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sabato 10 settembre 2016
venerdì 9 settembre 2016
Lettera dal fronte: La nuova dipendenza dell'Irlanda dalle corporazioni che "sfuggono" al fisco
You can find the original english version in "Letter from the front: Ireland's new dependency on tax avoiding corporations"
Di John Waters
Per sua gentile concessione. Questo articolo, in origine, fu pubblicato tre anni fa nella posta dell'Irish Sunday, acquisisce una rinnovata chiarezza sulla scia del recente ordine della Commissione europea, che condanna Apple a pagare un risarcimento fiscale di 13 miliardi di €, più interessi, al governo irlandese - e il governo irlandese cerca di rifiutare.
Strano che, anche se nella 'vita reale' le parole 'evasione' e 'fuga' significano la stessa cosa, in materia fiscale siano distinguibili in un modo che può essere espresso in una formula giuridica. La fuga dal fisco sfrutta strumenti legali per piegare il regime fiscale al proprio vantaggio; l'evasione fiscale ricerca lo stesso scopo attraverso mezzi illegali.
Tali sottigliezze sono ora ciò che proteggono l'Irlanda dall'acquisire una reputazione internazionale di paradiso fiscale, a cui le società azzeccagarbugli guardano con interesse, al fine di frodare il proprio stato di provenienza di enormi quantità di denaro.
Seguendo le varie discussioni inerenti alle controversie fiscali di Apple, Yahoo e Google, susseguitesi a intermittenza in questi ultimi anni, ho notato che da tempo il nostro dibattito pubblico non è più in grado di esprimere un chiaro principio morale in questo settore.
Una commissione del Senato americano ha rivelato che nel 2012 Apple ha pagato solo il 2% di imposta sui 74 miliardi di dollari di guadagni raccolti all'estero, grazie soprattutto allo sfruttamento di una scappatoia nel sistema fiscale irlandese. Nel Regno Unito le vendite di Google erano del valore di 3,2 miliardi di sterline, ma la maggior parte sono state instradate attraverso l'Irlanda, e così nel 2011 ha versato solo 6 milioni di sterline per l'imposta sulle corporazioni.
In tal modo, ci siamo compromessi. Siamo diventati così dipendenti da quelle società spregiudicate che un commentatore più 'coraggioso' di me potrebbe sostenere che ormai nessuno ha l'obbligo morale di pagare le tasse
Dopo tutto, se Google, Yahoo e Apple possono versare una miseria allo Stato irlandese, o addirittura niente, quale base morale potrebbe impedire ai cittadini più abbienti di fare diversamente? Inoltre, dal momento che è ormai palesemente chiaro che tali organizzazioni hanno utilizzato l'Irlanda come un servizio di lavanderia in mare aperto, come può l'Agenzia delle Entrate irlandese mantenere una faccia seria quando chiede che i semplici cittadini, già duramente pressati, paghino una nuova tassa sul tetto che hanno sopra alla testa? L'idea di un obbligo morale per il pagamento delle tasse sembra sempre più una finzione, se non una presa in giro, per togliere l’attenzione dal fatto che le tasse sono pagate dai deboli, perché hanno paura di andare in prigione, e trattenute dai ricchi che hanno il potere di evitarle. Se abbastanza persone inizieranno a vedere che il pagamento delle tasse è governato da una selezione, l’intera base della nostra economia collasserà, e questo, ovviamente, è una vista poco piacevole.
La pioggia di rivelazioni che ne è seguito negli ultimi anni è stato il culmine inevitabile di 20 anni di politica industriale di dubbia moralità, che ha contaminato le falde acquifere del buon senso della vita pubblica irlandese. In più, ha dettato una direzione politica che ha portato a trascurare le risorse naturali, a vantaggio di un'economia parassitaria, e ha costretto l'Irlanda a centellinare con parsimonia le briciole che cadevano e cadono dal tavolo delle multinazionali.
Questo stato di cose può essere fatto risalire alla relazione Culliton del 1992, preparata da una lobby di consulenze politico-industriali per l'allora ministro dell'Industria e del Commercio, Des O'Malley. Quel gruppo spazzò via tutte le proposte a favore di un modello industriale autoctono, diretto dall'impegno irlandese, favorendo solo politiche in grado di attrarre i produttori di sostanze chimiche e di sviluppo tecnologico; offrendo le più basse imposte d'Europa.
All'apparenza, ha avuto successo. Nel 1994, la crescita economica era salita del 6%, rispetto ai livelli di sostanziale stagnazione di un paio di anni prima. Ma sotto la superficie si nascondeva il fatto che l'Irlanda avesse sviluppato un'economia a due velocità - l'economia ad alte prestazioni TNC (the transnational corporation. NdR: multinazionali) e il modello indigeno, piuttosto lento, intento a succhiare l’ultima mammella della politica pubblica. Con l'inizio del nuovo millennio, le multinazionali o sei volte di più dei profitti di un decennio prima, ottenendo il 90% degli utili societari nell'economia irlandese. Molte aziende locali, d'altra parte, stanno lottando per rimanere in attività. Tanti all'estero guardavano e guardano con stupore le statistiche irlandesi, ignari, però, della realtà sotto la superficie.
E, naturalmente, la maggior parte dei profitti delle TNC vennero tolti dall'economia irlandese alla prima occasione. Si pensi che nel 1983, i rimpatri di profitto estero rappresentavano solo il 3% del PIL; alla fine degli anni ‘90, erano saliti al 40%. Ovviamente, un’economia con questo tipo di predisposizione avrebbe fatto di tutto per trattenere i propri clienti stranieri, visti quasi come benefattori. Benefattori solo all'apparenza, visto che la frusta in mano la tenevano quando si trattava di fissare la misura delle aliquote fiscali.
Quindici anni fa parlai delle implicazioni dannose delle multinazionali che operavano in Irlanda. Molte di loro non hanno solo inquinato il paesaggio irlandese e transnazionale, giocherellando con il sistema fiscale, hanno anche permesso ai politici d evitare la patata bollente della responsabilità per il benessere a lungo termine della società irlandese.
L'impressione che emerge è che la scala della creatività fiscale di Apple e Google sia una sorpresa, ma era già noto alla fine degli anni ‘90, appunto, che molte TNC sfruttavano vigorosamente il nostro regime a bassa fiscalità. Non a caso, due terzi delle multinazionali americane che operano qui sono state accusate di tenere due serie di registri - uno a fini fiscali e l'altro, segreto, per valutare le loro effettive attività. Da tempo la nostra classe politica fa finta di non essere a conoscenza delle manovre delle molte società straniere con sede irlandese che importano materie prime dalle loro case madri a costi notevolmente ridotti, se non nominali, ed esportano i prodotti finiti a prezzi gonfiati. Così, una percentuale di gran lunga maggiore del costo di tali prodotti ha beneficiato della bassa aliquota fiscale irlandese, più di quanto sarebbe opportuno. Passaggio noto come 'transfer pricing'.
Un argomento molto in voga negli anni ‘90 era che le multinazionali sostenevano l'economia irlandese attraverso legami di business con le aziende autoctone. Ma uno studio dell'Enterprise Ireland su 2.667 aziende irlandesi, fatto nel 1999, rilevò che solo 174 di queste fornivano servizi alle TNC e la maggior parte di questi erano erogati attraverso l'imballaggio e il materiale stampato.
Di volta in volta, ci raccontavano che la presenza in Irlanda del TNC era una buona cosa - soprattutto per il lavoro che portavano. In realtà, come abbiamo visto, non era e non è così, perché in ultima analisi essa mina le basi stesse della nostra comunità, per svilire i principi attraverso quali i cittadini sono stati preparati a contribuire, secondo le loro possibilità, al bene comune.
L'Irlanda possiede grandi ricchezze sia in termini di cultura sia di risorse naturali. La nostra terra è tra le più fertili d'Europa, il nostro clima è particolarmente adatto per l'agricoltura, la nostra pesca è tra le migliori al mondo. Soprattutto, le nostre tradizioni letterarie e musicali hanno provocato l'invidia del mondo.
Il nostro problema principale, tuttavia, è che abbiamo quasi zero rispetto per quello che siamo e quello che possiamo fare con le nostre forze. Dal momento che abbiamo scacciato gli inglesi, siamo stati colti dalla paura di non farcela da soli e abbiamo scrutato freneticamente l'orizzonte per cercare qualche nuova tirannia dalla quale poter dipendere, mostrando disprezzo per l'idea di prendersi cura di sé, di vivere con le nostre preziose risorse. Tutto il nostro approccio alla questione di auto-sostentamento e di auto-realizzazione è divenuto vile all'estremo: come un palmo teso alla ricerca di elemosine.
Di fronte a questi terribili fatti, che descrivono la nostra situazione attuale, si sentono ancora, nonostante tutto, le voci compiaciute di chi cerca di spingerci, con fare ipnotico, sulla strada del disastro. Provano a rassicurarci usando lo slogan "la nostra economia è una delle più vivaci d'Europa”. Essi mostrano come promettenti le proiezioni di crescita ed esportazione, omettendo di dire, però, che tutti questi indicatori positivi riguardano l'economia parassitaria derivante dalla politica canaglia con cui le multinazionali sono state attirate qui, nella certezza della bassa imposizione fiscale. Tutto questo altro non è se non la conseguenza di una politica miope, indifferente al bene dell'Irlanda, che punta a portarla nell'economia globale per poter beneficiare della ricchezza traboccante e del successo di altre società.
Quando Google e Apple, infine, partiranno da questi lidi - in quanto sarà il momento in cui i vantaggi fiscali inizieranno a prosciugarsi - potremo scoprire l'enorme buco che loro hanno creato nel nostro senso di solidarietà sociale, scoprendo quindi il vuoto al centro della nostra capacità di badare a noi stessi che il nostro parassita economico nascondeva da troppo tempo.
Di John Waters
Per sua gentile concessione. Questo articolo, in origine, fu pubblicato tre anni fa nella posta dell'Irish Sunday, acquisisce una rinnovata chiarezza sulla scia del recente ordine della Commissione europea, che condanna Apple a pagare un risarcimento fiscale di 13 miliardi di €, più interessi, al governo irlandese - e il governo irlandese cerca di rifiutare.
Strano che, anche se nella 'vita reale' le parole 'evasione' e 'fuga' significano la stessa cosa, in materia fiscale siano distinguibili in un modo che può essere espresso in una formula giuridica. La fuga dal fisco sfrutta strumenti legali per piegare il regime fiscale al proprio vantaggio; l'evasione fiscale ricerca lo stesso scopo attraverso mezzi illegali.
Tali sottigliezze sono ora ciò che proteggono l'Irlanda dall'acquisire una reputazione internazionale di paradiso fiscale, a cui le società azzeccagarbugli guardano con interesse, al fine di frodare il proprio stato di provenienza di enormi quantità di denaro.
Seguendo le varie discussioni inerenti alle controversie fiscali di Apple, Yahoo e Google, susseguitesi a intermittenza in questi ultimi anni, ho notato che da tempo il nostro dibattito pubblico non è più in grado di esprimere un chiaro principio morale in questo settore.
Una commissione del Senato americano ha rivelato che nel 2012 Apple ha pagato solo il 2% di imposta sui 74 miliardi di dollari di guadagni raccolti all'estero, grazie soprattutto allo sfruttamento di una scappatoia nel sistema fiscale irlandese. Nel Regno Unito le vendite di Google erano del valore di 3,2 miliardi di sterline, ma la maggior parte sono state instradate attraverso l'Irlanda, e così nel 2011 ha versato solo 6 milioni di sterline per l'imposta sulle corporazioni.
In tal modo, ci siamo compromessi. Siamo diventati così dipendenti da quelle società spregiudicate che un commentatore più 'coraggioso' di me potrebbe sostenere che ormai nessuno ha l'obbligo morale di pagare le tasse
Dopo tutto, se Google, Yahoo e Apple possono versare una miseria allo Stato irlandese, o addirittura niente, quale base morale potrebbe impedire ai cittadini più abbienti di fare diversamente? Inoltre, dal momento che è ormai palesemente chiaro che tali organizzazioni hanno utilizzato l'Irlanda come un servizio di lavanderia in mare aperto, come può l'Agenzia delle Entrate irlandese mantenere una faccia seria quando chiede che i semplici cittadini, già duramente pressati, paghino una nuova tassa sul tetto che hanno sopra alla testa? L'idea di un obbligo morale per il pagamento delle tasse sembra sempre più una finzione, se non una presa in giro, per togliere l’attenzione dal fatto che le tasse sono pagate dai deboli, perché hanno paura di andare in prigione, e trattenute dai ricchi che hanno il potere di evitarle. Se abbastanza persone inizieranno a vedere che il pagamento delle tasse è governato da una selezione, l’intera base della nostra economia collasserà, e questo, ovviamente, è una vista poco piacevole.
La pioggia di rivelazioni che ne è seguito negli ultimi anni è stato il culmine inevitabile di 20 anni di politica industriale di dubbia moralità, che ha contaminato le falde acquifere del buon senso della vita pubblica irlandese. In più, ha dettato una direzione politica che ha portato a trascurare le risorse naturali, a vantaggio di un'economia parassitaria, e ha costretto l'Irlanda a centellinare con parsimonia le briciole che cadevano e cadono dal tavolo delle multinazionali.
Questo stato di cose può essere fatto risalire alla relazione Culliton del 1992, preparata da una lobby di consulenze politico-industriali per l'allora ministro dell'Industria e del Commercio, Des O'Malley. Quel gruppo spazzò via tutte le proposte a favore di un modello industriale autoctono, diretto dall'impegno irlandese, favorendo solo politiche in grado di attrarre i produttori di sostanze chimiche e di sviluppo tecnologico; offrendo le più basse imposte d'Europa.
All'apparenza, ha avuto successo. Nel 1994, la crescita economica era salita del 6%, rispetto ai livelli di sostanziale stagnazione di un paio di anni prima. Ma sotto la superficie si nascondeva il fatto che l'Irlanda avesse sviluppato un'economia a due velocità - l'economia ad alte prestazioni TNC (the transnational corporation. NdR: multinazionali) e il modello indigeno, piuttosto lento, intento a succhiare l’ultima mammella della politica pubblica. Con l'inizio del nuovo millennio, le multinazionali o sei volte di più dei profitti di un decennio prima, ottenendo il 90% degli utili societari nell'economia irlandese. Molte aziende locali, d'altra parte, stanno lottando per rimanere in attività. Tanti all'estero guardavano e guardano con stupore le statistiche irlandesi, ignari, però, della realtà sotto la superficie.
E, naturalmente, la maggior parte dei profitti delle TNC vennero tolti dall'economia irlandese alla prima occasione. Si pensi che nel 1983, i rimpatri di profitto estero rappresentavano solo il 3% del PIL; alla fine degli anni ‘90, erano saliti al 40%. Ovviamente, un’economia con questo tipo di predisposizione avrebbe fatto di tutto per trattenere i propri clienti stranieri, visti quasi come benefattori. Benefattori solo all'apparenza, visto che la frusta in mano la tenevano quando si trattava di fissare la misura delle aliquote fiscali.
Quindici anni fa parlai delle implicazioni dannose delle multinazionali che operavano in Irlanda. Molte di loro non hanno solo inquinato il paesaggio irlandese e transnazionale, giocherellando con il sistema fiscale, hanno anche permesso ai politici d evitare la patata bollente della responsabilità per il benessere a lungo termine della società irlandese.
L'impressione che emerge è che la scala della creatività fiscale di Apple e Google sia una sorpresa, ma era già noto alla fine degli anni ‘90, appunto, che molte TNC sfruttavano vigorosamente il nostro regime a bassa fiscalità. Non a caso, due terzi delle multinazionali americane che operano qui sono state accusate di tenere due serie di registri - uno a fini fiscali e l'altro, segreto, per valutare le loro effettive attività. Da tempo la nostra classe politica fa finta di non essere a conoscenza delle manovre delle molte società straniere con sede irlandese che importano materie prime dalle loro case madri a costi notevolmente ridotti, se non nominali, ed esportano i prodotti finiti a prezzi gonfiati. Così, una percentuale di gran lunga maggiore del costo di tali prodotti ha beneficiato della bassa aliquota fiscale irlandese, più di quanto sarebbe opportuno. Passaggio noto come 'transfer pricing'.
Un argomento molto in voga negli anni ‘90 era che le multinazionali sostenevano l'economia irlandese attraverso legami di business con le aziende autoctone. Ma uno studio dell'Enterprise Ireland su 2.667 aziende irlandesi, fatto nel 1999, rilevò che solo 174 di queste fornivano servizi alle TNC e la maggior parte di questi erano erogati attraverso l'imballaggio e il materiale stampato.
Di volta in volta, ci raccontavano che la presenza in Irlanda del TNC era una buona cosa - soprattutto per il lavoro che portavano. In realtà, come abbiamo visto, non era e non è così, perché in ultima analisi essa mina le basi stesse della nostra comunità, per svilire i principi attraverso quali i cittadini sono stati preparati a contribuire, secondo le loro possibilità, al bene comune.
L'Irlanda possiede grandi ricchezze sia in termini di cultura sia di risorse naturali. La nostra terra è tra le più fertili d'Europa, il nostro clima è particolarmente adatto per l'agricoltura, la nostra pesca è tra le migliori al mondo. Soprattutto, le nostre tradizioni letterarie e musicali hanno provocato l'invidia del mondo.
Il nostro problema principale, tuttavia, è che abbiamo quasi zero rispetto per quello che siamo e quello che possiamo fare con le nostre forze. Dal momento che abbiamo scacciato gli inglesi, siamo stati colti dalla paura di non farcela da soli e abbiamo scrutato freneticamente l'orizzonte per cercare qualche nuova tirannia dalla quale poter dipendere, mostrando disprezzo per l'idea di prendersi cura di sé, di vivere con le nostre preziose risorse. Tutto il nostro approccio alla questione di auto-sostentamento e di auto-realizzazione è divenuto vile all'estremo: come un palmo teso alla ricerca di elemosine.
Di fronte a questi terribili fatti, che descrivono la nostra situazione attuale, si sentono ancora, nonostante tutto, le voci compiaciute di chi cerca di spingerci, con fare ipnotico, sulla strada del disastro. Provano a rassicurarci usando lo slogan "la nostra economia è una delle più vivaci d'Europa”. Essi mostrano come promettenti le proiezioni di crescita ed esportazione, omettendo di dire, però, che tutti questi indicatori positivi riguardano l'economia parassitaria derivante dalla politica canaglia con cui le multinazionali sono state attirate qui, nella certezza della bassa imposizione fiscale. Tutto questo altro non è se non la conseguenza di una politica miope, indifferente al bene dell'Irlanda, che punta a portarla nell'economia globale per poter beneficiare della ricchezza traboccante e del successo di altre società.
Quando Google e Apple, infine, partiranno da questi lidi - in quanto sarà il momento in cui i vantaggi fiscali inizieranno a prosciugarsi - potremo scoprire l'enorme buco che loro hanno creato nel nostro senso di solidarietà sociale, scoprendo quindi il vuoto al centro della nostra capacità di badare a noi stessi che il nostro parassita economico nascondeva da troppo tempo.
Letter from the front: Ireland's new dependency on tax avoiding corporations
La traduzione in italiano la potete trovare in "Lettera dal fronte: La nuova dipendenza dell'Irlanda dalle corporazioni che "sfuggono" al fisco"
By John Waters
This article, originally published three years ago in the Irish Mail on Sunday, acquires a renewed clarity in the wake of the EU Commission's order that Apple must pay a tax adjustment of €13 plus interest to the Irish government - and the Irish government seeks to refuse.
Strange that, although in ‘real life’ the words ‘evasion’ and ‘avoidance’ mean much the same thing, in matters of taxation they’re distinguishable in a manner that can be expressed in a legal formula. Tax avoidance is the legal exploitation of the tax regime to one's own advantage; tax evasion is doing the same thing by illegal means.
Such niceties are now what protect Ireland from acquiring an international reputation as a rogue economy to which shyster corporations repair in order to cheat their home economies of enormous amounts of moolah.
Monitoring various discussions of the Apple, Yahoo and Google tax controversies which have bubbled up intermittently in recent years, I have long been stuck by the total inability of our collective conversation to express a clear moral principle in this area anymore. A US Senate sub-committee revealed Apple had in 2012 paid just 2% tax on $74bn in overseas income, mainly by exploiting a loophole in Ireland's tax code. Google's UK sales are worth £3.2bn, but most are routed through Ireland, meaning it paid £6m in corporation tax in 2011.
So compromised have we become by our dependency on these shyster corporations that a braver commentator than I might easily rebut the idea that anyone has a moral obligation to pay tax at all. After all, if Google, Yahoo and Apple can be excused from paying all but a pittance to the Irish State, what moral basis can there be for pursuing ordinary Irish citizens for significantly higher proportions of their own incomes? Moreover, since it is now patently clear that such organisations have been using Ireland as an offshore laundry service, how can the Irish revenue service keep a straight face when demanding that already hard-pressed citizens pay a new tax on the roof over their heads? The idea of a moral obligation to pay taxes increasingly seems a soft fiction put about to take the hard edge off the fact that taxes are paid by the weak because they are afraid of going to jail, and withheld by the wealthy because they have the power to say no. If enough people began to see that the payment of taxes is governed by an entirely selective morality, the entire basis of our economy would collapse, and this, obviously, is such an appalling vista that the pretence must be maintained.
The trickle of revelations that has ensued in recent years is the inevitable culmination of 20 years of a morally derelict industrial policy which has done more than contaminate the moral groundwater of Irish public life. It has also dictated a policy direction whereby the natural, indigenous energies of Irish society have been neglected in favour of a cuckoo-in-the-nest economy from which Ireland ekes out an existence – swallowing the crumbs that fall sparingly from the transnational shyster banquet.
This state of affairs can be traced back to the 1992 Culliton Report, prepared for the then Minister for Industry and Commerce, Des O’Malley. This Industrial Policy Review Group swept aside proposals to pursue an indigenously-directed model of Irish endeavour in favour of attracting chemical and computer manufacturers using Europe’s lowest corporate taxes.
On the face of things, it was successful. By 1994, economic growth had risen to 6%, from virtual stagnation levels a couple of years before. But a hidden consequence was that Ireland developed a two-speed economy – the high-performing TNC economy and the rather sluggish indigenous model, which sucked the hind-tit of public policy. By the turn of the millennium, TNCs were generating six times more in profits than a decade before, generating as much as 90% of corporate profits in the Irish economy. Many Irish firms, on the other hand, were struggling to stay in business. People abroad looked in wonder at the headline Irish statistics, oblivious that, actually, they weren’t looking at the Irish economy at all.
And, of course, most of the TNC profits were being taken out of the economy as the earliest opportunity. In 1983, foreign profit repatriations accounted for just 3% of GDP; by the end of the 1990s, this had risen to 40%. Obviously, an economy with this kind of exposure would go to great lengths to hold onto its apparently benefactor outsiders, who inevitably hold the whip-hand when it came to deciding how high real tax rates should be fixed.
Fifteen years ago, I wrote about the damaging implications of TNCs operating in Ireland. Not only were many of them polluting the Irish landscape and transnationally fiddling their taxes, but their very presence was enabling politicians to pass the buck of responsibility for the longer-tern well-being of Irish society.
The impression put about is that the scale of Apple's and Google’s fiscal creativity has come as a surprise, but it was already common knowledge in the late 1990s that many TNCs were vigorously exploiting our low-tax regime. Two-thirds of American TNCs operating here were reputed to keep two sets of books – one set was for tax purposes and the other for evaluating their actual activities. Our political establishment has long pretended to be unaware that many Irish-based subsidiaries were importing raw materials from their parent companies at greatly reduced, sometimes nominal cost, and exporting the finished products at grossly inflated prices. Thus, a far greater proportion of the cost of such products was qualifying for the low Irish tax rate than should properly have been the case, a little fiddle known as ‘transfer pricing’.
One argument much in vogue in the 1990s was that the TNCs support the indigenous Irish economy through business 'linkages' with Irish firms. But a 1999 Enterprise Ireland study of 2,667 Irish companies found that only 174 of these were servicing TNCs, and most of these supplied things like packaging and printed materials.
We are told, time and again, that the presence in Ireland of TNCs is a good thing – mainly because of the jobs they bring. In fact, as we are beginning to suspect, it is a very bad thing, because ultimately it undermines the very basis of our community, by unraveling the principles by which citizens have been prepared to contribute, according to their means, to the common good.
Ireland is richly endowed with cultural gifts and natural resources. Our land is amongst the most fertile in Europe, our climate eminently suited to agriculture, our fisheries among the best in the world. Above all, our literary and musical traditions have made us the envy of the globe.
Our main problem, however, is that we have almost zero respect for what we are and what we can do of and by ourselves. Since we kicked out the English, we have been frantically scanning the horizon for some new tyranny to become dependent on, showing nothing but contempt for the idea of fending for ourselves and living by our own lights. Our whole approach to the question of self-sustenance and self-realization is craven in the extreme: a palm outstretched in search of alms and hand-outs.
In the face of the appalling facts or our situation at present, you still hear the smug voices that hypnotized us into taking the road to disaster, again assuring us that our economy is one of the most vibrant in Europe. They point to the promising growth projections and export figures, omitting to mention that all such positive indicators relate to the cuckoo-in-the-nest economy arising from the aggressive policy by which multinational operators have been lured here in the certainty of low taxation and minimal regulatory encumbrance. This is not, in any sense whatever, an Irish economy, but the consequence of a myopic and soft-option policy of availing of Ireland’s openness to the global economy in order to benefit from the overflow wealth from the prosperity and success of other societies.
When Google and Apple finally depart these shores – as they will the moment the tax advantages begin to dry up – we may find they’ve left behind an enormous hole in our sense of social solidarity, thus revealing the vacuum at the heart of our capacity to fend for ourselves that our cuckoo-in-the-nest economy has recently served to conceal.
By John Waters
This article, originally published three years ago in the Irish Mail on Sunday, acquires a renewed clarity in the wake of the EU Commission's order that Apple must pay a tax adjustment of €13 plus interest to the Irish government - and the Irish government seeks to refuse.
Strange that, although in ‘real life’ the words ‘evasion’ and ‘avoidance’ mean much the same thing, in matters of taxation they’re distinguishable in a manner that can be expressed in a legal formula. Tax avoidance is the legal exploitation of the tax regime to one's own advantage; tax evasion is doing the same thing by illegal means.
Such niceties are now what protect Ireland from acquiring an international reputation as a rogue economy to which shyster corporations repair in order to cheat their home economies of enormous amounts of moolah.
Monitoring various discussions of the Apple, Yahoo and Google tax controversies which have bubbled up intermittently in recent years, I have long been stuck by the total inability of our collective conversation to express a clear moral principle in this area anymore. A US Senate sub-committee revealed Apple had in 2012 paid just 2% tax on $74bn in overseas income, mainly by exploiting a loophole in Ireland's tax code. Google's UK sales are worth £3.2bn, but most are routed through Ireland, meaning it paid £6m in corporation tax in 2011.
So compromised have we become by our dependency on these shyster corporations that a braver commentator than I might easily rebut the idea that anyone has a moral obligation to pay tax at all. After all, if Google, Yahoo and Apple can be excused from paying all but a pittance to the Irish State, what moral basis can there be for pursuing ordinary Irish citizens for significantly higher proportions of their own incomes? Moreover, since it is now patently clear that such organisations have been using Ireland as an offshore laundry service, how can the Irish revenue service keep a straight face when demanding that already hard-pressed citizens pay a new tax on the roof over their heads? The idea of a moral obligation to pay taxes increasingly seems a soft fiction put about to take the hard edge off the fact that taxes are paid by the weak because they are afraid of going to jail, and withheld by the wealthy because they have the power to say no. If enough people began to see that the payment of taxes is governed by an entirely selective morality, the entire basis of our economy would collapse, and this, obviously, is such an appalling vista that the pretence must be maintained.
The trickle of revelations that has ensued in recent years is the inevitable culmination of 20 years of a morally derelict industrial policy which has done more than contaminate the moral groundwater of Irish public life. It has also dictated a policy direction whereby the natural, indigenous energies of Irish society have been neglected in favour of a cuckoo-in-the-nest economy from which Ireland ekes out an existence – swallowing the crumbs that fall sparingly from the transnational shyster banquet.
This state of affairs can be traced back to the 1992 Culliton Report, prepared for the then Minister for Industry and Commerce, Des O’Malley. This Industrial Policy Review Group swept aside proposals to pursue an indigenously-directed model of Irish endeavour in favour of attracting chemical and computer manufacturers using Europe’s lowest corporate taxes.
On the face of things, it was successful. By 1994, economic growth had risen to 6%, from virtual stagnation levels a couple of years before. But a hidden consequence was that Ireland developed a two-speed economy – the high-performing TNC economy and the rather sluggish indigenous model, which sucked the hind-tit of public policy. By the turn of the millennium, TNCs were generating six times more in profits than a decade before, generating as much as 90% of corporate profits in the Irish economy. Many Irish firms, on the other hand, were struggling to stay in business. People abroad looked in wonder at the headline Irish statistics, oblivious that, actually, they weren’t looking at the Irish economy at all.
And, of course, most of the TNC profits were being taken out of the economy as the earliest opportunity. In 1983, foreign profit repatriations accounted for just 3% of GDP; by the end of the 1990s, this had risen to 40%. Obviously, an economy with this kind of exposure would go to great lengths to hold onto its apparently benefactor outsiders, who inevitably hold the whip-hand when it came to deciding how high real tax rates should be fixed.
Fifteen years ago, I wrote about the damaging implications of TNCs operating in Ireland. Not only were many of them polluting the Irish landscape and transnationally fiddling their taxes, but their very presence was enabling politicians to pass the buck of responsibility for the longer-tern well-being of Irish society.
The impression put about is that the scale of Apple's and Google’s fiscal creativity has come as a surprise, but it was already common knowledge in the late 1990s that many TNCs were vigorously exploiting our low-tax regime. Two-thirds of American TNCs operating here were reputed to keep two sets of books – one set was for tax purposes and the other for evaluating their actual activities. Our political establishment has long pretended to be unaware that many Irish-based subsidiaries were importing raw materials from their parent companies at greatly reduced, sometimes nominal cost, and exporting the finished products at grossly inflated prices. Thus, a far greater proportion of the cost of such products was qualifying for the low Irish tax rate than should properly have been the case, a little fiddle known as ‘transfer pricing’.
One argument much in vogue in the 1990s was that the TNCs support the indigenous Irish economy through business 'linkages' with Irish firms. But a 1999 Enterprise Ireland study of 2,667 Irish companies found that only 174 of these were servicing TNCs, and most of these supplied things like packaging and printed materials.
We are told, time and again, that the presence in Ireland of TNCs is a good thing – mainly because of the jobs they bring. In fact, as we are beginning to suspect, it is a very bad thing, because ultimately it undermines the very basis of our community, by unraveling the principles by which citizens have been prepared to contribute, according to their means, to the common good.
Ireland is richly endowed with cultural gifts and natural resources. Our land is amongst the most fertile in Europe, our climate eminently suited to agriculture, our fisheries among the best in the world. Above all, our literary and musical traditions have made us the envy of the globe.
Our main problem, however, is that we have almost zero respect for what we are and what we can do of and by ourselves. Since we kicked out the English, we have been frantically scanning the horizon for some new tyranny to become dependent on, showing nothing but contempt for the idea of fending for ourselves and living by our own lights. Our whole approach to the question of self-sustenance and self-realization is craven in the extreme: a palm outstretched in search of alms and hand-outs.
In the face of the appalling facts or our situation at present, you still hear the smug voices that hypnotized us into taking the road to disaster, again assuring us that our economy is one of the most vibrant in Europe. They point to the promising growth projections and export figures, omitting to mention that all such positive indicators relate to the cuckoo-in-the-nest economy arising from the aggressive policy by which multinational operators have been lured here in the certainty of low taxation and minimal regulatory encumbrance. This is not, in any sense whatever, an Irish economy, but the consequence of a myopic and soft-option policy of availing of Ireland’s openness to the global economy in order to benefit from the overflow wealth from the prosperity and success of other societies.
When Google and Apple finally depart these shores – as they will the moment the tax advantages begin to dry up – we may find they’ve left behind an enormous hole in our sense of social solidarity, thus revealing the vacuum at the heart of our capacity to fend for ourselves that our cuckoo-in-the-nest economy has recently served to conceal.
giovedì 8 settembre 2016
Obice: Fertility Day: non chiediamo un welfare, ma un cambio di mentalità
Nella settimana appena trascorsa, non sono mancate le critiche all’ennesima iniziativa governativa, il cosìddetto “Fertility Day” in programma per il prossimo 22 settembre.
Questa iniziativa avrebbe come scopo quello di mettere al corrente uomini e donne del fatto che dopo una certà età i figli sono molto più difficili da fare, e che ci sono numerosi comportamenti da evitare se si vuole evitare il rischio di infertilità (che non è solo femminile, è bene ricordarlo).
Tutto questo, ovviamente, in un’ottica di rinascita demografica per l’Italia. È bello notare che, finalmente, qualcuno ai piani alti abbia preso coscienza del fatto che se non torna a crescere il tasso di figli per donna (attualmente 1,39, quando per avere una sostituzione minima servirebbe almeno 2,1) sarà molto difficile per questo paese riprendere a crescere e diventare nuovamente solvibile da un punto di vista pensionistico.
Fin qui, tutto bene. I problemi iniziano non appena si va ad analizzare la campagna e i suoi contenuti. Molto sinteticamente, le frasi scelte come slogan e le immagini messe a corredo sono semplicemente inopportune, di una bruttezza incredibile (potremmo dire che invogliano a diventare azionisti della Durex).
Oltre a questo, la campagna punta molto alla promozione della fecondazione medicalmente assistita, tacendo in maniera criminale sulle bassissime percentuali di successo della stessa.
Come se non bastasse, la già infelice campagna ha scatenato le ire di sinistroidi e laicisti vari su tutto il web (se avete stomaco andate a leggervi Saviano e Scanzi, non li linkiamo per carità di patria e perché non regaliamo visite a certi siti) che, novelli catari, hanno tuonato all’urlo di:
- FASCISMOHHH!1!!1!
- MEDIOEVOHH111!!!
- OMOFFOBIHH!!!
E via dicendo, il resto potete immaginarvelo da soli.
Le loro critiche erano poi accompagnate da uno dei più triti e ritriti luoghi comuni sull’inverno demografico, ovvero:
“LE FAMIGLIE NON FANNO FIGLI PERCHE’ MANCA IL WELFAREHHH!11!!!!!1”
Ovviamente ignari del fatto che Paesi con un welfare per le famiglie ben migliore del nostro stanno messi peggio di noi (la Krande Cermania di Frau Merkel, per dirne uno, ha 1,37 figli per donna).
In tutto questo, notiamo ancora una volta una delle capacità più evidenti dell’italiano medio (perché Saviano e Scanzi, checché ne dicano, sono arci-italiani medi): la lamentela. E viene da chiedersi come abbia fatto la buonanima di mia nonna Dina, a ventitré anni (correva l’anno 1953), a crescere 3 figli mentre lavorava la terra e mandava avanti un podere insieme a mio nonno Francesco. Oppure come abbia fatto mia nonna Antonietta, rimasta vedova a 45 anni (correva l’anno 1984) a crescere 3 figlie con uno stipendio solo e anche dei vecchi da accudire. Vi posso assicurare che le sopracitate non sono mai state in lizza per il Nobel dell’Economia, né lo hanno mai vinto.
Il fatto vero è che il welfare aiuta e tanto, ma non basta. Siamo circondati da esempi, ognuno di noi. Io per primo, lavoro in una realtà dove i miei colleghi più grandi non hanno particolari problemi economici, eppure mettono al mondo al massimo 2 figli, nessuno di loro ne ha di più e alcuni di loro neanche li hanno.
Quello che ci viene chiesto, invece, è un cambio di mentalità che nessuno dei nostri governanti è intenzionato anche solo ad incentivare: ovvero che i figli non sono un diritto, ma un sacrificio e soprattutto un dono di Dio.
Mi rendo conto che aspettarsi una presa di coscienza simile da gente che approva la legge Cirinnà è più che un miracolo, ma la speranza è l’ultima a morire. Arriveremo al punto che non si potrà fare altrimenti, anche solo per mantenere quel baraccone dell’INPS (Istituto Nazionale Ponzi Scheme).
Probabilmente la speranza di cui sopra è la stessa Speranza che permetteva alle vecchie generazioni, magari addirittura inconsapevolmente, di mettere al mondo i figli.
Concludo citando 2 personaggi molto diversi tra loro, ma che su questo concordano. Uno è quel coglione di Oliviero Toscani, che anche se è ateo e mangiapreti, tra le tante bischerate qualcuna ne indovina, ogni tanto:
“La sovversione è avere 6 figli, 12 nipoti e amare una sola donna da 50 anni ”
L’altro invece è Giovanni Zenone, l’editore di Fede&Cultura, che al Festival di Fede&Cultura, mentre presentava la propria famiglia al pubblico, si è lasciato scappare:
“La famiglia è così bella che la vogliono anche i finocchi!”
Questa iniziativa avrebbe come scopo quello di mettere al corrente uomini e donne del fatto che dopo una certà età i figli sono molto più difficili da fare, e che ci sono numerosi comportamenti da evitare se si vuole evitare il rischio di infertilità (che non è solo femminile, è bene ricordarlo).
Tutto questo, ovviamente, in un’ottica di rinascita demografica per l’Italia. È bello notare che, finalmente, qualcuno ai piani alti abbia preso coscienza del fatto che se non torna a crescere il tasso di figli per donna (attualmente 1,39, quando per avere una sostituzione minima servirebbe almeno 2,1) sarà molto difficile per questo paese riprendere a crescere e diventare nuovamente solvibile da un punto di vista pensionistico.
Fin qui, tutto bene. I problemi iniziano non appena si va ad analizzare la campagna e i suoi contenuti. Molto sinteticamente, le frasi scelte come slogan e le immagini messe a corredo sono semplicemente inopportune, di una bruttezza incredibile (potremmo dire che invogliano a diventare azionisti della Durex).
Oltre a questo, la campagna punta molto alla promozione della fecondazione medicalmente assistita, tacendo in maniera criminale sulle bassissime percentuali di successo della stessa.
Come se non bastasse, la già infelice campagna ha scatenato le ire di sinistroidi e laicisti vari su tutto il web (se avete stomaco andate a leggervi Saviano e Scanzi, non li linkiamo per carità di patria e perché non regaliamo visite a certi siti) che, novelli catari, hanno tuonato all’urlo di:
- FASCISMOHHH!1!!1!
- MEDIOEVOHH111!!!
- OMOFFOBIHH!!!
E via dicendo, il resto potete immaginarvelo da soli.
Le loro critiche erano poi accompagnate da uno dei più triti e ritriti luoghi comuni sull’inverno demografico, ovvero:
“LE FAMIGLIE NON FANNO FIGLI PERCHE’ MANCA IL WELFAREHHH!11!!!!!1”
Ovviamente ignari del fatto che Paesi con un welfare per le famiglie ben migliore del nostro stanno messi peggio di noi (la Krande Cermania di Frau Merkel, per dirne uno, ha 1,37 figli per donna).
In tutto questo, notiamo ancora una volta una delle capacità più evidenti dell’italiano medio (perché Saviano e Scanzi, checché ne dicano, sono arci-italiani medi): la lamentela. E viene da chiedersi come abbia fatto la buonanima di mia nonna Dina, a ventitré anni (correva l’anno 1953), a crescere 3 figli mentre lavorava la terra e mandava avanti un podere insieme a mio nonno Francesco. Oppure come abbia fatto mia nonna Antonietta, rimasta vedova a 45 anni (correva l’anno 1984) a crescere 3 figlie con uno stipendio solo e anche dei vecchi da accudire. Vi posso assicurare che le sopracitate non sono mai state in lizza per il Nobel dell’Economia, né lo hanno mai vinto.
Il fatto vero è che il welfare aiuta e tanto, ma non basta. Siamo circondati da esempi, ognuno di noi. Io per primo, lavoro in una realtà dove i miei colleghi più grandi non hanno particolari problemi economici, eppure mettono al mondo al massimo 2 figli, nessuno di loro ne ha di più e alcuni di loro neanche li hanno.
Quello che ci viene chiesto, invece, è un cambio di mentalità che nessuno dei nostri governanti è intenzionato anche solo ad incentivare: ovvero che i figli non sono un diritto, ma un sacrificio e soprattutto un dono di Dio.
Mi rendo conto che aspettarsi una presa di coscienza simile da gente che approva la legge Cirinnà è più che un miracolo, ma la speranza è l’ultima a morire. Arriveremo al punto che non si potrà fare altrimenti, anche solo per mantenere quel baraccone dell’INPS (Istituto Nazionale Ponzi Scheme).
Probabilmente la speranza di cui sopra è la stessa Speranza che permetteva alle vecchie generazioni, magari addirittura inconsapevolmente, di mettere al mondo i figli.
Concludo citando 2 personaggi molto diversi tra loro, ma che su questo concordano. Uno è quel coglione di Oliviero Toscani, che anche se è ateo e mangiapreti, tra le tante bischerate qualcuna ne indovina, ogni tanto:
“La sovversione è avere 6 figli, 12 nipoti e amare una sola donna da 50 anni ”
L’altro invece è Giovanni Zenone, l’editore di Fede&Cultura, che al Festival di Fede&Cultura, mentre presentava la propria famiglia al pubblico, si è lasciato scappare:
“La famiglia è così bella che la vogliono anche i finocchi!”
mercoledì 7 settembre 2016
domenica 4 settembre 2016
Radio Monte Grappa: Lettera agli Amici
Coloro che hanno scritto questa lettera stanno cercando, con le unghie e con i denti, di restare insieme ed attaccati ad una realtà che non vedono più (è lodevole come cosa), ora bisogna vedere se "la cl" tenterà di staccarseli di dosso perché fanno troppo male o se allungherà una mano per aiutarli.
Caro amico,
chi ti scrive è un gruppo di persone che ha avuto la grazia di incontrare don Giussani e i suoi collaboratori più stretti e che, da questo incontro, ha avuto la vita cambiata, come molto probabilmente sarà accaduto anche a te.
Riteniamo che don Giussani rappresenti un dono alla Chiesa di valore inestimabile, oggi ancora più attuale, incontrabile attraverso i suoi scritti, che narrano un’esperienza accaduta, tramite coloro che hanno vissuto a più stretto contatto con lui, e quanti sono fedeli al suo metodo. Ma soprattutto riteniamo che rappresenti, per noi, ogni giorno, una sorgente di fede e vita nuova della quale non possiamo fare a meno per il gusto della vita, per un’adesione ragionevole e libera a Gesù, e perché la Sua Chiesa sia presente tra gli uomini.
È in virtù di questa esperienza di corrispondenza che sentiamo tutta la responsabilità di essere un’“avanguardia della missione”, di quello che don Giussani stesso ha definito essere Movimento: «Uno che ha una fede anche in modo semplicemente implicito non può non conservare la fiducia nell’umano; deve perciò preoccuparsi della gente che lo circonda e diventare presenza per chiunque gli stia vicino; e, innanzitutto, per il marito, la moglie, i figli, gli amici di scuola, i compagni d’università e di lavoro.» (il senso della nascita, dialogo tra Giovanni Testori e Luigi Giussani, Edit 1980). Quindi per il mondo intero.
Proprio perché fragili peccatori, noi vogliamo aderire a questo Ideale Vivente che non siamo ancora e offrire a ciascun compagno di strada la possibilità di incontrare Gesù vivo e presente tra i suoi, attraverso le tre dimensioni della cultura, della carità e della missione, in una «comunione vissuta, come dimensione ed esigenza fondamentale della persona, che rende quotidiana la memoria dell’avvenimento di Cristo, trasfigurando l’esistenza fino a incidere, secondo tempi e modi adeguati, sull’intera società.» (art. 2 dello statuto della fraternità di comunione e liberazione)
In ragione di questo sentire, vediamo con preoccupazione e non ci riconosciamo in quella riduzione intimistica e tutta emozionale che viene proposta recentemente dai responsabili di CL come ripresa delle origini del movimento.
Non condividiamo la loro spasmodica ricerca del consenso dei media, «come certa teologia post-conciliare (...) volontariamente cortigiana e serva della mentalità egemone. E non si accorgono che quel laicismo che mette loro tanta soggezione e bisogno di riverirlo, è in agonia, assieme a tutta la modernità nata dall’illuminismo settecentesco...» (Luigi Giussani a Vittorio Messori in inchiesta sul cristianesimo, Mondadori, 2003). Ricerca di consenso del mondo che va a scapito di una presenza concreta e visibile negli ambienti con un giudizio originale e incontrabile da tutti.
Non accettiamo che la nostra storia sia ridotta a una lettura superficiale che la squalifica e la degrada a ricerca “di briciole di potere” o di egemonia.
Rifiutiamo la contrapposizione tra militanza e testimonianza, quasi fossimo stati un partito, perché, al contrario, la massima espansione missionaria del Movimento è avvenuta proprio nel periodo della presunta militanza, mentre gli ultimi anni, quelli della presunta testimonianza, segnano una drammatica sparizione del Movimento dal mondo giovanile, e dagli ambienti, con un’emorragia dolorosa di persone.
Non abbiamo certo bisogno di un nemico per sapere chi siamo e a Chi apparteniamo, ma sappiamo bene quanto il nemico della presenza di Cristo nel mondo operi «nei padroni della cultura, che hanno ancora il dominio delle menti e delle coscienze e che hanno prodotto l’opera di scristianizzazione avvenuta in questo dopoguerra.» (Augusto del Noce al Meeting del 1989).
Non vogliamo neppure che l’esperienza generata dal servo di Dio Luigi Giussani sia lo spunto per la riedizione di una “scelta religiosa” che produsse e che produce oggi una fede disincarnata e ridotta a opinione, quando, invece, «“L’uomo spirituale, cioè l’uomo che ha accolto il vero, giudica tutto e non è giudicato da nessuno” (S.Paolo). E allora uno ha voglia, come lui diceva di ‘menar le mani’, cioè di prendere rapporto con tutto per confermarsi e verificare la propria posizione, per rendere più vera la propria posizione, cioè per dilatare la propria dimora e per affrontare la menzogna, là dove c’è. Questa è la fede che diventa sfida al mondo: “Questa è la vittoria che vince il mondo, la fede” (1 Gv 5,4).»(Luigi Giussani, certi di alcune grandi cose. 1979-1981, BUR, 2007).
Da queste ragioni è sorto il desiderio di verità che ci ha fatto riconoscere in un comune sentire e che ci muove a essere testimoni dinanzi al mondo intero della bellezza dell’appartenenza a questa storia che Dio ha voluto donare alla Chiesa. Ci vogliamo incontrare per ri-conoscerci con tutti coloro che hanno la nostra stessa esigenza di vivere integralmente la sequela del carisma di don Giussani e che hanno a cuore la verità della propria esperienza personale e comunitaria.
L’incontro vuole essere un inizio, se e come Dio vorrà, di un rapporto stabile di aiuto concreto a seguire il carisma nelle circostanze in cui ci troviamo, rapporto di cui decideremo liberamente assieme le dovute forme. Un caro saluto.
Mauro Aluigi (Rimini),
Giuseppe Argelli (Rimini),
Leonardo Bisica (Milano),
Massimo Buonocore (Sorrento),
Giorgio Canu (Sassari),
Giampaolo Cerri (Como),
Isabella Elli (Altopascio, Lucca),
Maria E.Frontali (Faenza),
Alessandra Galimberti (Milano),
Alessandra Gianni (Siena),
Giancarlo Guasco (Torino),
Paola Iannetti (Como),
Annagrazia Internò (Como),
Gerardo Luciano (Lucca),
Fabio Luti (Rimini),
Marco Masè (Verona),
Matteo Montevecchi (Rimini),
Assuntina Morresi (Perugia),
Marco Paglialunga (Siena),
Benedetta Pari (Bologna),
Jacopo Parravicini (Milano),
Matteo Poggiali (Milano),
Paolo Preti (Milano),
Pasquino Ricci (Arezzo),
Fabio Scaffardi (Firenze),
Alessandro Sandroni (Pesaro),
Matteo Sanvito (Milano),
Massimo Sanvito (Biassono, Monza),
Silvana Sironi (Milano),
Antonio Socci (Siena),
Lele Tiscar (Como),
Michele Trotta (Civitavecchia),
Daniele Zaia (S. Paolo, Asti)
di Comunione e Liberazione
Cinematografo dell'alpino: Suicide Squad - Cattivi senza cattiveria
Il nuovo film ambientato nell'universo Dc Comics targato Warner ha gli incassi ma non il carattere.
Partiamo da un presupposto: il genere “supereoistico” (termine in voga tra gli adolescenti per identificare quei film che si rifanno alle vicende dei super eroi dei fumetti, Marvel e Dc Comics in primis) è in una fase molto delicata. Gli ultimi film sono stati tutto un altalenarsi di giudizi positivi e negativi: un andamento altalenante dove a districarsi ci sono stati soprattutto gli ultimi film dell’universo Marvel Comics (si passa al deludente Avengers II, al discreto Ant-Man, fino ad arrivare all’ultimo, al momento, Captain America 3: Civil War). Ora però la situazione si è ulteriormente complicata con l’arrivo del progetto Dc Comics avviato dalla Warner Bros che, seguendo la scia della Disney, inaugura una nuova serie di film pronti a fare concorrenza ad Iron Man, Captain America, Thor e al resto della compagnia. Un progetto affidato al regista Zack Snyder, che del genere è quasi una sorta di veterano (suoi sono film come Watchmen e Superman- Man of Steel), pronto a entrare “a gamba tesa” sulla scena con il suo Batman vs Superman. Il risultato è stato però mettere ancora in evidenza le debolezze di un genere che ha da un lato un grande bisogno di reinventarsi ogni volta da capo, dall’altro cercare di essere il più fedele possibile alla tradizione iconografia dei personaggi: una tradizione che non ha solo a che fare con le semplici rappresentazioni dei fumetti ma anche con quelle di certi cult anni 80-90.
Suicide Squad arriva quindi in questa situazione di urgenza, preceduto (come lo è stato per il precedente Batman vs Superman) da un grande e meticoloso lavoro di marketing che ne ha aumentato ancora di più le attese. Il film tuttavia è solo l’ennesimo exploit di incassi e nulla di più: massacrato dalle critiche, ma con ben 380 milioni di dollari al botteghino solo nel primo weekend statunitense. Insomma il film incassa tanto, ma è molto scarno di idee.
Il film del regista David Ayer è contaminato da veri e propri “cancri”. In primo luogo c’è una trama sterile (ricollegata ai fatti di Batman vs Superman): il governo per far fronte a una nuova minaccia decide di formare una squadra speciale reclutando ex criminali dalle abilità speciali. Botte da orbi e sparatorie ai mostri per tutti, la trama al fin della fiera è questo, mischiata ai vari flashback dei protagonisti principali (che su una squadra di sei membri alla fine sono solo due) che non dicono nulla di più. La scenografia, anche questa di Ayer, è scontata e prevedibile; contornata di momenti di humor nero che hanno più il risultato di infastidire lo spettatore che di intrattenerlo, spesso sembrano strizzatine d’occhio all’Iron Man di Robert Downey Jr. Anche i personaggi non sono da meno: Will Smith, nei panni del sicario Deadshoot, è zoppicante, è una continua rievocazione di se stesso e di altri suoi personaggi meglio riusciti (primo fra tutti Hancock) passando poi però a un criminale svogliato ma che sa ironizzare; Margot Robbie (Harley Quinn) e Jared Leto (il Joker) sono i veri trascinatori del film ma non possono fare l’impossibile: causa dei personaggi mal caratterizzati con la Robbie (icona del film) che interpreta più una teenager innamorata che una criminale folle (lontana dal personaggio originale), e Leto che ci presenta un Joker pazzo ma senza una “filosofia” che dia essenza alla sua pazzia (ricordiamo per esempio la vocazione al caos del Joker di Ledger o l’estetica nonsense di Nicholson); c’è poi l’Incantatrice, boss finale della storia, interpretata da Cara Delevigne, che è più una gatta morta con stilemi gothic ma per nulla convincente (la Delevigne d’altronde non lo è mai stata); poi c’è tutta un’altra cricca di personaggi che però riuniti al resto del team hanno tutti qualcosa in comune: sono cattivi, ma infondo non così cattivi come sembrano. E questo il vero male del film: l’idea di partenza, una banda di criminali che devono però salvare il mondo, è anche interessante e poteva anche funzionare se non fosse che il film poi scade nel banale ritornello “brutti ma buoni”: c’è Deadshoot che è solo un papà che vuole rivedere la figlia, Harley Quinn che infondo è solo una ragazza innamorata del ragazzo sbagliato, Killer Croc (l’uomo coccodrillo) che è arrabbiato perché tutti lo considerano solo brutto e tanti altri luoghi comuni che si potrebbero fare sulle ragioni della cattiveria di un personaggio. Una minestra riscaldata che si rivela dopo i soliti 5 minuti dopo i titoli di coda di essere un ennesimo prequel (pure questo) per un altro film, però stavolta con i buoni … cioè ancora un’altra squadra di buoni.
Suicide Squad riconferma quindi la grande contraddizione legata al genere dei film sui super eroi: i grandi incassi, dipendenti più dal marketing che dal film stesso, è idee banalizzate, messe quasi lì per lì. Un vero peccato per un film che portava in se i requisiti di un buon lavoro, ma se si banalizzano i cattivi o peggio il concetto stesso di cattiveria il risultato è quasi sempre uno scivolone.
Partiamo da un presupposto: il genere “supereoistico” (termine in voga tra gli adolescenti per identificare quei film che si rifanno alle vicende dei super eroi dei fumetti, Marvel e Dc Comics in primis) è in una fase molto delicata. Gli ultimi film sono stati tutto un altalenarsi di giudizi positivi e negativi: un andamento altalenante dove a districarsi ci sono stati soprattutto gli ultimi film dell’universo Marvel Comics (si passa al deludente Avengers II, al discreto Ant-Man, fino ad arrivare all’ultimo, al momento, Captain America 3: Civil War). Ora però la situazione si è ulteriormente complicata con l’arrivo del progetto Dc Comics avviato dalla Warner Bros che, seguendo la scia della Disney, inaugura una nuova serie di film pronti a fare concorrenza ad Iron Man, Captain America, Thor e al resto della compagnia. Un progetto affidato al regista Zack Snyder, che del genere è quasi una sorta di veterano (suoi sono film come Watchmen e Superman- Man of Steel), pronto a entrare “a gamba tesa” sulla scena con il suo Batman vs Superman. Il risultato è stato però mettere ancora in evidenza le debolezze di un genere che ha da un lato un grande bisogno di reinventarsi ogni volta da capo, dall’altro cercare di essere il più fedele possibile alla tradizione iconografia dei personaggi: una tradizione che non ha solo a che fare con le semplici rappresentazioni dei fumetti ma anche con quelle di certi cult anni 80-90.
Suicide Squad arriva quindi in questa situazione di urgenza, preceduto (come lo è stato per il precedente Batman vs Superman) da un grande e meticoloso lavoro di marketing che ne ha aumentato ancora di più le attese. Il film tuttavia è solo l’ennesimo exploit di incassi e nulla di più: massacrato dalle critiche, ma con ben 380 milioni di dollari al botteghino solo nel primo weekend statunitense. Insomma il film incassa tanto, ma è molto scarno di idee.
Il film del regista David Ayer è contaminato da veri e propri “cancri”. In primo luogo c’è una trama sterile (ricollegata ai fatti di Batman vs Superman): il governo per far fronte a una nuova minaccia decide di formare una squadra speciale reclutando ex criminali dalle abilità speciali. Botte da orbi e sparatorie ai mostri per tutti, la trama al fin della fiera è questo, mischiata ai vari flashback dei protagonisti principali (che su una squadra di sei membri alla fine sono solo due) che non dicono nulla di più. La scenografia, anche questa di Ayer, è scontata e prevedibile; contornata di momenti di humor nero che hanno più il risultato di infastidire lo spettatore che di intrattenerlo, spesso sembrano strizzatine d’occhio all’Iron Man di Robert Downey Jr. Anche i personaggi non sono da meno: Will Smith, nei panni del sicario Deadshoot, è zoppicante, è una continua rievocazione di se stesso e di altri suoi personaggi meglio riusciti (primo fra tutti Hancock) passando poi però a un criminale svogliato ma che sa ironizzare; Margot Robbie (Harley Quinn) e Jared Leto (il Joker) sono i veri trascinatori del film ma non possono fare l’impossibile: causa dei personaggi mal caratterizzati con la Robbie (icona del film) che interpreta più una teenager innamorata che una criminale folle (lontana dal personaggio originale), e Leto che ci presenta un Joker pazzo ma senza una “filosofia” che dia essenza alla sua pazzia (ricordiamo per esempio la vocazione al caos del Joker di Ledger o l’estetica nonsense di Nicholson); c’è poi l’Incantatrice, boss finale della storia, interpretata da Cara Delevigne, che è più una gatta morta con stilemi gothic ma per nulla convincente (la Delevigne d’altronde non lo è mai stata); poi c’è tutta un’altra cricca di personaggi che però riuniti al resto del team hanno tutti qualcosa in comune: sono cattivi, ma infondo non così cattivi come sembrano. E questo il vero male del film: l’idea di partenza, una banda di criminali che devono però salvare il mondo, è anche interessante e poteva anche funzionare se non fosse che il film poi scade nel banale ritornello “brutti ma buoni”: c’è Deadshoot che è solo un papà che vuole rivedere la figlia, Harley Quinn che infondo è solo una ragazza innamorata del ragazzo sbagliato, Killer Croc (l’uomo coccodrillo) che è arrabbiato perché tutti lo considerano solo brutto e tanti altri luoghi comuni che si potrebbero fare sulle ragioni della cattiveria di un personaggio. Una minestra riscaldata che si rivela dopo i soliti 5 minuti dopo i titoli di coda di essere un ennesimo prequel (pure questo) per un altro film, però stavolta con i buoni … cioè ancora un’altra squadra di buoni.
Suicide Squad riconferma quindi la grande contraddizione legata al genere dei film sui super eroi: i grandi incassi, dipendenti più dal marketing che dal film stesso, è idee banalizzate, messe quasi lì per lì. Un vero peccato per un film che portava in se i requisiti di un buon lavoro, ma se si banalizzano i cattivi o peggio il concetto stesso di cattiveria il risultato è quasi sempre uno scivolone.
Antonello Di Nunno