mercoledì 1 giugno 2016

Come eravamo: L’occupazione dell’Università Cattolica a Milano

Nella seconda metà degli anni Sessanta l’università si trova a essere l’epicentro di un rivolgimento sociale profondo. Pier Alberto Bertazzi ricorda: «Nelle assemblee studentesche intervenivano tutti, anche quelli del FUAN (i giovani fascisti), e il fenomeno sembrava veramente rappresentare la rivolta di un’intera generazione che si rendeva conto, come d’improvviso, che non aveva ciò che desiderava».

Il punto di svolta si ha il 17 novembre 1967, quando l’aumento delle tasse all’Università Cattolica di Milano provoca una protesta generalizzata tra gli studenti, sia tra quelli che partecipano alle preesistenti formazioni politiche studentesche (INTESA, di impostazione cattolico-democristiana di sinistra, UGI social-comunista, GLUI liberale e FUAN) sia tra i numerosi universitari attraversati da un forte disagio e tesi a un indistinto ideale di giustizia e libertà.

In una bella giornata di sole di fine novembre si svolge una manifestazione davanti alla Cattolica (in precedenza occupata contro l’aumento delle tasse e poi disoccupata), alla quale partecipa una massa di studenti, tendenzialmente pacifici, in piazza Sant’Ambrogio, con poche file di carabinieri che bloccano l’ingresso principale dell’ateneo. Bertazzi, presente con altri di GS e FUCI, perché è ancora la fase della «condivisione del bisogno degli studenti», ricorda: «A un certo punto, da dietro le prime file vengono lanciati alcuni pezzi di legno contro i carabinieri che, sorpresi dal gesto, reagiscono con una improvvisata e disorganizzata “carica”. Tutti fuggono rapidamente perché la maggioranza dei presenti non ha alcuna intenzione di fare sfociare in violenza quella manifestazione».

Sulle prime quella circostanza appare come un avvenimento del tutto inusuale e isolato, ma diventerà ben presto la prima e la meno violenta di una serie di manifestazioni e di drammatiche guerriglie urbane che scandiranno per lunghi anni la vita della città. «Al termine della manifestazione qualcuno propone di organizzarsi meglio contro l’oppressione dell’autorità di qualunque tipo essa sia, perché impedisce l’espressione della propria libertà; c’è chi si ritira deluso; e chi si trova confermato nel proprio desiderio di libertà, ma anche nell’evidenza che quella non è la strada da percorrere per realizzarlo» dice Bertazzi.

Fin dalla prima ora molti universitari giessini della Cattolica si buttano nella mischia. Tra di essi c’è Renata Livraghi, in GS dal 1965 (poi docente universitaria), che ricorda il disappunto di Giussani quando, insieme a un’amica, si è recata nel suo studio in Università Cattolica per informarlo di avere aderito all’occupazione. Non nasconde di essere rimasta contrariata, lei che pensava di aver interpretato al meglio l’invito a essere presente nella realtà universitaria. Passeranno quarant’anni prima che la Livraghi si renda conto della verità dell’atteggiamento assunto da Giussani in quella occasione.

Il 19 novembre 1967, appena due giorni dopo i fatti della Cattolica, Giussani parla al ritiro di Avvento del Gruppo adulto: «Gli anni passati ci hanno educato, un po’ a frustate, un po’ sentendo il dolore di rami rotti continuamente, ci hanno risvegliati e costretti a capire come, o prendiamo sul serio l’essenza della nostra vocazione oppure tutti andremo a finire come alberi, come rami secchi». Le sue parole sono incalzanti: «Se alla parola di Dio non si risponde – mi pare che sia una constatazione tremenda della mia esperienza di tanti anni e personale e di contatto con tante persone –, essa si ritira; non bisogna lasciar scappare i tempi di Dio, il tempo della misericordia, il tempo della sua iniziativa».

A questo punto entra di schianto l’eco dell’occupazione della Cattolica: «E così anche l’intelligenza della situazione e delle cose da fare – che è un’intelligenza diversa, più acuta, perché è un’intelligenza dettata dal punto di vista di Dio – ci è mancata così facilmente perché [Dio] non Lo attendiamo giorno e notte». Infatti, «se Lo avessimo atteso giorno e notte, anche l’atteggiamento dei nostri nella loro convivenza all’Università Cattolica sarebbe stato diverso; è stato così generoso, ma quanto vero?». Giussani si riferisce a coloro tra gli universitari che hanno condiviso quella iniziativa: «La verità del gesto non nasce dalla scaltrezza politica», altrimenti «il nostro discorso si confonde con quello degli altri e diventa strumento del discorso degli altri. Possiamo far le nostre cose e assumere come paradigma, senza che ce ne accorgiamo, quello di tutti, il paradigma offerto da tutti gli altri. È dall’attenderLo giorno e notte che si distingue il nostro discorso, le nostre azioni».

Ma se è dolorosa una «defezione tra di noi», continua Giussani, è «infinitamente ancora più equivoca, e perciò più dolorosa, una presenza piena di compromesso, una presenza non vera». Non c’è disfattismo in queste parole, dal momento che «Dio sa recuperare qualunque cosa, perché Dio è più potente anche della nostra cattiveria. Ma quello che, almeno fenomenicamente, è defezione deriva decisamente dal fatto che non Lo si è atteso giorno e notte; è una carenza di attesa, è una carenza di desiderio». Carenza di desiderio vuol dire che «si desidera qualcosa d’altro più di questo. Magari non ce lo si dice esplicitamente, ma si desidera qualcosa d’altro più di questo».

E allora, Giussani è perentorio, «non serviamo il movimento, sottraiamo al movimento, rubiamo al movimento, anche se diventiamo assistenti universitari e magari ordinari universitari e facciamo una nuova teoria sul marxismo; anche se andassimo a conquistare il mondo, diventa la nostra opera, diventa l’attesa del nostro regno, se tutto quello che attendiamo non si esaurisce totalmente in quello che ci è stato dato, nel fatto che ci è stato dato». Si abbandona, quindi, a un ricordo personale: «Il cardinale [Giovanni Colombo; N.d.A.], la prima scuola di italiano che ci ha fatto, in prima liceo, ha introdotto subito la Divina Commedia: “Nel mezzo del cammin di nostra vita…”. Ha fatto un lungo discorso di una mezz’ora per dire: immaginatevi due che vanno nel deserto e che hanno una direttiva; se incominciano a scostarsi di un millimetro da quella direttiva, e continuano a scostarsi di un millimetro, capite che dopo, a un certo punto, hanno perso la strada completamente. Io mi ricordo questo paragone, che mi è rimasto impresso, anche perché io mi son reso conto per la prima volta allora con chiarezza come sia impercettibile l’evolversi della nostra situazione. Così che è sempre una presenza di spirito, come consapevolezza e come dominio di sé, che deve continuamente recuperare le stonature e i fuorviamenti che istintivamente, naturalmente, avvengono». Nota, infatti, che, a un certo punto, «uno si trova lontanissimo dagli altri e crede che lui si sia fatto la personalità, mentre ha tradito qualche cosa, ha abbandonato qualche cosa. Crede che sia un’altra la sua strada, mentre l’ha abbandonata, la strada»

Quindi ritorna sull’occupazione della Cattolica, indicando l’insegnamento da trarre: «Veramente siamo nella condizione d’essere all’avanguardia, i primi di quel cambiamento profondo, di quella rivoluzione profonda che non starà mai – dico: mai – in quello che di esteriore, come realtà sociale, pretendiamo avvenga»; infatti, «non sarà mai nella cultura o nella vita della società, se non è prima […] in noi. […] Se non incomincia tra di noi questo sacrificio di sé… Non un obolo da dare, ma […] una rivoluzione di sé, nel concepire sé […] senza pre-concetto, senza mettere in salvo qualche cosa prima»

Molti universitari di GS presenti in Cattolica, sull’onda dei primi entusiasmi, si buttano d’impeto e in modo incondizionato al seguito del gruppetto di ideologi che stanno egemonizzando il movimento degli studenti, rammenta Giussani. Il fatto ha un riflesso immediato sui gruppi presenti nelle scuole medie superiori di Milano e delle città vicine, perché quegli universitari ne sono spesso gli «incaricati», ossia i responsabili, come riconoscerà Giussani: «Ebbe così il crisma dell’autorevolezza la decisione di saltare sul carro guidato da Mario Capanna e da altri che insieme a lui avrebbero poi saldamente egemonizzato la vicenda del ’68 […]. In tali circostanze, il “centro” di GS non fece altro che seguire le scelte compiute o giustificate da molti responsabili dell’Azione Cattolica e della FUCI in tutta Italia compresi diversi cappellani di collegi e dell’Università Cattolica».

(Vita di Don Giussani di Alberto Savorana Rizzoli, 2013. Capitolo 14: Il Sessantotto, pp. 390-393)

Nessun commento:

Posta un commento