giovedì 14 aprile 2016

Come eravamo: L'amore alla Chiesa è la forza che permette di vivere e impegnarsi




La risposta (vera e appassionata) di don Giussani a Baget-Bozzo (ndr. Il Nostro Tempo, 9 gennaio 1977)

Ritrovare l'identità cristiana, non in una dottrina astratta, ma nel "fatto"-Chiesa, documentato nel mondo dalla visibile unità dei suoi fedeli - L'alienazione allegra di certa teologia che nasce da una vita di comunione smarrita - Non scambiamo l'amore alla Chiesa per volontà di potere .

Il teologo genovese Baget Bozzo ha scritto recentemente una lettera aperta a don Giussani [cfr. il n. 48 del nostro settimanale], nella quale poneva questa affermazione e questa domanda: «l'identità cristiana nella storia è principalmente un'identità dottrinale. Lei è d'accordo?». Don Giussani risponde a questa e ad altre affermazioni. Ci auguriamo che la risposta porti chiarezza sulla tematiche: fede, cultura e impegno politico dei cattolici e contribuisca a far conoscere meglio il movimento ecclesiale «Comunione e Liberazione».



Caro don Baget Bozzo, io ho un impegno direttamente pastorale e non sono filosofo e teologo competente come lei. Per questo non credo d'essere molto adatto a condurre un dibattito per articoli o lettere sui giornali. D'altra parte la diversità di carismi è per edificare e, grato della sollecitazione di oggi, lo sarò ancor più se mi vorrà assistere, correggere e suggerire secondo modalità generosamente più adeguate a come io vivo.

Lei mi chiedeva se io fossi d'accordo sulla definizione secondo cui «l'identità cristiana nella storia è principalmente una identità dottrinale». Mi sembra semplicemente inadeguato. Per me l'identità cristiana nella storia è principalmente un Fatto, il Fatto di una realtà nuova, di una «nuova creatura» che è la Chiesa, Corpo di Cristo, continuamente generata nel mistero della sua morte e risurrezione, ma documentata e dimostrata nella unità dei suoi fedeli: unità visibile, sociologicamente identificabile, come il segno di quel «crescere» del mistero di Cristo di cui parla il 4° della lettera agli Efesini, come il segno di quel «farsi corpo» di Cristo che appunto vive nella unità dei suoi che credono e lo testimoniano nel mondo.

Cosi la storia della Chiesa è la storia di una «communio». L'ortodossia, come ci ha insegnato la patristica e la sua riscoperta, non scaturisce come dottrina astrattamente intesa, ma come coscienza di una communio vissuta.

E la struttura dell'Evento [talmente è anzitutto un fatto!] implica anche l'organo propriamente espressivo di tale coscienza, cioè l'autorità. La storia della Chiesa quindi non è la storia di un'astratta unita dottrinale, ma è la storia di una vita reale di comunione vissuta ed espressa in riferimento dialogico e sacrificato a quella funzione di guida. Per questo una azione educativa alla fede s'affida molto prima e molto più a tale magistero, che alla teologia. Confesso che sono fortemente portato a credere che la teologia sia soprattutto utile come «materiale» per il magistero, che non come strumento immediato di edificazione dei fedeli: a meno si tratti di teologi veramente intenti ad una vita ecclesiale come lo furono i Padri o S. Tommaso [abbiamo molto diffuso fra noi il libro dello Hayen sulla teologia di S. Tommaso come generata dalla sua coscienza ecclesiale] o taluni moderni. L'attenzione data alla vita comunionale e al magistero riassorbono in partenza tutte le tentazioni di scivolare nella «alienazione allegra» di tanta teologia postconciliare, come perfettamente definisce lei. Ma tale teologia fa perdere il senso della vita ecclesiale proprio perché anzitutto essa è frutto di una vita di comunione smarrita.

Il 24 luglio '75 Paolo VI si chiedeva in un discorso del mercoledì «Dov'è il popolo di Dio, del quale tanto si è parlato, dov'è? ... Bene sappiamo che il popolo di Dio ha ora, storicamente un nome a tutti più familiare: è la chiesa; ... ebbene, chi davvero la conosce, chi la vive?». Questo popolo è nella obbedienza alla autorità, è nell'ascolto della Parola, è nel Sacramento: ma esso vive dentro una appartenenza che è misura della coscienza in ogni azione, e quindi tendenzialmente qualifica tutto. A questa incarnazione la liturgia invita gli sposi perché «esprimano nella loro vita il Sacramento che celebrano nella fede». Non mi pare giusto ridurre ad eticità individualistica tutto ciò; la vita degli sposi è chiamata ad approfondirsi come parte della visibile unità del corpo di Cristo. E non capirei perché la totalità della vita cristiana per il Battesimo non debba tendere ad esprimere visibilmente quella appartenenza corale: e se la manifestazione intera di essa è attesa con grande grido del cuore alla fine del tempo [Apoc. 22], essa nella misura della Grazia e del disegno di Dio già è, come albore, o come «primizia» o come «pegno», e la aspirazione della coscienza cristiana è che essa si dilati agli occhi di tutti. La «pienezza della presenza escatologica nella storia» implica anche il segno di una visibilità di vita comunionale; per cui a me sembra che la santità cattolica debba proprio essere proporzionata al «fervore della invivenza comunitaria», come dice lei, e «all'attaccamento alla Chiesa come società temporale» nel senso di «visibile».

Giudicare volontà di potere la passione per questa unità come criterio di vita mi parrebbe incomprensione ancora più grave del pericolo di tradimento cui spinge la tentazione di strumentalizzarla. Questa insistenza sulla unità, caso mai, vuol essere sete della gloria di Cristo «lo zelo della tua casa mi divora» una casa «di pietre vive». Le vicende storiche di tutto questo le stabilisce il Signore: per cui affermare la gloria di Cristo nel suo corpo, cioè nella unità dei suoi credenti, è abbastanza normalmente [specie di questi tempi] vederla sotto la figura del servo di Javé: non «erat ei aspectus neque decor». Il Signore la può far passare dallo splendore di Salomone alla prigionia di Babilonia; e viceversa. Eppure questa unità, potenza di Dio e fragilità di creta, «apertura crocifissa verso il mondo» e inizio di resurrezione, è al cuore della carità tutti gli altri comandamenti cristianamente si verificano in essa. Tale programma di sacrificio di se per l'Oggetto che la fede vede nella storia, è ben altro che il «calore affettivo di una comunità», anche se la misericordia del Signore può riservare tale dolcezza «ecco quanto è buono e soave che i fratelli vivano insieme».

Noi affermiamo la nostra unità per il mistero di Cristo che c'è in noi e tra di noi. E vorremmo vivere la regola di vita che P. Hamer nel suo «La Chiesa è una comunione» così sintetizza per la prima comunità cristiana: «Tendenza a mettere tutto in comune, sia i beni materiali che spirituali». E ciò, come trama stabile e originale di rapporti, non può non creare il volto di una società sia pure «sui generis», come ricorda il Papa nel citato discorso, il volto di un gruppo sociale. Non è volontà di potenza insisto, questo è un amore al tralucere del volto di Cristo nella unione quotidianamente operante dei fratelli.

Tutto ciò vive nella persona, ed è nei «gesti della persona» che si costruisce. La personalità cristiana nasce dal mistero della comunione ecclesiale, vi si alimenta, in essa si esprime, e tale comunione collabora ad edificare. La comunionalità è «dimensione» della creatura nuova che è il cristiano. E proprio perché l'uomo è uno in se, tale dimensione morde anche il tempo e lo spazio, si dimostra in esso, anche «come comportamenti di gruppo». «Affinché vedano le vostre opere buone...»: l'opera per eccellenza, a me sembra, è la unità visibile dei cristiani. Per analogia ad essa i cristiani si comportano verso tutti gli altri uomini.

La posizione di fronte al fenomeno culturale e politico non è che conseguenza. A me basta il riconoscimento che i gesti del cristiano hanno «una efficacia» culturale e politica. Nessuno di noi pensa di sostenere che l'identità cristiana abbia una determinata forma culturale e politica. Ma la fede non può non generare un modo originale di guardare, interrogare e giudicare i fatti, e quindi, secondo quello che la tradizione ecclesiastica ci mostra fino ad oggi, una fede comunionale vissuta non può non essere generatrice di forme culturali e ispiratrice di comportamenti politici.

La totale contingenza di tali scelte culturali e politiche, e quindi la loro totale opinabilità e riformabilità, non oscura la nettezza dei valori ecclesiali cui esse si debbono ispirare e le sponde critiche entro cui si debbono conservare e la capacità di sacrificio da vivere per riconoscere le urgenze dell'unità: «Nelle cose necessarie - e la salvaguardia della libertà religiosa e una di queste - il sentimento dell'unità di tutti i discepoli di Cristo deve essere più efficace delle pur comprensibili diversità di opinioni», disse il mio Cardinale a Sant 'Ambrogio [cfr anche i documenti della Cel e della CEI del novembre e dicembre 75]. E, ancora una volta son d'accordo con lei, questa efficacia culturale e politica i gesti del cristiano non sperano dalla organizzazione; esattamente come non la sperano da qualsiasi forza propria. Il cristiano in ogni cosa mira alla gloria del mistero di Cristo nella sua Chiesa, a «questa umanità pervasa dal disegno della salvezza» [Paolo VI nel discorso del 9 luglio '76], e che il mondo lo riconosca: ciò attende solo dalla grazia dello Spirito. Ma è disponibile a questo avvenimento con tutte le sue forze, ad esso offre tutti i suoi strumenti, tutto il suo schema umano quindi anche la sua esigenza di organicità in tutti i sensi, e la sua capacità organizzativa. È tendenza contenuta in ogni amicizia idealmente operativa. E non vedo perché anche la capacità organizzativa non debba essere parte di una «offerta a Cristo dei nostri corpi» [Rom. 12,2]. Ciò che è nostro è debole, quanto più naturalmente sembra essere forte perciò l'organizzazione più di tutto. Ma, lo ricorda lei stesso, Dio sceglie [appunto] le cose deboli di questo mondo. Cioè noi, secondo tutto quello che siamo.

Allora il problema non è che la nostra impostazione non sia errata il problema è che essa sia vissuta in purità, nella coscienza dell'effimero e del contingente, nel distacco libero fino all'ironia da tutto ciò cui pur ci dedichiamo con tutto il cuore, nell'interesse profondo alla storia e alla posizione di qualunque altra persona o gruppo, specialmente rispettoso degli stessi fratelli la cui diversità sembra contraddire il nostro ideale. Non faccio certo fatica a riconoscere la difficoltà di una coerente purezza perciò mendico aiuto da padri e fratelli nella fede cattolica, e, se l'aiuto deve essere efficace, sia possibilmente senza accuse incomprensive e generose illazioni.

Ecco pare anche a me di essere tutto disarmato, non soltanto perché incapace di dialettica, ma perché - spero - ricco soltanto di una volontà di fede ecclesiale imparata dai miei maestri di seminario cui sono grato come allora e che amo più di allora.

Mi sento molto lontano solo da un'immagine di Chiesa irresistibilmente ridotta al singolo che «confessa» la fede e si santifica. lo mi sentirei molto lontano da ogni forma di escatologismo individualistico, che tendenzialmente mi sembri rifiutare il compito della incarnazione e della missione nel mondo. E in ciò mi pare di trovare conforto dai Padri antichi al Magistero di oggi.

Quanto ho detto credo proprio rispecchi lo spirito di CL. Di altro [Movimento Popolare, Communio, ecc.] - con buona pace di tutte le polemiche confusioni - rendono conto quelli che ne portano la responsabilità; sono adulti, rispondano per se stessi. Io potrei trovarmi - come spesso mi trovo - diverso, anche profondamente, da loro e da quel che fanno.

Le ho detto «con fiducia la verità cui mi sento legato». Con fiducia: cioè con speranza di compagnia.



Luigi Giussani

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