seconda distinzione, Röpke intende andare oltre i dogmi del laissez-faire e del tradizionale interventismo, tesi a mantenere inalterati gli assetti economici. Contro coloro che pretendono l'assoluta astensione dello stato di fronte alle crisi di assestamento del mercato e contro coloro che considerano l'intervento dello stato uno strumento per proteggere dall'estinzione aziende improduttive, Röpke propone la sua "terza via": "non nel ‘laissez-faire' e non nell'‘intervento conservativo' […]. In luogo di controbattere la tendenza verso un nuovo equilibrio, ricorrendo a sovvenzioni e simili, come nel caso dell'‘intervento conservativo', l'‘intervento di assestamento' vuole accelerare e facilitare il raggiungimento di questo equilibrio, allo scopo di evitare perdite e difficoltà o di limitare al minimo possibile. Un tale intervento […] ha in comune col principio del laissez-faire la meta finale, ma questa deve essere conseguita con la collaborazione di tutti coloro che non sono colpiti […]. Anziché lasciare al ramo di produzione costretto a trasformarsi – come faceva il vecchio liberalismo – la ricerca di nuove strade, l'interventismo mirante all'assestamento vuole occuparsene con piani di trasformazione, crediti, cambiamenti di indirizzo e altri mezzi congrui". Tenendo ferma l'idea che l'economia liberista è quella nella quale ciò che conta è la forza economica dei privati e l'economia collettivista è quella ove conta la forza dell'economia collettiva, l'economia sociale di mercato le esclude entrambe ed intravede nella forza equilibratrice delle regole, ossia, della costituzione economica, lo strumento per garantire che il principio di concorrenza non ceda alla brama dei privati ovvero alla brama onnivora del pubblico.
Il personalismo liberale di Röpke
I sostenitori della Soziale Marktwirtschaft tedesca impararono presto l'amara lezione impartita dalla veloce salita al potere di Hitler, e fecero propri un principio fondamentale dell'allora dottrina sociale della Chiesa, e più precisamente la nozione di giustizia sociale: prevenire il formarsi di monopoli e garantire l'esigenza di un ampio numero di aziende di medie dimensioni. Ben prima che la seconda guerra mondiale finisse, un gruppo di economisti, giuristi, sociologi e filosofi tedeschi cominciarono a pensare concretamente ad un possibile novus ordo; un ordine che avrebbe dovuto rimpiazzare il nazismo. Compresero con lucidità teorica che per ricostruire una società umana avrebbero dovuto pensare alla ragioni di un nuovo ordine politico, un nuovo ordine economico e un nuovo ordine morale-culturale.
"Che cos'è il liberalismo?", si domanda il nostro autore. "Esso è umanistico. Ciò significa: esso parte dalla premessa che la natura dell'uomo è capace di bene e che si compie soltanto nella comunità, che la sua destinazione tende al di sopra della sua esistenza materiale e che siamo debitori di rispetto ad ogni singolo, in quanto uomo nella sua unicità, che ci vieta di abbassarlo a semplice mezzo. Esso è perciò individualistico oppure, se si preferisce, personalistico". Dalla definizione di Röpke emerge una nozione di liberalismo che lo sgancia da un'idea dogmatica e rigida dello stesso, evidenziando i connotati di un pensiero umanistico, in quanto non condivide né l'idea pessimistica hobbesiana di un uomo per natura egoista, né quella ottimistica di Rousseau. Il liberalismo di Röpke fa proprio il principio caro alla tradizione dell'antiperfettismo e del realismo cristiano, di Agostino, di Pascal, di Rosmini, di Sturzo, fino ad arrivare a Giovanni Palo II, per il quale l'uomo, benché tenda verso il bene è pur sempre capace di male. Esso è personalistico, poiché "in conformità alla dottrina cristiana, per cui ogni anima umana è immediatamente dinanzi a Dio e rientra in lui come un tutto, la realtà ultima è la singola persona umana non già la società, per quanto l'uomo possa trovare il proprio adempimento soltanto nella comunità". Esso, inoltre, è antiautoritario, rendendo a Cesare quello che è di Cesare, ma riservando a Dio ciò che qualifica il suo rapporto con l'Assoluto: per il cristianesimo è la coscienza individuale che giudica il potere e non viceversa; esso, dunque, rifugge da ogni forma di nazionalismo, razzismo e imperialismo; in breve, è universale. Allora, il liberale per Röpke è "l'avvocato della divisione dei poteri, del federalismo, della libertà comunale, delle sfere indipendenti dello Stato, dei ‘corps intermédiaires' (Montesquieu), della libertà spirituale, della proprietà come forma normale dell'esistenza economica dell'uomo, della decentralizzazione economica e sociale, del piccolo e del medio, della gara economica e spirituale, dei piccoli stati, della famiglia, dell'universalità della Chiesa e dell'articolazione".
Per queste ragioni Röpke non condivide l'idea che si possa distinguere tra liberalismo, che disegna l'ambito politico e culturale, e liberismo, che delinea i confini dell'economico. Né tanto meno condivide l'idea che possa resistere a lungo un sistema che non coniughi la libera economia di mercato con istituzioni politiche liberali. In un testo che riecheggia tanto l'influenza di economisti quali Luigi Einaudi e F.A.v. Hayek, quanto quella di uno scienziato politico come Luigi Sturzo, per il quale la "libertà è integrale individuale e indivisibile", il nostro scrive "venendo meno la libertà economica – la quale si sostanzia non solo nella libertà dei mercati, ma anche nella proprietà privata – la libertà spirituale e politica perde le sue vere basi".
In questa prospettiva andrebbe considerato anche il suo profondo convincimento in ordine alla contiguità ideale tra liberalismo e cristianesimo. In uno dei suoi scritti più celebri afferma: "il liberalismo non è [...] nella sua essenza abbandono del Cristianesimo, bensì il suo legittimo figlio spirituale, e soltanto una straordinaria riduzione delle prospettive storiche può indurre a scambiare il liberalismo con il libertinismo. Esso incarna piuttosto nel campo della filosofia sociale quanto di meglio ci hanno potuto tramandare tre millenni del pensiero occidentale, l'idea di umanità, il diritto di natura, la cultura della persona e il senso dell'universalità". Per Röpke, l'eredità spirituale che il cristianesimo ha tramandato al liberalismo è rappresentata dalla difesa della dignità di ogni singola persona umana contro tutte le forme di statalismo. Il fatto che esistano correnti di pensiero che mettono in discussione tale eredità spirituale, sostenendo, sul versante religioso, l'incompatibilità del cristianesimo con il liberalismo e, sul versante laico, l'incompatibilità delle istituzioni liberali con la fede cristiana, sarebbe il frutto, rispettivamente, di un "moralismo ignorante" e di un "economismo ottuso": "Un moralismo dilettantistico nell'economia nazionale è altrettanto scoraggiante quanto un economicismo moralmente indifferente, e purtroppo il primo è diffuso quanto il secondo".
Il fallimento editoriale di Mises, la crisi della repubblica di Weimar e l'ascesa del nazionalsocialismo non impedirono la ricerca di una via tedesca al liberalismo da parte di un gruppo di studiosi, i quali, già durante gli anni del regime nazista, si raccolsero intorno alla guida del professor Walter Eucken. Detto gruppo assunse il nome di Scuola di Friburgo e la filosofia che la ispirava venne chiamata "ordoliberalismo", dal titolo della rivista "Ordo", fondata da Eucken nel 1940. Decisamente più critici di Adam Smith rispetto alla fede in una spontanea armonia che sarebbe dovuta scaturire dall'opera della "mano invisibile", gli ordoliberali, anche noti come i fautori della economia sociale di mercato (Soziale Marktwirtschaft), hanno contribuito in modo sostanziale all'evoluzione della teoria economica, ed in particolar modo a quella branca dell'economia che incontra il diritto, e del diritto che incontra l'analisi economica, avendo sostenuto l'idea che il sistema economico per esprimere al meglio le proprie funzioni produttive-allocative dovrebbe operare in conformità con una "costituzione economica" che lo Stato stesso pone in essere. Si tratta di una visione politico-economica che non ha nulla a che vedere con la pianificazione economica centralizzata o con una politica statale interventista. Per il semplice motivo che il ruolo dello Stato nell'economa sociale di mercato non è semplicemente quello di "guardiano notturno", tipico del liberalismo del laisser-faire, bensì è quello di uno "Stato forte" che si preoccupa di contrastare l'assalto contro il funzionamento del mercato da parte dei monopoli e dei cacciatori di rendite.
Tra gli studiosi che contribuirono all'elaborazione e alla diffusione dell'ordoliberalismo possiamo annoverare economisti come Alexander Rüstov e Wilhelm Röpke e giuristi come Hans Grossman-Dörth e Franz Böhm; questi ultimi condirettori insieme ad Eucken della rivista "Ordo".
Potremmo sintetizzare il contenuto della teoria politico-economica ordoliberale nell'affermazione che gli autori della Scuola di Friburgo riconoscevano il ruolo e la funzione dello stato e nel contempo erano strenui avversari di ogni forma di dirigismo. Intendiamo dire che per la teoria ordoliberale il mercato è un sistema di relazioni che necessita di essere organizzato giuridicamente dallo stato e che lo stato non dovrebbe in alcun modo modificare i risultati che provengono dai processi di mercato. In questa prospettiva, gli ordoliberali, nell'ambito delle politiche economiche internazionali, si espressero a favore delle liberalizzazioni degli scambi e, di conseguenza, avversarono tutte quelle politiche creditizie e fiscali che a loro avviso avrebbero potuto incentivare le concentrazioni di capitale. Riguardo alla politica economica interna, si mostrarono estremamente scettici nei confronti dell'interventismo di stato nel campo sociale ed evidenziarono gli effetti deresponsabilizzanti sulla condotta individuale di un atteggiamento paternalistico da parte dello stato.
La Scuola di Friburgo parte dall'ipotesi che "l'ordine di mercato è un ordine costituzionale, cioè un ordine caratterizzato da un quadro istituzionale che, come tale, è questione di scelte costituzionali (esplicite o implicite). è una Scuola i cui rappresentanti suppongono che i processi di mercato funzioneranno bene o male in ragione della natura del quadro giuridico e istituzionale all'interno del quale essi si situano, e che la questione di sapere quali regole debbano o non debbano figurare in questo quadro è un affare di scelte istituzionali tenendo conto dei vantaggi rispettivi di ciascuna delle scelte possibili".
Il contributo più originale dell'"ordoliberalismo" è stato di aver aggredito le problematiche del mercato concorrenziale a partire da un approccio istituzionale. Gli "ordoliberali" hanno colto l'idea che l'ordine concorrenziale è di per sé un "bene pubblico" e in quanto tale andrebbe tutelato. La scuola di Friburgo ci aiuta a comprendere che esiste una dimensione istituzionale nel paradigma liberale, dimensione negata o, quanto meno, assente in gran parte della letteratura liberale di matrice libertaria, accecata dall'idea che possa esistere un "mercato non intralciato". Il programma di ricerca degli "ordoliberali" ha incentrato l'attenzione sul fatto che l'idea liberale di una società libera è un'idea costituzionale, che necessita di una formalizzazione costituzionale.
Tale prospettiva costituzionalista relativa al mercato – insiste Vanberg – "avvicina la tradizione di ricerca della Scuola di Friburgo al programma di ricerca in economia politica istituzionale di recente elaborato da James Buchanan". Il premio Nobel per l'Economia ha universalizzato l'ideale liberale di cooperazione volontaria, trasferendolo dall'ambito delle scelte di mercato a quello delle scelte istituzionali, mostrando "come il paradigma liberale classico, tradizionalmente applicato alla libertà di scelta sui mercati possa venir esteso alla libertà di scelta delle istituzioni, Così facendo, Buchanan ha completato su un punto capitale i suoi predecessori della Scuola di Friburgo".
L'umanesimo liberale – Wilhelm Röpke
È opinione diffusa presso gli storici che alla base del cosiddetto "miracolo economico" tedesco ci sia la scelta di Erhard di promuovere, contro il volere delle truppe di occupazione angloamericane, la liberalizzazione dei prezzi.
Tra gli autori che hanno maggiormente contribuito all'elaborazione teorica dell'economia sociale di mercato, troviamo indubbiamente Wilhelm Röpke. Con Röpke, secondo la terminologia che fu di Oppenheimer ed in parte di Erhard, la dottrina economico-sociale della Scuola di Friburgo assunse la collocazione di "terza via", tra un liberalismo nella versione del laissez faire e il collettivismo socialista. La "terza via" di Röpke condurrebbe ad un'economia imprenditoriale basata sul "libero mercato" e non sul "mero capitalismo", che, per il nostro autore, si distingue dal libero mercato per la sua tendenza – no necessità – a risolversi in meccanismi anticoncorrenziali, favorendo la nascita di monopoli, di cartelli e l'abuso di posizione dominante. Per questa ragione, il liberalismo di Röpke ammette l'intervento pubblico, a condizione che sia "conforme" alle leggi di mercato, non sopprimendone l'autonomia. Prevede, altresì, una "politica strutturale", in grado di assicurare la conformità del sistema economico con i fini dell'organizzazione sociale e politica.
Con particolare riferimento alla riflessione socio-economica, lo specifico apporto di Wilhelm Röpke è consistito nel tentativo di elaborare una nuova teoria dell'ordinamento sociale, il cui sistema prese il nome di Ordotheorie o Ordoliberalismus, e più tardi venne chiamato "economia sociale di mercato". Primogeniture a parte, "Con l'espressione ‘economia sociale di mercato' si vuole caratterizzare una economia di mercato che soddisfi anche le esigenze di giustizia. In definitiva, Röpke considerava l'economia di mercato una condizione necessaria per lo sviluppo di una società che fosse degna dell'uomo, che in forza della libera iniziativa sviluppasse le attitudini proprie di ciascuna persona, che rendesse possibile lo sviluppo economico integrale, di un uomo a tutto tondo. In breve, un sistema economico che necessariamente deve fare i conti con alcuni "indispensabili meccanismi", che rappresentano nel contempo gli "attributi" e le "ragioni" dell'"economia di mercato". Si tratta della personale aspirazione al profitto; del perseguimento dei propri fini, un'attitudine che richiede la promozione della libertà; della concorrenza tra differenti ed alternative idee e strategie imprenditoriali; del diritto alla proprietà privata; della funzione imprenditoriale come processo creativo; del reddito derivante dall'uso imprenditoriale dei capitali; della speculazione, intesa come processo di scoperta esposto al rischio di un futuro incerto. Per Röpke, chi opera per una società libera non può non sostenere l'economia di mercato e, di conseguenza, non può non accettare tali strumenti.
I punti programmatici fondamentali dell'economia sociale di mercato che, almeno nella versione dei suoi padri fondatori, intende essere un'economia di mercato che si attiene a "condizioni quadro", si possono sintetizzare nel seguenti argomenti: un severo ordinamento monetario; un credito conforme alle norme di concorrenza; la regolamentazione della concorrenza per scongiurare la formazione di monopoli; una politica tributaria neutrale rispetto alla concorrenza; una politica che eviti sovvenzioni che alterino la concorrenza; la protezione dell'ambiente, l'ordinamento territoriale; la protezione dei consumatori da truffe negli atti d'acquisto. In definitiva, i sostenitori dell'economia sociale di mercato furono strenui critici tanto della concentrazione del potere economico e politico, quanto dello sfrenato antagonismo e l'esasperata frammentazione degli interessi. La lotta di Röpke si giocò su due fronti: "contro il collettivismo" e "contro il liberalismo bisognoso di una fondamentale revisione".
Sulla base di quanto affermato, ne deduciamo che per i fautori dell'economia sociale di mercato, ed in particolare per Röpke, esisterebbe intervento statale ed intervento statale , un intervento coerente con la "soluzione hobbesiana" che sfocia in forme più o meno burocratiche di "paternalismo di stato" ed un intervento, coerente con il principio di sussidiarietà orizzontale, oltre che verticale, che chiama in causa il dinamismo spontaneo dei corpi intermedi, i quali danno forma e sostanza alla società civile. Ne consegue che per Röpke non tutti i programmi statali sono identici. Il modello di welfare society ispirato al principio di sussidiarietà incontra l'analisi compiuta dagli autori dell'economia sociale di mercato sul terreno dei cosiddetti "interventi conformi". è stato A. Röstow a coniare la formula apparentemente ossimorica di "interventismo liberale", in quanto orientato da due criteri definiti "decisivi" dalla stesso Röpke: la distinzione tra "interventi conservativi" e "interventi di adeguamento". Il secondo criterio – propriamente röpkiano – riguarda il grado di conformità dell'intervento alla natura dell'ordine economico. L'ordine economico al quale Röpke pensava era stato delineato dallo stesso autore in Civitas humana nei seguenti punti: 1. Costituzione di un vero ordine di concorrenza (politica antimonopolistica); 2. politica economica positiva (contro il laissez faire), così declinata: a. politica di cornice; b. politica di mercato (interventismo liberale); c. interventi di adeguamento contro interventi di conservazione; d. interventi conformi contro interventi non conformi; 3. politica di struttura economico-sociale (adeguamento, decentramento, "umanesimo economico"); 4. politica sociale.
Rileviamo che per Röpke, "conforme" non è sinonimo di "raccomandabile". Egli intende per "conforme" quegli interventi dello stato che non sopprimono la "meccanica dei prezzi", e "l'autogoverno del mercato", ma che al contrario si inseriscono in esso, offrendosi come "nuovi dati", e che possono essere assimilati dallo stesso mercato. Non conformi saranno quegli interventi che distruggono la meccanica dei prezzi, sostituendola con "un ordine economico programmatico cioè collettivo". La distinzione di Röpke tra interventi conformi e interventi non conformi sposta l'attenzione da un criterio meramente quantitativo ad uno di tipo qualitativo, ciò significa che in linea di principio non si pone alcun limite quantitativo all'intervento dello stato, ma che si escludono in modo assoluto alcuni tipi: "Noi sentiamo vivo il bisogno di superare il puro criterio quantitativo e ricercare una linea divisoria nella ‘qualità' dell'intervento stesso". Il carattere conforme di un intervento non è ancora sufficiente a renderlo raccomandabile. Secondo Röpke, questi interventi dovrebbero essere "ben dosati e studiati". Resta l'importanza della distinzione conforme/non conforme in quanto evidenzia quali interventi sono per loro natura distruttivi dell'economia di mercato e quali, se ben dosati e studiati, possono essere assorbiti dal mercato e migliorarne il funzionamento dello stesso. Esempi di interventi conformi sono la svalutazione monetaria e la politica dei dazi protettivi, mentre esempi di interventi non conformi sono la calmierazione dei fitti, il controllo dei cambi e il contingentamento delle importazioni. Questi ultimi distruggerebbero il meccanismo che regola la formazione dei prezzi.
Il secondo pilastro sul quale poggia la teoria economica di Röpke è la distinzione tra interventi di conservazione e interventi di adeguamento ovvero di assestamento. Come nel caso della distinzione tra interventi conformi e non conformi, anche in merito a questa seconda distinzione, Röpke intende andare oltre i dogmi del laissez-faire e del tradizionale interventismo, tesi a mantenere inalterati gli assetti economici. Contro coloro che pretendono l'assoluta astensione dello stato di fronte alle crisi di assestamento del mercato e contro coloro che considerano l'intervento dello stato uno strumento per proteggere dall'estinzione aziende improduttive, Röpke propone la sua "terza via": "non nel ‘laissez-faire' e non nell'‘intervento conservativo' […]. In luogo di controbattere la tendenza verso un nuovo equilibrio, ricorrendo a sovvenzioni e simili, come nel caso dell'‘intervento conservativo', l'‘intervento di assestamento' vuole accelerare e facilitare il raggiungimento di questo equilibrio, allo scopo di evitare perdite e difficoltà o di limitare al minimo possibile. Un tale intervento […] ha in comune col principio del laissez-faire la meta finale, ma questa deve essere conseguita con la collaborazione di tutti coloro che non sono colpiti […]. Anziché lasciare al ramo di produzione costretto a trasformarsi – come faceva il vecchio liberalismo – la ricerca di nuove strade, l'interventismo mirante all'assestamento vuole occuparsene con piani di trasformazione, crediti, cambiamenti di indirizzo e altri mezzi congrui". Tenendo ferma l'idea che l'economia liberista è quella nella quale ciò che conta è la forza economica dei privati e l'economia collettivista è quella ove conta la forza dell'economia collettiva, l'economia sociale di mercato le esclude entrambe ed intravede nella forza equilibratrice delle regole, ossia, della costituzione economica, lo strumento per garantire che il principio di concorrenza non ceda alla brama dei privati ovvero alla brama onnivora del pubblico.
Il personalismo liberale di Röpke
I sostenitori della Soziale Marktwirtschaft tedesca impararono presto l'amara lezione impartita dalla veloce salita al potere di Hitler, e fecero propri un principio fondamentale dell'allora dottrina sociale della Chiesa, e più precisamente la nozione di giustizia sociale: prevenire il formarsi di monopoli e garantire l'esigenza di un ampio numero di aziende di medie dimensioni. Ben prima che la seconda guerra mondiale finisse, un gruppo di economisti, giuristi, sociologi e filosofi tedeschi cominciarono a pensare concretamente ad un possibile novus ordo; un ordine che avrebbe dovuto rimpiazzare il nazismo. Compresero con lucidità teorica che per ricostruire una società umana avrebbero dovuto pensare alla ragioni di un nuovo ordine politico, un nuovo ordine economico e un nuovo ordine morale-culturale.
"Che cos'è il liberalismo?", si domanda il nostro autore. "Esso è umanistico. Ciò significa: esso parte dalla premessa che la natura dell'uomo è capace di bene e che si compie soltanto nella comunità, che la sua destinazione tende al di sopra della sua esistenza materiale e che siamo debitori di rispetto ad ogni singolo, in quanto uomo nella sua unicità, che ci vieta di abbassarlo a semplice mezzo. Esso è perciò individualistico oppure, se si preferisce, personalistico". Dalla definizione di Röpke emerge una nozione di liberalismo che lo sgancia da un'idea dogmatica e rigida dello stesso, evidenziando i connotati di un pensiero umanistico, in quanto non condivide né l'idea pessimistica hobbesiana di un uomo per natura egoista, né quella ottimistica di Rousseau. Il liberalismo di Röpke fa proprio il principio caro alla tradizione dell'antiperfettismo e del realismo cristiano, di Agostino, di Pascal, di Rosmini, di Sturzo, fino ad arrivare a Giovanni Palo II, per il quale l'uomo, benché tenda verso il bene è pur sempre capace di male. Esso è personalistico, poiché "in conformità alla dottrina cristiana, per cui ogni anima umana è immediatamente dinanzi a Dio e rientra in lui come un tutto, la realtà ultima è la singola persona umana non già la società, per quanto l'uomo possa trovare il proprio adempimento soltanto nella comunità". Esso, inoltre, è antiautoritario, rendendo a Cesare quello che è di Cesare, ma riservando a Dio ciò che qualifica il suo rapporto con l'Assoluto: per il cristianesimo è la coscienza individuale che giudica il potere e non viceversa; esso, dunque, rifugge da ogni forma di nazionalismo, razzismo e imperialismo; in breve, è universale. Allora, il liberale per Röpke è "l'avvocato della divisione dei poteri, del federalismo, della libertà comunale, delle sfere indipendenti dello Stato, dei ‘corps intermédiaires' (Montesquieu), della libertà spirituale, della proprietà come forma normale dell'esistenza economica dell'uomo, della decentralizzazione economica e sociale, del piccolo e del medio, della gara economica e spirituale, dei piccoli stati, della famiglia, dell'universalità della Chiesa e dell'articolazione".
Per queste ragioni Röpke non condivide l'idea che si possa distinguere tra liberalismo, che disegna l'ambito politico e culturale, e liberismo, che delinea i confini dell'economico. Né tanto meno condivide l'idea che possa resistere a lungo un sistema che non coniughi la libera economia di mercato con istituzioni politiche liberali. In un testo che riecheggia tanto l'influenza di economisti quali Luigi Einaudi e F.A.v. Hayek, quanto quella di uno scienziato politico come Luigi Sturzo, per il quale la "libertà è integrale individuale e indivisibile", il nostro scrive "venendo meno la libertà economica – la quale si sostanzia non solo nella libertà dei mercati, ma anche nella proprietà privata – la libertà spirituale e politica perde le sue vere basi".
In questa prospettiva andrebbe considerato anche il suo profondo convincimento in ordine alla contiguità ideale tra liberalismo e cristianesimo. In uno dei suoi scritti più celebri afferma: "il liberalismo non è [...] nella sua essenza abbandono del Cristianesimo, bensì il suo legittimo figlio spirituale, e soltanto una straordinaria riduzione delle prospettive storiche può indurre a scambiare il liberalismo con il libertinismo. Esso incarna piuttosto nel campo della filosofia sociale quanto di meglio ci hanno potuto tramandare tre millenni del pensiero occidentale, l'idea di umanità, il diritto di natura, la cultura della persona e il senso dell'universalità". Per Röpke, l'eredità spirituale che il cristianesimo ha tramandato al liberalismo è rappresentata dalla difesa della dignità di ogni singola persona umana contro tutte le forme di statalismo. Il fatto che esistano correnti di pensiero che mettono in discussione tale eredità spirituale, sostenendo, sul versante religioso, l'incompatibilità del cristianesimo con il liberalismo e, sul versante laico, l'incompatibilità delle istituzioni liberali con la fede cristiana, sarebbe il frutto, rispettivamente, di un "moralismo ignorante" e di un "economismo ottuso": "Un moralismo dilettantistico nell'economia nazionale è altrettanto scoraggiante quanto un economicismo moralmente indifferente, e purtroppo il primo è diffuso quanto il secondo".