venerdì 18 novembre 2016

Cinematografo dell'alpino: Café Society: Umoristico, riflessivo e tanto malinconico. Il ritorno del classico Woody Allen

Café Society è il ritorno al passato del regista che racconta l’amore in una chiave più sincera insaporendola coi tratti tipici della sua produzione cinematografica.


Woody Allen è uno che di cinema ne ha masticato veramente tanto, sia come attore che come regista. In tanti anni di carriera su una cosa si è sempre particolarmente distinto: una certa sensibilità nel descrivere le relazioni umane con tutte (o quasi …) le sfumature che le contornano. Certo, anche lui cade in qualche vero e proprio buco nell'acqua oppure si impegna poco, e si vede, rilasciando pellicole “di cassetta” ma questo “sguardo” non lo ha mai abbandonato. Si aggiunge poi questo umorismo sottile e allo stesso tempo riflessivo del regista, riflessivo quasi ai limiti della nevrosi con quei ragionamenti complicati senza soluzione, che lo ha dipinto negli anni nell'immaginario degli spettatori come un ometto insicuro, complicato ma pungente.

Ora Allen ritorna, anche questa volta alla regia, con il nuovo Café Society che nel guardarlo con attenzione non può fare a meno di rievocarci alcuni vecchi capisaldi del grande regista: le atmosfere dell’America anni 30, con le sue musiche Jazz, le grandi feste nelle case dell’alta borghesia (in questo caso siamo nelle case dei ricchi di Los Angeles), le famiglie con tante sfaccettature caratteriali, e le riflessioni (qui tutte espresse per bocca del padre del protagonista, l’attore Ken Stott) sulla religione ebraica. Poi c’è la storia che si dirama in una trama molto semplice: il giovane Bobby decide di fare fortuna come agente cinematografico e parte per Los Angeles dove lavorerà per suo zio Phil; qui si innamorerà di Vonnie che inizialmente ricambierà i sentimenti del ragazzo fino a quando alcune verità li separerà; Bobby tornato a New York trova una nuova vita come gestore di un locale di successo, si sposa e farà molta fortuna, ma un nuovo incontro con Vonnie metterà in discussione i suoi recenti raggiungimenti. L’elemento però che arricchisce il tutto resta la sensibilità con cui Allen dipinge le dinamiche umane dei vari personaggi, dandoci l’impressione che dietro ai movimenti dei personaggi (una giovane donna indecisa, il protagonista Bobby che rivede dopo anni la ragazza che amava, etc ...) si cela un qualcosa di molto più complesso. Questo elemento è sostenuto anche dalle interpretazioni di tutto il cast che lavora molto bene, con una sua fluidità e alchimia e Allen d'altronde è bravissimo nel saper dirigere grandi attori e giovani promesse: Jesse Eisenberg si comporta molto bene e anzi riesce a mantenere il grande impegno di sostituire proprio quel tanto amato Woody Allen come attore (la scena in cui Bobby si ritrova con una giovane prostituta in casa è una vera e propria celebrazione che il regista fa del suo se stesso attore, con Eisenberg che ne ricalca bene movenze e anche il caratteristico “parlato”); la Stewart si libera con questo film una volta per tutte del fantasma di Twilight e offre un’interpretazione perfetta, non sbaglia uno sguardo o un’espressione nel volto e si rimette così nella lista delle giovani promesse del cinema hollywoodiano; bravo è anche un inusuale Steve Carell, non più nei panni di un personaggio comico ma comunque a suo agio in un ruolo “serio”, dimostrando così tutta la sua professionalità; degni di nota sono anche il già citato Stott , nella pellicola è il padre di Bobby, e Corey Stoll, il fratello malvivente.

Il film offre inoltre molti spunti interessanti che si immettono in maniera naturale nella storia: il più importante è la dicotomia tra chi si ama, con tutta la vita che un amore offre, e di chi invece si è innamorati ma non corrisposti, e quindi tutta la promessa di una grande felicità che si infrange con il conseguente lascito di una malinconia che va a toccare anche ciò che di bello si è costruito sentendo la vita come inevitabilmente incompiuta. Su questo punto va detto che Allen si tiene su un registro che potremmo definire come “sincero”: non si va a impelagare su una possibilità positiva, che comunque i due protagonisti non vedono, e non si dimena per lo svolgimento di uno smielato happy ending, ma al contrario lascia che il racconto giudichi tranquillamente se stesso con un’onestà sì cinica ma realistica (“realistica” nel senso che non appiccica il bene, ma se c’è emerge da solo).

È interessante anche quel piccolo sipario di tipo filosofico-religioso che passa nella figura del figlio maggiore Ben e in quella del padre Marty: piccoli spunti con cui Allen indaga l’elemento del religioso con il suo occhio non esente di critiche, soprattutto per l’ebraismo.

Nel complesso Café Society è un ottimo prodotto. Woody Allen è riuscito questa volta a dar vita a un film che sa essere nuovo nella sua semplicità di trama e di analisi interiore senza però venir meno ad alcuni suoi principi tipici della sua vasta produzione; per arrivare a questo risultato ovviamente ha dovuto rinunciare a quell’idea di affondare ai limiti del confusionario sulla psiche dei protagonisti che serpeggiava nelle sue ultime pellicole. Passando ad una visione più semplice dei personaggi infatti riesce a dare così possibilità allo spettatore di immedesimarsi in questi ultimi senza complicazioni, rendendo così il film molto più appetibile.

Molto bravo il signor Allen quando vuole!


Antonello Di Nunno

 

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