mercoledì 12 ottobre 2016

Lettera dal fronte: Elogio del muro

La retorica del muro simbolo di divisione tra uomini sembrava caduta nel 1989 con il muro di Berlino e del blocco sovietico, sostituita da un’altra retorica, quella delle “società aperte”. Ma negli ultimi anni l’emblema di divisione si è ripresentato sotto altre forme. Il Papa – potrebbe un pontefice, che etimologicamente vuol dire costruttore di ponti, dire diversamente? – ha coniato uno degli slogan più in voga: “costruire ponti, abbattere i muri”, in linea con la narrazione di un mondo utopico, multiculturale e multietnico. Ma siccome “la realtà è più importante dell’idea”, ci si accorge che i muri sì dividono, ma pure proteggono, demarcano, segnano un limite, differenziano, distinguono, identificano.

La simbologia del Pensiero Unico indica il muro come costruzione del male. Invece si scopre che è qualcosa di indispensabile, soprattutto in una società culturalmente liquida e tecnologicamente sempre più invasiva in cui le identità singole e collettive sono sempre più omologate. Anche se “c’è un’aspettativa incongrua, un’attribuzione di sicurezza psicologica e politica dell’effetto muro, di fatto sproporzionata” – direbbe un direttore di giornale – “i muri hanno sempre due facce, una per il fuori e una per il dentro” e ciò è evidente soprattutto se riferito al fenomeno epocale dell’immigrazione. Il punto è che i flussi migratori non cambiano in relazione ai muri bensì “alla motivazione delle partenze”. Il muro infatti non ha la pretesa di risolvere le cause del problema. Però può limitarne gli effetti.

Nella retorica egualitaria dominante l’uomo tende a “disindividualizzarsi” – per dirla con Konrad Lorenz – al punto che “gli uomini debbono essere sempre più uguali per potersi rimpiazzare più facilmente, esattamente come le macchine”. E il sospetto che il fenomeno immigratorio dei poveracci, ed emigratorio dei cervelli in fuga, sia una macchinazione del trans-umanesimo è forte.
L’eliminazione dei confini europei con Schengen, le operazioni di imbarco mascherate da salvataggio sulle coste libiche, l’accoglienza diffusa e forzata negli hotel dei paesi italiani non ha creato più sicurezza né incontro tra persone. Anzi, ha creato più confini perché le comunità si sentono lese nel diritto di definirsi, darsi cioè dei confini propri tangibili e non, mentre chi arriva si sente leso nella dignità perché costretto a lasciare la propria terra.
Affermare che bisogna eliminare i muri per essere più liberi e accoglienti, provoca la costruzione di nuovi muri, perché oltre a quelli di Spagna, Grecia, Austria, Bulgaria ecc. ci sono quelli delle indegne baraccopoli che sorgono tra Foggia e Manfredonia o dei ghetti delle capitali europee.
L’omologazione e la sostituzione di popolazione sono un processo forzato, non un incontro frutto della libera scelta fra diversi. E il muro, inteso come confine e limite, garantendo le diversità garantisce anche la libertà di incontrarsi, di aiutarsi reciprocamente. Sapere che oltre non si può andare, significa capire fin dove si può arrivare.

Ma il muro rimarrà simbolo di male finché si insisterà nella retorica egualitaria, si taceranno le vere cause dell’ondata immigratoria, si impedirà l’autodeterminazione dei popoli e non passerà l’idea che i migranti, proprio perché hanno diritto alla casa, al lavoro, alla terra vanno aiutati a casa loro con un serio programma di intervento internazionale. Ovviamente fuori dagli interessi pseudo-colonialisti di certe multinazionali.
Si tratta quindi di abbattere i muri dell’ingiustizia, dello sfruttamento, dell’avidità, della mercificazione dell’umano e della sua riduzione ad oggetto. Sono muri molto più alti e spessi di quelli che si costruiscono e molto più pericolosi perché invisibili.


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