domenica 16 aprile 2017

I nostri auguri di una Santa Pasqua

Principio di realtà. La fede in un certo falegname galileo, di nome Gesù, morto e risorto a Gerusalemme «sotto Ponzio Pilato» – ossia in una piccola provincia dell’Impero, governata da un piccolo funzionario dell’amministrazione romana – è stata molto efficace nel farmi rimettere i piedi per terra. Questa fede è troppo circostanziata per permetterci voli tra le astrazioni delle “scienze” o delle “spiritualità”. Il fatto della Resurrezione, soprattutto, è un principio di realtà molto severo. Coloro che vi hanno creduto erano pescatori che sapevano riparare le loro reti, muratori capaci di costruire cattedrali, monaci abili nel dissodare e arare i campi, vale a dire persone estremamente pratiche e concrete. Credere al Risorto era per loro solido come piantare del grano o costruire una basilica romanica. E anche più solido, perché si appoggiavano su questa fede per erigere la volta e il crinale del tetto. (F. Hadjadj, Risurrezione. Istruzioni per l’uso, pp. 6-7)

Tutta la scienza, anche la scienza divina, è una sublime storia gialla. Solo che non è impostata per rivelare perché un uomo sia morto, ma il segreto più oscuro del perché egli viva. (G. K. Chesterton, La mia fede)

Ogni tentativo di amplificare questa storia la diminuisce. Si sono cimentati molti uomini di vero genio ed eloquenza come altri troppo sentimentali e volgari retori. La storia è stata ripetuta con caldo pathos da scettici eleganti e con entusiasmo da rumorosi venditori di fumo. Qui non la ripeteremo. La potenza schiacciante delle semplici parole del Vangelo è come la potenza di una macina da mulino; e coloro che possono leggerla con sufficiente semplicità sentiranno come le rocce rotolare sopra di loro. La critica non sono che parole sulle parole: ma a che servono le parole su parole come queste? A che servono le parole scultoree in un oscuro giardino improvvisamente pieno di torce luminose e di volti infuriati? «Perché venite con spade e con bastoni come contro un ladro? Ogni giorno ero con voi nel tempio e non avete steso le mani contro di me». C’è qualche cosa da aggiungere alla forza massiccia e raccolta di quell'ironia, simile a una grande onda che si levi verso il cielo e rifiuti di cadere? «Figlie di Gerusalemme, non piangete su di me, piangete su voi stesse e sui vostri figli». Come il Gran Sacerdote si chiese quale altro bisogno ci fosse di testimonianze, noi possiamo ben domandarci quale altro bisogno ci sia di parole. Pietro nel panico lo ripudiò «e immediatamente il gallo cantò, e Gesù guardò Pietro, e Pietro uscì e pianse amaramente». C’è chi ha da offrire qualche postilla? Proprio quando stanno per assassinarlo, Egli prega per tutta la razza omicida degli uomini, dicendo: «Essi non sanno quello che fanno». C’è altro da dire in proposito, se non che noi sappiamo poco anche di quello che diciamo? C’è bisogno di ripetere e di segnalare la storia di come la tragedia si svolse per la Via Dolorosa? Come lo trascinarono assieme ai due ladroni in uno dei consueti luoghi di esecuzione, e come in tutto quell'orrore e in quella terrificante desolazione una sola voce di omaggio si levò, una voce che proveniva dall'ultimissimo luogo donde si poteva aspettarsela, il patibolo di un criminale. Ed Egli rispose a quell'ignoto marrano: «Questa notte tu sarai con me in paradiso»? C’è da aggiungere altro che un punto fermo? O c’è qualcuno pronto a rispondere adeguatamente a quel fermo gesto di addio a tutto il genere umano, col quale Egli creò per sua Madre un nuovo Figlio?

Tutte le forze umane che sono state vagamente tratteggiate in questa storia sono in quella scena simbolicamente raccolte. Come i re e i filosofi e l’elemento popolare sono stati simbolicamente presenti alla Sua nascita, così sono più praticamente coinvolti nella Sua morte; e con ciò noi ci troviamo di fronte al fatto essenziale di cui dobbiamo renderci conto. Tutti i gruppi che erano ai piedi della Croce rappresentano in un modo o nell'altro la grande verità storica del tempo: il mondo non poteva salvarsi. L’uomo non poteva fare di più. Roma e Gerusalemme e Atene e tutto il resto andavano giù come mare che si rovescia in una lenta cataratta. Esternamente il mondo antico era al colmo della forza: è sempre quello il momento in cui la debolezza interna comincia a manifestarsi. Ma per capire quella debolezza dobbiamo ripetere quel che si è detto più di una volta: che non era la debolezza di una causa originariamente debole. Era la forza del mondo che era diventata debolezza e la saggezza del mondo che era diventata follia.

In questa storia del Venerdì Santo le migliori cose del mondo sono colte nel loro punto peggiore. Il mondo ci è mostrato nel punto peggiore. C’erano, per esempio, i preti di un vero monoteismo e i soldati di una civiltà internazionale. La Roma leggendaria, fondata su Troia caduta e trionfante sulla caduta di Cartagine, era rimasta in piedi per un eroismo che fu nel mondo pagano quel che più si avvicinò alla cavalleria. Roma aveva difeso gli dei Lari e la dignità umana contro gli orchi africani e contro le mostruosità ermafrodite della Grecia. Ma alla luce abbagliante di questo episodio, noi vediamo la grande Roma, la repubblica imperiale, abbattersi sotto il suo fato lucreziano. Lo scetticismo aveva divorato persino la fiduciosa sanità dei conquistatori del mondo. Colui che troneggiava per rendere giustizia sapeva solo domandarsi: «Che cosa è la verità?» […]. L’uomo non poteva fare di più. Anche il pratico era divenuto non pratico. Seduto tra i pilastri del suo seggio, il giudice romano si era lavato le mani del mondo.

C’erano anche i sacerdoti di quella pura e originale verità che stava dietro e al di sopra di tutte le mitologie, come il cielo dietro le nuvole. Era la più importante verità del mondo: ma nemmeno quella poteva salvare il mondo. Forse c’è qualcosa di ultrapotente nel puro teismo personale. Forse la verità è troppo tremenda quando non è interrotta da qualche intermediario, divino o umano; forse è semplicemente troppo pura e lontana. Comunque esso non poteva salvare il mondo, e nemmeno convertire il mondo. C’erano i filosofi che sostenevano quel teismo nella più alta e nobile forma, ed essi non solo non poterono convertire il mondo, ma neanche ci provarono […]. I sacerdoti ebraici l’avevano custodito gelosamente in un buono e in un cattivo senso. L’avevano custodito come un gigantesco segreto. Come qualche eroe selvaggio poteva racchiudere il sole in una scatola, essi conservavano l’Eterno nel tabernacolo. Erano orgogliosi di poter essi soli mirare il sole accecante di un’unica deità, e non sapevano di essere divenuti ciechi anche loro. Da quel giorno i loro rappresentanti sono stati come ciechi nella piena luce del sole, a dar colpi a destra e a sinistra con le loro verghe, e a maledire la tenebra. Ma c’è stato questo nel loro monumentale monoteismo: che perlomeno esso è rimasto come un monumento, l’ultima cosa del genere, immobile nel mondo più irrequieto, a cui non poteva bastare. Poiché è certo che per qualche ragione non poteva bastare. Da quel giorno non bastò più dire che Dio è nel cielo e che tutto va bene nel mondo; onde la voce che Dio aveva lasciato il cielo per rimettere a posto il mondo.

E come si corrompevano e dissolvevano istituzioni che erano buone, o almeno una volta erano state buone, lo stesso può dirsi dell’elemento che era forse il migliore, o che Cristo stesso certamente giudicava il migliore. I poveri, ai quali Egli predicava la buona novella, la genterella che lo ascoltava con piacere, il popolaccio che si era fatto tanti eroi popolari e semidei nel vecchio mondo pagano: anch'essi mostravano tutte le debolezze che stavano mandando il mondo alla rovina […]. Qualche brigante, o simile, fu artificiosamente cambiato in una figura pittoresca e popolare, e passò per una specie di candidato contro Cristo. Ma c’era di più, nella popolazione di allora, un male peculiare al mondo antico; un male che abbiamo già notato come la negligenza dell’individuo, anche dell’individuo che vota la condanna e più ancora dell’individuo condannato. Era l’anima della società pagana. Il grido di quest’anima si udì in quell'ora: «È bene che un uomo muoia per il popolo». Eppure nell'antichità anche questo spirito di devozione alla città e allo Stato era stato per se stesso e a suo tempo una cosa nobile. Ebbe i suoi poeti e i suoi martiri: uomini degni di essere onorati per sempre […]. La folla andava dietro ai sadducei e ai farisei, ai filosofi e ai moralisti. Andava dietro ai magistrati imperiali, ai sacerdoti, agli scribi e ai soldati: lo spirito umano unico e universale doveva soffrire una condanna universale; doveva esserci un unico, profondo e unanime coro di approvazione e di armonia quando l’Uomo fu reietto dagli uomini.

C’erano solitudini al di là dell’inaccessibile. C’erano segreti nella più profonda e invisibile parte di quel dramma che non trovano alcuna traduzione in parole, alcuna spiegazione nell’appartarsi di un uomo dagli uomini. Né è facile, in parole meno semplici e rigide di quelle della nuda narrazione, intravedere l’orrore di esaltazione che si levò sopra il colle. Infiniti tentativi non ne sono venuti a capo. E se c’è un suono che possa produrre un silenzio, ci vorrebbe quello per rappresentarci il silenzio della fine e dei momenti estremi: quando un grido ruppe la tenebra in parole paurosamente distinte e paurosamente intellegibili, che l’uomo non capirà mai in tutta l’eternità che esse hanno conquistato per lui; e per un istante di annichilimento un abisso impensabile si era aperto anche nell'unità dell’assoluto; e Dio era stato abbandonato da Dio.

Essi deposero il corpo dalla croce, e uno dei pochi ricchi tra i primi cristiani ottenne il permesso di seppellirlo in una tomba di pietra nel suo giardino: i Romani misero una guardia militare che prevenisse qualche gazzarra o il tentativo di impadronirsi del corpo. Anche questi ovvi procedimenti contenevano un simbolo: era bene che la tomba fosse sigillata con tutto il segreto delle antiche sepolture orientali e guardata dall'autorità dei Cesari. Perché in quella seconda caverna tutta la grande e gloriosa umanità, che noi chiamiamo antichità, era raccolta e racchiusa, e il quel luogo fu sepolta. Era la fine di quella grandissima cosa che si chiama storia umana: della storia che fu semplicemente umana. Le mitologie e le filosofie furono colà seppellite, insieme con gli dei e gli eroi e i sapienti. Ma come potevano vivere, così potevano morire. Ed erano morti.

Al terzo dì, gli amici di Cristo vennero sul far del giorno a quel luogo e trovarono una tomba vuota e una pietra sepolcrale rotolata da un lato. Si resero conto in varia guisa del nuovo miracolo, ma non capirono che un mondo era morto in quella notte. Quel che essi vedevano era il primo giorno di una nuova creazione, con un nuovo cielo e una nuova terra: e nelle sembianze di un giardiniere Dio camminava nuovamente nel giardino, nel fresco non di una sera, ma di un’alba. (G. K. Chesterton, L’uomo eterno, pp. 259-264)

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