martedì 21 marzo 2017

Obice: Gli interrogativi che provocano il suicidio assistito e il tentativo di legalizzarlo

Da poco è iniziato presso il parlamento l'esame del ddl sul fine vita/dat-dichiarazioni anticipate di trattamento, ai primi di marzo Fabiano Antoniani, in arte dj Fabo, è stato accompagnato dal radicale Cappato per ricevere la morte in una clinica svizzera. Fatto accaduto poco prima dell'esame parlamentare, nel tentativo di influenzarlo, al fine di trasformare le dat in vere e proprie apripista dell'eutanasia. Cosa confermata dai promotori del ddl sul fine vita, i quali hanno un obiettivo preciso, chiarito da radicale Marco Cappato, tesoriere dell'Associazione Luca Coscioni, sulle pagine di Repubblica: “Il vero passaggio sarà definire l'obbligo dei medici nel rispettare la volontà del paziente ed evitare ad ogni caso i tribunali”. In questo modo non solo si manda a quel paese il giuramento di Ippocrate, l'articolo 32 della Costituzione, bensì anche l'eventuale ripensamento del paziente.

Detto fra noi: vedere un radicale amante della libertà senza limiti, libertino e anarchico, così poco attento a non soddisfare la volontà delle persone, anche quando si contraddicono, è proprio un controsenso.

Tornando alle questioni principali, la prima delle quali riguarda il già citato Fabiano Antoniani. Non merita di essere condannato, perché è una vittima. Da condannare sono l'associazione Luca Coscioni - guardate il video ove “cercano malati terminali”, una vergogna che grida vendetta! - e il partito radicale, che hanno convinto lui e la sua famiglia che suicidarsi è un diritto e un bene. Lo hanno usato per influenzare negativamente la discussione sulle dat. Sono da condannare le cliniche svizzere ove è possibile ricevere la morte e con essa mantenere un bio-business, che "vive" mentre uomini veri muoiono; condannare i politici i giornalisti e gli intellettuali alla Saviano, ché strumentalizzano la morte di Fabiano per trasformare definitivamente la "dat" in eutanasia. Insomma, così l'umanità non fa un passo avanti, ma torna indietro, molto indietro, prima del 33 d.C., quando le persone (malate e non) erano considerate oggetti... nulla.

Di fronte ad uno scenario di questo tipo torna alla mente il romanzo distopico La morte moderna di Carl-Henning Wijkmark; egli immaginò un futuro in cui la dolce morte fosse intesa come il rimedio più efficace per sfatare quel vecchio tabù che si chiama rispetto dell'esistenza umana. Non ci siamo ancora, ma quasi. Se mettiamo in fila le tappe che hanno contraddistinto in questi anni l'introduzione delle pratiche eutanasiche in stati come Oregon, Washigton, Olanda, Belgio, vedremo dipanarsi un filo che, partito con la richiesta di intervenire su casi rari e terminali, s'è sfilacciato sempre più verso un'interpretazione fumosa di che cosa significhi ciclo vitale completo. E, ovviamente, in questo grande inganno libertario, i primi a farne le spese sono stati i deboli: depressi, vecchi, down, bambini. Wijkmark terminava il suo romanzo immaginando che un giorno la morte sarebbe diventata produttiva, coi morituri inseriti in un programma di riciclo per la creazione di medicinali, concimi e mangimi.

Ma per quanto il male possa essere forte, mai riuscirà a negare che l'uomo è fatto per compiere il bene: in ogni momento può tornare indietro e bloccare la deriva antropologica in atto.

Dunque, vale la pena porsi ancora queste domande: se uno non ce la fa più, è libero di uccidersi? A prescindere dalla legge: uccideremmo uno che non ce la fa più? A riguardo della legge: uno è libero di uccidersi quando vuole. Per esempio buttarsi da un ponte se gli muore un figlio. Ma la sua scelta sbagliata non può diventare un diritto esigibile presso lo stato. Ovviamente, è una provocazione, e si continua a desiderare che nessuno faccia quella scelta.

Se di fronte ad una persona disperata, che non vuole più vivere, pensiamo che sia giusto che metta fine alla sua vita con l'eutanasia (frutto della neolingua per nascondere “suicidio assistito"), perché il soffrire non rende la vita umana degna di essere vissuta, allora ognuno potrà avere diverse situazioni in cui la vita è intollerabile. Per esempio, uno potrebbe decidere che la sua vita è finita poiché il compagno di una vita lo ha abbandonato per un'altra. O se un figlio muore; o se ha perso tutti i risparmi di una vita perché la banca lo ha imbrogliato.

Nasce spontanea la domanda: chi decide quando una condizione personale fa diventare una vita intollerabile? Solo la persona stessa può stabilirlo. E se poi le persone dovessero essere manipolate, come il Belgio e l'Olanda, paesi all'avanguardia per le leggi eutanasiche, ci ricordano: la vicenda di Marcel Ceuleneur docet; uccisa in Belgio senza che neanche fosse malata, ma plagiata da un medico: rivolgersi a un tribunale è stato inutile, non ha avuto giustizia, ma la storia è raccontata in un terrificante documentario. Purtroppo, una delle tante storie terribili. Nonostante siano paesi in cui costantemente si rassicura che “non mancano l'esperto indipendente, l'equipe di boni viri, la commissione incaricata di vagliare puntigliosamente le richieste di suicidio. E ogni volta questa “perfezione” viene meno. Ad ogni modo, l'occidente attraverso i media le istituzioni ogni giorno si presenta come una civiltà disumana, della morte.

Le leggi sull'eutanasia sono molto pericolose, possono trasformare in maniera terrificante la dimensione tragica ma umanamente suprema del momento della morte, possono desacralizzarla e portarla in un territorio brutale di calcolo costi-benefici. Ma se rifiutiamo ciò e accettiamo il nefasto criterio di cui sopra, vuol dire che siamo pronti a vivere in una società in cui ci si può far uccidere on-demand. Voi ci vorreste vivere? Io personalmente no. Diciamoci la verità. L'eutanasia non è un problema di sofferenze fisiche, la scienza le ha sconfitte. Il dolore è sconfitto. L'eutanasia adesso è il diritto a morire quando voglio, quando penso che non vale più la pena vivere, per motivi personali. Le condizioni per cui la vita può diventare intollerabile, possono essere le più diverse, e sono indubbiamente soggettive. Ma ci rendiamo conto di che società rischia di venir fuori e che in Altri Paesi si sta rafforzando? Questo è il punto. Riflessioni di un cattolico, certo, ma credo che possano essere accettate e condivise anche dai non credenti, perché frutto della ragione; purché essi non siano ideologicamente prevenuti.

Qualcosa di cattolico, ora sì, vorrei rivolgere ai miei fratelli che alla Hans Kung provano qualche simpatia per la tentazione dell'eutanasia. Leggiamo cosa dice il Catechismo:

2280 Ciascuno è responsabile della propria vita davanti a Dio che gliel'ha donata. Egli ne rimane il sovrano Padrone. Noi siamo tenuti a riceverla con riconoscenza e a preservarla per il suo onore e per la salvezza delle nostre anime. Siamo amministratori, non proprietari della vita che Dio ci ha affidato. Non ne disponiamo.

2281 Il suicidio contraddice la naturale inclinazione dell'essere umano a conservare e a perpetuare la propria vita. Esso è gravemente contrario al giusto amore di sé. Al tempo stesso è un'offesa all'amore del prossimo, perché spezza ingiustamente i legami di solidarietà con la società familiare, nazionale e umana, nei confronti delle quali abbiamo degli obblighi. Il suicidio è contrario all'amore del Dio vivente.

2282 Se è commesso con l'intenzione che serva da esempio, soprattutto per i giovani, il suicidio si carica anche della gravità dello scandalo. La cooperazione volontaria al suicidio è contraria alla legge morale. (Per Marco Cappato e coloro che lo vedono come un “eroe”).

Non dimenticare questi punti è trovare l'aiuto prezioso per non cadere vittima delle sirene del mondo, le quali desiderano la caduta e la fine dell'umano, quindi dell'uomo.

Il dibattito sul “diritto alla morte” ci ponte di fronte a tale realtà, che vale sia per i credenti che per chi non lo è: dobbiamo decidere come guardare a noi stessi e agli altri. Dobbiamo decidere se la vita è un dono, che è il punto di partenza della nostra civiltà, o un problema da risolvere. In questo caso c’è solo una risoluzione vera al problema della vita: la morte. Però, per quello che sappiamo non possiamo e non dobbiamo arrenderci ad essa.

A Fabiano avremmo dovuto dire di avere fiducia e che anche stando su quel letto avrebbe potuto ancora scoprire tantissime meraviglie. Sì, e solo perché Cristo ci ha mostrato che il male non ha mai l'ultima parola. Ora, preghiamo per Fabiano, chiedendo a Dio che la sua anima non si sia dannata.

Ciò è quanto Don Antonio Surighi, parroco della parrocchia di Sant'Ildefonso a Milano, avrebbe dovuto ricordare a Fabiano e alla sua famiglia; e non fare semplicemente la cerimonia in memoria del ragazzo. Non basta una cerimonia per far riscoprire il senso della vita, ci vuole la presenza cristiana, sacerdotale e laica, ogni giorno e in tutti gli ambienti della vita umana. La nostra missione ci impedisce di stare fermi e di non intervenire quando il mondo diviene troppo buio. Il caso di dj Fabo ci renda vigili e ci sproni a non dimenticare chi ha bisogno. Saremo giudicati per ciò. Lo ricordiamo: “Tutto quello che avete fatto a uno di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me”. (Matteo, 25,40).

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