giovedì 7 aprile 2016

Ricognizione: Appunti dall’Assemblea con Julián Carrón Torino, 4 marzo 2016

Pubblichiamo la sbobinatura dell'assemblea cittadina col presidente della fraternità di Comunione e Liberazione, Julian Carron, svoltasi a Torino il 4 marzo scorso che già stiamo diffondendo grazie al lavoro della segreteria di Torino via e-mail tra amici e parenti. 
Riconoscendo l'importanza che le sue parole hanno per tutti noi riteniamo con ciò di favorirne la diffusione anche presso i nostri affezionati lettori.

Il testo è anche disponibile nei formati pdf e ePub 




Paolo Gardino. Abbiamo questa sera il regalo di avere con noi Julián. Un regalo come tutti i regali, imprevisto, improvviso. Nel giro di tre giorni abbiamo avuto questa bellissima occasione. La questione che mi ha immediatamente colpito è che, quando abbiamo chiesto dei contributi per questa assemblea, in due giorni ne sono arrivati settanta. Settanta contributi vuol dire che, se facciamo intervenire tutti... In un momento come questo – personale, sociale, del mondo – così drammatico e così esaltante (perché il Signore fa accadere tante cose, affinché ciascuno di noi possa verificare dove sta la speranza, che cosa vuol dire l’incontro che ha fatto, che cos’è l’esperienza della Chiesa), mi sembra un’occasione preziosissima per questo cammino, per la conversione di ciascuno di noi. Visto che tutti noi abbiamo il desiderio di entrare in dialogo con Julián, chi interviene abbia la carità, per sé e per gli altri, dell’essenzialità.

In questi ultimi tempi noto una difficoltà nel voler bene gratuitamente alle persone che ho attorno, in particolare alla mia ragazza. Prima che ci mettessimo insieme, infatti, ero grato semplicemente del fatto che ci fosse e che fosse un dono gigante per la mia vita, senza alcuna pretesa che il mio innamoramento venisse ricambiato, per esempio. Anche nei giorni in cui attendevo una sua risposta, ciò che prevaleva non era l’ansia di ricevere un sì, ma questo sguardo totalmente libero da qualsiasi tornaconto personale, che sicuramente non è mio. Ora che stiamo insieme, però, noto che a volte si inserisce la pretesa di essere trattati in un certo modo, di essere voluti bene come ho in testa io. Però, dopo un po’ che ci si tratta così, rischio di soffocare. E questo non accade solo con lei, ma anche con gli amici, con l’università e anche con la Scuola di comunità. Come si può, dunque, fare esperienza e memoria quotidianamente di un amore libero da qualsiasi pretesa, grato di quella persona solo perché c’è? 

Grazie. Buonasera a tutti. Cominciamo già con una domanda all’altezza delle vostre attese. Chi non sente una domanda così per sé? Nella sua domanda c’è tutta la drammaticità che sperimentiamo nel vivere. Perché lui non può negare, non può non riconoscere la primissima esperienza che ha fatto con la sua ragazza. È impressionante! Si potrebbe pensare che fosse la fine di un lungo percorso, invece è l’inizio! «Ero grato che ci fosse». Ho capito bene? Non: «Ero grato che io la possedessi», ma: «Ero grato che ci fosse». Mi ricordo sempre di quando un prete spagnolo mi raccontava di come aveva spiegato a un ragazzo che cosa è la verginità. Il giorno in cui si era innamorato e la ragazza gli aveva detto di sì, neanche l’aveva sfiorata, ma la pienezza e la gioia che traboccavano nel suo cuore rispetto a quella ragazza erano assolutamente uniche e neanche tutto il tentativo successivo di possesso aveva dato quella pienezza affettiva. Non era solo una sorta di pienezza “spirituale”; era una pienezza piena di affezione. Ma che cosa succede? Subito dopo vediamo che decade. E allora ci troviamo a che fare con questo dramma: abbiamo assaporato una bellezza, ma poi è come impossibile tenere questo livello dell’esperienza, non c’è questo livello del rapporto. E allora siamo davanti a un bivio: pensare che tutto decade e quindi non c’è niente da fare, oppure riconoscere che quel che ho sperimentato è talmente bello che non può essere soltanto per un istante (anche se io non so ancora come mantenerlo, non so come quell’istante di inizio possa diventare un’esperienza permanente, quotidiana). Allora sorge la domanda che tu fai: come si fa ad avere un’esperienza permanente di un amore libero da qualsiasi tornaconto? E qui ciascuno si dà un’ipotesi. Per questo è importantissimo guardare l’esperienza. Se noi non andiamo al fondo di questo dramma che tutti percepiamo in noi, non capiremo veramente come rispondere. Tu cerchi in tanti modi, con tutti i tuoi tentativi, di trattarla bene, perché non puoi evitare di volerle bene anche dopo aver avuto esperienza della tua fragilità. E ti viene voglia di ritornare ancora e ancora, ma è come se non riuscissi. Solo uno che si rende conto di questo, cioè della drammaticità del vivere, capisce che a questo dramma non possiamo rispondere, non riusciamo a rispondere, non abbiamo l’energia o la capacità per rispondere. Capirlo è fondamentale. Non è che tu debba bastonarti perché non riesci, non è che tu debba rimproverarti perché non riesci. È come se uno si arrabbiasse perché ha un tumore: gli piacerebbe non averlo, ma se, oltre ad averlo, deve anche colpevolizzarsi perché ce l’ha... Emerge qui tutta la tenerezza rispetto alla nostra incapacità. Che è la tenerezza con cui poi possiamo guardarci, se qualcuno ci guarda così. È proprio questo dramma che ha indotto Gesù a diventare nostro compagno di strada: perché da soli non possiamo risolvere la questione. Non è che possiamo “più o meno”. Non possiamo! Solo chi se ne rende conto potrà essere grato per il resto della sua vita che ci sia Gesù. E se non lo capiamo a livello personale, non possiamo poi capirlo quando dobbiamo affrontare questioni globali, sociali. Perché il problema è lo stesso: solo uno che capisce qual è il dramma vero del vivere può rendersi conto che ad esso non possiamo rispondere con altra modalità che non sia la mendicanza di Gesù e la gratitudine perché Egli c’è. Perché tu potrai rispondere a questa domanda soltanto se riconosci che hai bisogno di Cristo, che Lui ti riempia totalmente. Perché solo se Cristo ti riempie, tu puoi trattare la tua ragazza gratuitamente. Solo Cristo può rispondere adeguatamente. Non è un nostro tentativo moralistico a rispondere. Per spiegare la carità don Giussani dice: «Ti ha amato di un amore eterno. Ha avuto pietà del tuo niente». È una gratuità totale quella di Gesù. Che abbia preso iniziativa rispetto a noi, ci commuove talmente che, sotto la pressione di questa commozione, solo se l’avvenimento di Cristo continua ad accadere in noi – non soltanto come una cosa che so già, come un’istruzione per l’uso che so già, come un tentativo che faccio io –, possiamo trattare l’altro gratuitamente. Altrimenti ci disperiamo o diventiamo cinici davanti alla nostra impotenza, e diciamo che non è possibile, gettiamo la spugna e facciamo i cavoli nostri. È vero, non è possibile. Tanto che Gesù stesso dice: «Per gli uomini è impossibile». I discepoli – i discepoli, immaginatevi gli altri! – quando Egli parla loro della condizione per avere un rapporto stabile con una persona, con la moglie, esclamano: «Meglio non sposarsi. Se questa è la condizione della vita, è meglio non sposarsi». Per gli uomini è impossibile, ma per Dio no. E quindi? Tu segui Colui che ti ha incontrato per rendere possibile quel che per te è impossibile. Solo se uno accetta di mettersi alla sequela di Gesù, potrà sorprendere nel tempo – secondo un disegno che non è il suo – come questo accade. Accade qui. Non solo nella vita eterna. Accade: la vita eterna comincia già ora. Ma il punto è se noi ci rendiamo conto di quale è la questione. Perché altrimenti è come se, in fondo, dicessimo che questa è teoria. No, no, no, no! Questa non è teoria. L’unica questione, qui, è se c’è Uno che ti riempie talmente la vita che ti consente di essere libero nel rapporto con tutto, anche con la morosa. E quindi non hai bisogno del tornaconto, perché tu hai già ricevuto in anticipo molto di più di tutto il resto. È solo per la gratitudine che hai – come abbiamo sentito dire da don Giussani nel video Riconoscere Cristo – che può nascere la gratuità.

Grazie innanzitutto per tutta la compagnia che mi fai in questi anni. Di fronte a quel che sta succedendo nel mondo, in particolare ai nostri fratelli cristiani, spesso mi assalgono due sentimenti, specialmente quando sento le notizie o guardo il telegiornale. Il primo è di impotenza, il secondo è di paura. E allora volevo chiedere un aiuto su questi due atteggiamenti, perché quando mi capita l’uno o l’altro resto agghiacciato, fermo.

Sono umanissimi questi due sentimenti! Perché sentiamo tutta la sproporzione, e qui tutta la vita è messa alla prova. Per questo ripeto sempre che la vera difficoltà, quando ci troviamo davanti a queste circostanze, non riguarda il fatto in sé che dobbiamo affrontare. Il problema è che sorge in noi una domanda sul metodo scelto da Dio per cambiare la realtà. Perché – come mi avete sentito dire in tante occasioni – chi di noi avrebbe scelto uno come Abramo per cambiare il mondo? Nessuno. Noi avremmo pensato tutta un’altra cosa. Davanti a tutte le obiezioni, a tutte le circostanze, a tutte le sofferenze, a tutto, come è possibile che Dio abbia scelto un metodo che a noi sembra assolutamente fallimentare? Questa è la tentazione più grave che possiamo avere, perché la nostra impotenza può diventare dubbio sul metodo di Dio, come accade a tante persone davanti alla sofferenza o davanti a qualcosa che in fondo non capiscono. Si introduce una sorta di sospetto. Per questo è importante non lasciare senza risposta queste domande, perché sono come un virus che, se lasciato lì, dilaga. In questa impotenza tante volte vediamo tutta la testimonianza che Cristo dà attraverso certe persone, come quando vediamo Myriam – la ragazzina siriana del video –, quando vediamo padre Ibrahim, quando vediamo monsignor Nona, quando vediamo tante di queste persone, tanti fratelli. Quel che vediamo è come proprio dentro questa impotenza si rende presente la potenza di Cristo. Poter vedere queste cose è un segno, un cenno di come può essere anche per noi, davanti alla nostra impotenza. Che Dio decida di farsi carne per rispondere a tutto il dramma umano e che decida di farsi carne spogliandosi di Sé, di tutto il Suo potere divino, di tutto quel che avrebbe potuto mettere in atto per rispondere, ci sconvolge ancora di più. E che finisca – secondo il disegno di Dio – in Croce, nell’apparente sconfitta totale, è sconvolgente. Per questo se uno si ferma, resta senza la risposta a questa sua impotenza. Cristo percepisce tutta la nostra impotenza. E quando Pietro cerca di dare una mano, cerca di supplire tirando fuori la spada, Cristo gli dice: «Pietro, smettila!». Avrebbe potuto far scendere una schiera di angeli a dare una mano. E invece gli dice: «Non ho bisogno di te. Questo è il disegno del Padre in cui Io voglio entrare». Viene messa alla prova l’ultima affezione nostra a Cristo, come è messa alla prova l’ultima affezione di Gesù al Padre. Cioè: è lì, nell’impotenza totale, dove più brilla e risplende il legame di Gesù con il Padre. Quante volte abbiamo visto amici che, proprio nell’impotenza della malattia, si sono affidati con un abbandono fiorente, quando apparentemente tutto sembrava destinato a crollare. Crollava tutto l’aspetto esteriore – come direbbe san Paolo –, ma vedevamo emergere tutta la costruzione che era opera di un Altro. Il Mistero usa questo metodo – paradossale ai nostri occhi – per farci vedere questo. E allora, solo quando vediamo, possiamo poi capire anche che cosa fare per dare un contributo, per aiutare e condividere con i nostri fratelli tutto. Solo così possiamo vincere la paura, perché sappiamo in Chi abbiamo posto la nostra speranza. È tutto qui. Le difficoltà che attraversiamo nel vivere possono essere occasione per andare fino in fondo, domandandoci: io che cosa mi aspetto? La salvezza. Dov’è la mia speranza? È evidente che questo non si risolve una volta per tutte. Quando a uno viene la paura, quando gli viene lo sconforto, quando gli vengono le domande, se io non ritornassi a Dio ogni giorno, non potrei affrontare le sfide normali del vivere. Immaginate quanto questo diventi veramente sfidante nella situazione attuale. È impossibile all’uomo – come dicevo prima –, ma in questa situazione si vede più potentemente che si sta in piedi solo per la potenza di Cristo, che si rende ancora più palese. L’abbiamo ascoltato nella liturgia di recente: «Sarò io che parlerò in voi». Cioè: è Cristo che testimonia chi è Lui nella nostra impotenza. Non è il nostro volontarismo, non è il nostro moralismo, non è la nostra energia. Lo vediamo vincere nei nostri fratelli e in altre occasioni Lo vediamo vincere anche in noi.

Grazie per la vita che ci testimoni tutti i giorni e la serietà con cui ci guidi. Da un po’ di tempo alcuni amici si sono persi nella sequela e vivono con scetticismo ogni cosa che accade rispetto alle indicazioni che tu ci dai. Di recente don Primo ha detto: «Se la sequela diventa opinabile, il movimento finisce». Io mi sono reso conto che con le mie mani non posso fare giustizia e che questa cosa pian piano, nel tempo, mi ha spogliato e messo di fronte alla domanda tra me e me stesso: «Per me cosa vuol dire seguire? Come io seguo?». Ti voglio chiedere un aiuto. Mi sono reso conto di avere un rapporto “muscolare”, per così dire, con la sequela; per seguire occorre una commozione, mentre spesso mi capita di trovarmi il cuore indurito. Ci hai fatto vedere Myriam – che hai citato prima –, sicuramente la vita non le ha risparmiato nulla, eppure nei suoi occhi si vedeva il livello di sequela che io desidero. Ti abbraccio e ti ringrazio per come sei. Non mollarci mai.

Grazie amico, perché mi sembra che questa domanda riguardi tutti noi. Riguarda me, riguarda te, riguarda ciascuno di noi. Perché non c’è una questione più drammatica della sequela. Per una ragione molto semplice – senza grandi giri di parole –: perché sappiamo che da soli non andiamo molto in là senza perderci. Allora la questione è: se uno è consapevole di questo, deve decidere se pensa di cavarsela da sé oppure si mette alla sequela. Ma, quando diciamo che uno si mette alla sequela, che cosa intendiamo? Mi aiuta molto l’esperienza che faccio, e che ho fatto. Come sapete, per il fatto che abitavo a Madrid, non ho avuto la possibilità di una frequentazione costante – come invece tanti di voi hanno avuto – con don Giussani. Lo vedevo una volta l’anno, da lontano. Quindi per me la sequela passava attraverso tutto il desiderio di immedesimarmi con quel che mi arrivava di lui. Cioè la sequela – come poi ho trovato espresso nei suoi scritti – è l’immedesimarsi con l’esperienza che fa un altro. E questo io lo potevo fare anche in Spagna, perché immedesimarmi con l’esperienza di don Giussani voleva dire che io potevo sempre paragonare qualsiasi cosa io vivevo, qualsiasi tentativo facessi, con il mio cuore: se io ero più contento, se io vedevo le cose con più chiarezza o ero più triste, se qualcosa mi soddisfaceva o mi lasciava un amaro in bocca. È inevitabile perché – come ci siamo detti sempre – l’esperienza non inganna. Allora che cos’è la sequela? La sequela non è una questione personalistica. Don Giussani ha messo nelle nostre mani – e per questo gli sarò grato per il resto della mia vita, da qui all’eternità – un metodo talmente oggettivo che io non posso sbagliare per molto tempo senza che emerga alla mia esperienza lo sbaglio. Facciamo l’esempio – che abbiamo sempre fatto – del figliol prodigo. Il figliol prodigo può fregarsene del padre, pensando di poter raggiungere più in fretta la felicità che desidera, ma non può evitare di fare i conti con la sua esperienza. Deve fare la verifica del suo tentativo. E questo è l’esperienza. Nell’esperienza, anche se lui pensa di cavarsela da sé, non può non emergere, a un certo punto, che stare tra i maiali non lo rende contento. Non è tornato perché si è detto: «Poveretto mio papà che mi starà aspettando, gli ho dato abbastanza dispiaceri». No, no, no. È tornato perché dentro di sé si è reso conto che stava facendo la stupidaggine più grande della sua vita. Tanto è potente l’evidenza che emerge dall’interno dell’esperienza che non è tornato prima di tutto per il padre, forse pensava che il padre gli avrebbe dato un calcio nel sedere e lo avrebbe messo a fare il servo e lui si sarebbe accontentato. Non si immaginava di certo che il padre gli avrebbe dato una pacca sulla spalla! No, non lo pensava per niente. Pensava solo che nella casa di suo padre anche i servi vivevano bene – non i figli, i servi! –. Per l’esperienza che faceva, ha dovuto decidere se seguire quel che succedeva dentro di sé, quell’evidenza che gli veniva da dentro, o fregarsene. Seguire non è un problema personalistico. La questione è perché seguiamo don Giussani. Io perché lo seguo? Perché don Giussani ha svelato, ha messo davanti ai miei occhi qualcosa che io ho per natura: un cuore, una capacità di giudizio, una capacità di percepire la corrispondenza o meno di quel che faccio con quel che desidero. La sequela si gioca a questo livello di profondità della mia esperienza e questo – qualsiasi sia la persona, qualsiasi sia la situazione, qualsiasi sia la modalità con cui percepisci ogni cosa, qualsiasi sia lo scetticismo o la mancanza di verità – è inevitabile. Allora l’unica carità da avere gli uni con gli altri è invitarci a fare esperienza, perché è nell’esperienza che emerge ai nostri occhi che cosa ci corrisponde. In fondo, la sequela a che cosa è? La sequela è alla corrispondenza che io percepisco in me. E non per moralismo, ma perché io, vivendo in un certo modo, percepisco che la mia vita è cento volte tanto rispetto a ciò che sarebbe se mi facessi gli affari miei. Allora, aiutiamoci in questo! Perché questo è oggettivo. È oggettivo: uno può andarsene di casa o può restare. Attenzione, perché lo vediamo nella stessa parabola, paragonando i due figli: uno può andarsene e imparare – anche dallo sbaglio – e ritornare a casa come figlio, e l’altro può restare e non capire niente. Non basta restare in casa e non avere difficoltà, e per questo essere a posto. Potremmo non essere a posto, potremmo essere più schematici di colui che se n’è andato. Per questo dico che è una chiamata per tutti – tutti! –, qualsiasi sia la situazione. Quale esperienza posso comunicare? Quale esperienza sto facendo io? Se io non faccio esperienza, non troverò neanche le ragioni del seguire. È quel che ha detto don Giussani – e noi non dobbiamo mai dimenticarlo, mai! – dal primo giorno in cui ha messo piede al Berchet: «Non sono qui perché voi riteniate come vostre le idee che vi do io, ma per insegnarvi un metodo vero per giudicare le cose che io vi dirò» (Il rischio educativo, Bur, Milano 2016, p. 20). Ha messo nelle nostre mani il metodo. E il resto della partita ce lo giochiamo insieme, aiutandoci, zoppicando, sbagliando, tentando, a volte azzeccando la risposta e a volte no. Ma non importa. Perché una delle cose più belle quando sbagliavo, era che rendermi conto dello sbaglio, mi faceva imparare qualcosa che restava per sempre. Non importa non sbagliare. Importa crescere. Allora ti ringrazio della domanda, perché se noi non andiamo a fondo di che cos’è la sequela... Se seguiamo Cristo, è solo per l’esperienza di corrispondenza che abbiamo vissuto. Perché i discepoli Lo hanno seguito? Non sapevano che era la Seconda Persona della Trinità, non potevano immaginarlo! Lo hanno seguito solo per l’esperienza di corrispondenza che hanno fatto. La questione è se noi seguiamo l’esperienza della corrispondenza. Perché non possiamo andare molto in là, percorrere molta strada, senza renderci conto se ci corrisponde o no. Qui sta la serietà o no con se stessi: se resisto a ciò che vedo. Il problema non è innanzitutto con la moglie o il marito, con il capo o con il responsabile. Il problema è con me stesso: se, vedendo certe cose, accetto o non accetto di seguire ciò che vedo io. Non ciò che non vedo, ma ciò che vedo.

Studio Ingegneria. Voglio raccontare brevemente com’è andato l’ultimo periodo di studio e fare una domanda che è nata e che mi porto dentro. È stato un periodo in cui ho fatto più fatica di altre volte. Ho sentito molto la fatica di stare sui libri, dello studio. Questo prima di tutto mi ha fatto accorgere che ho molto bisogno, che sono bisognoso. E ho iniziato a chiedere di più, ad affidarmi di più e ho anche visto che sono riuscito ad apprezzare parti dello studio...

Vedete? Basta che uno cominci a parlare della vita che subito emergono le questioni: in questo caso, la fatica. Allora comincio a riconoscere il bisogno che prima non pensavo di avere così forte. E così comincio a chiedere e a seguire. Uno non si pone il problema del seguire se sta nell’astratto! Si pone il problema quando si trova davanti a una fatica e non sa come uscirne. Non sa come uscirne. E allora?

Però vedo che questa fatica ha introdotto un dubbio, quasi una sfiducia che quel che sono chiamato a fare sia sempre per me, per la mia felicità. Oltre a questo ho anche un dubbio sul futuro, sul fatto che ci sia un disegno buono sulla mia vita: alcune volte, proprio dentro questa fatica veniva fuori questo dubbio, questo senso di vuoto; e così si svuota di significato anche il presente, quel che sto facendo, perché non so più bene per chi e perché faccio le cose. Vedo che sempre meno riesco ad andare avanti ignorando questa cosa o provando a coprire un po’ quel che desidero. Ho provato a dirmi: ora studio, basta, passato l’esame sarò un po’ più a posto. Ma non era così, anzi, mi arrabbiavo di più. Come può diventare più salda, più sicura la certezza che la mia vita è salvata, che c’è un disegno buono che mi fa affrontare con coraggio anche il presente? Perché se no, manco del coraggio per scommettere sulle cose.

Che cosa è già emerso nella tua esperienza? Perché dici, alla fine, che non riesci ad andare avanti? Che cosa vuol dire questo?

Che, quando provo ad accontentarmi, ne esco più triste di prima.

Vedi? Non hai dubbi su questo. Non hai un dubbio. Hai una chiarezza solare: non ti accontenti più! Il problema è che tante volte noi non ci rendiamo conto di quel che emerge nella nostra esperienza! Allora continuiamo a girare la frittata. Perché nell’esperienza tu il dubbio non lo hai! Poi, se ti lasci andare all’astrazione, ti crei dei dubbi. Tu però non riesci ad andare avanti così. Il che vuol dire che, prendendoti sul serio, hai la percezione – pur embrionale – di un disegno buono. Segui questo! Segui questo germoglio che si è affacciato sulla tua vita! Segui questo, perché questo è già la dimostrazione, il segno più palese che il nulla è stato sconfitto, anche se solo per un briciolo. E se tu segui, vedrai come cominci a vedere di più e di più! E allora cominci a vedere il vero disegno buono; e questo non c’entra assolutamente con il disegno buono che hai in testa tu perché non vedi il rapporto! Il Signore già ti sta rispondendo, ti sta facendo vedere qualcosa ma tu continui ad avere un’immagine che non si sblocca. Aiutarci in questo, amici, aiutarci a vedere come il Mistero sta rispondendo, come è già in atto nelle cose che stiamo desiderando, è il gesto d’amicizia più grande che possiamo vivere tra noi. Vederlo ogni volta che incontro i ragazzi del Clu è per me impressionante. Perché mi basta semplicemente aiutarli a rendersi conto di quel che già hanno detto; la maggior parte delle volte, seguire è seguire ciò che già è emerso nella loro esperienza. Guidarli è seguire quello che testimoniano (come in questo caso, io avrei potuto staccarmi da quel che tu hai detto e cominciare a fare la disquisizione sul disegno buono, invece di mostrare ciò che il Mistero sta già facendo emergere del Suo disegno buono), perché è il passo che il Mistero sta facendo fare loro per riscoprirLo. Aiutarci in questo richiede un amore, un’attenzione, una discrezione, una capacità di ascolto, una capacità di cogliere quel che sta succedendo, una capacità nostra di sequela, di identificare i segni attraverso cui il Mistero ci sta parlando attraverso la persona che abbiamo davanti; è il segno più grande dell’amicizia.

Faccio l’insegnante. Voglio fare due brevissime premesse. La prima è che ieri sera ho ricevuto una tua mail.

L’imprevisto!

Sì, è stato davvero un imprevisto che mi ha fatto molto piacere. La seconda premessa è che effettivamente la vita è un dinamismo continuo, per cui quel che hanno chiesto loro e le tue risposte in qualche modo già mi hanno risposto, ma comunque domando: come si fa a uscire dall’autoreferenzialità di cui ci ha parlato il Papa a Roma? Con questo termine intendo l’affronto di questioni tipo: il movimento e le unioni civili, il movimento e la politica, il movimento e questo, il movimento e quell’altro. Una cosa così non dice molto alla mia vita di oggi o perlomeno a ciò che mi interessa oggi di fronte alle situazioni urgenti e quotidiane del cuore, di fronte alle tante fatiche del vivere e anche di fronte alle questioni poste dalla mia ragione nel confronto con la vastità delle questioni culturali che si aprono – io faccio l’insegnante, poi sono uno molto pigro, sto molto a casa e quindi leggo molto –; delle volte vedo che davvero uno si avventura in mare e quasi rischia di perdere la bussola. Allora, di fronte a tutto questo, ciò che mi interessa è percepire – anche attraverso il movimento – l’aprirsi di un orizzonte continuo, infinito, quello misterioso della misericordia di Dio, della bellezza persuasiva e affascinante di Gesù che parli alla mia vita e che mi chiami per nome, come tu dici nel tuo libro a proposito di Maria di Màgdala.

Ti ringrazio, perché non mi sembra che le due cose siano in contrapposizione, proprio perché noi abbiamo questa urgenza che tutti possiamo sottoscrivere senza alcun dubbio. Chi non desidera un orizzonte infinito? Chi non desidera una familiarità con il Mistero? Penso che nessuno sarebbe qui, se non fosse per questo presentimento: stare insieme ha a che vedere col fatto che il cuore dell’uomo non può non desiderare (come noi stessi abbiamo visto in tante occasioni). Lo descrive Il senso religioso, lo descrive tutta la tradizione cristiana parlando dell’uomo. E lo documentano persone come Leopardi o Pavese. Perché? Perché l’uomo non può non desiderare. Questo, secondo me, è molto importante, perché una comunità cristiana deve rispondere a questo, trova la sua ragione d’essere nell’aprirsi a questo. Come don Giussani ci ha sempre detto, lo scopo della Chiesa è ridestare costantemente il senso del Mistero, ridestare costantemente il senso religioso. Per questo il primo compito di una comunità cristiana è proprio quello di prendere sul serio il desiderio. Uscire dall’autoreferenzialità vuol dire uscire da ciò a cui noi di solito possiamo ridurre la vita. Nella nostra compagnia troviamo un luogo che costantemente ci riapre l’orizzonte. Quante volte l’abbiamo sperimentato come il dono più grande che ci può capitare nella vita! Per questo non possiamo dimenticare che la comunità cristiana ha una ragion d’essere solo se educa a questo. Se non educa a questo, vuol dire che non ha come scopo la risposta alla sete di infinito che ciascuno di noi ha, e nel tempo non potrà durare il nostro interesse per essa. Questo è fondamentale. Ma, proprio per questo, io non lo metterei in contrapposizione, proprio perché dentro a questo orizzonte non posso non desiderare che c’entri con tutto, nel modo giusto, con tutto: con le unioni civili, con la politica, con tutto. Il punto è che ogni aspetto acquisti le dimensioni di questo orizzonte grande, sterminato. Uno – come diceva il nostro amico all’inizio – non desidera altro se non che il suo rapporto acquisti questa dimensione misteriosa, gratuita. Non è che chiunque parli non desideri questo, cioè di non essere determinato dalla paura e di percepire il disegno buono in tutto quello che fa, che il Mistero entri nelle viscere del nostro io, del nostro quotidiano. Questo Mistero renderà tutto sempre più affascinante. Non è il concetto di centuplo? Attraverso tutto possiamo rintracciare questo orizzonte ultimo. Quindi non è che ci siano momenti in cui lo possiamo rintracciare, ma poi, nel resto della vita, dobbiamo sopportare le cose quotidiane. No. Io desidero – da quando mi alzo al mattino – nelle cose banali o quotidiane che tutto sia riempito, perché altrimenti che senso ha? Uno soffoca nel proprio brodo, cioè nell’autoreferenzialità. Perché uno chiude se stesso nel piccolo orto dei suoi interessi o di ciò che richiama più l’attenzione. Invece non necessariamente deve essere così. Io mi auguro che tutti noi possiamo veramente aprire l’orizzonte e tutto quanto tocchiamo sia riempito da questo, che niente ci sia veramente estraneo, che tutto sia investito da quella «Forza dall’alto» che descrive la Scuola di comunità. Perché così, in ogni cosa che facciamo, può trasparire il Mistero. Perché noi – tra di noi e con gli altri – ci incontriamo nelle cose concrete. I tuoi studenti trovano te nelle tue lezioni. Se attraverso le tue lezioni non arriva loro questa trasparenza del Mistero in te, sarà difficile che lo possano trovare altrove. Il Mistero ha chiamato te, passa attraverso di te. Non possiamo lasciare che il Mistero non c’entri con tutto. «Con tutto» vuol dire «con tutto ciò che interessa la vita». E, se siamo sfidati da tutto, non c’è guaio che ci distragga da questo. Anzi, ci serve per vedere ancora di più che cosa c’entra il Mistero con quel particolare, per poterlo fare risplendere. Infatti, nel modo di trattarlo, Gesù non esclude niente della vita, del dramma degli uomini. Anche quando Lo sfidano in cose che sembrerebbero non c’entrare. Parlano del tributo a Cesare e Gli chiedono: «Cosa dici?». Uno potrebbe pensare: adesso Lo hanno incastrato. E invece: «No, adesso ho l’occasione di dire tutta la mia diversità. Voi mi volete incastrare. Se dico: “Non occorre pagare il tributo a Cesare”, mi accusate di essere un ribelle rispetto ai romani, al potere romano. Se invece dico: “Pagate a Cesare”, mi accusate di essere un collaborazionista malvagio”. Allora per mostrarvi la mia misteriosità vi dico: “Date a Cesare quel che è di Cesare, e a Dio quel che è di Dio”». In quel momento Gesù introduce qualcosa che ha segnato tutta la storia. Quindi il problema non è lasciar fuori qualcosa, ma che tutto si riempia del Mistero perché in tutto traspaia – e tutti possano vedere – la novità di ciò che ci è capitato.

Spero di portare un esempio di quel che hai appena detto, provando a rispondere alla domanda che ci siamo dati. Tra i fatti che più mi aiutano a vivere, portando un giudizio storico sulla situazione sociale e un contributo a tutti i nostri fratelli uomini, c’è sicuramente il movimento cresciuto intorno al Family Day, iniziativa nata con un gruppo di amici come tentativo di affermare pubblicamente la verità e il valore di realtà sociali fondamentali come la famiglia, il matrimonio, i diritti dei più deboli, di fronte al tentativo di scardinarli dalla coscienza collettiva del popolo italiano, con la legge relativa ai “matrimoni omosessuali”. Personalmente è stata l’occasione di vedere in azione e sperimentare con gratitudine l’amore alla verità e un vero e proprio gusto nell’affermarla davanti al mondo, il valore imprescindibile dell’unità fra quanti di noi abbiamo giudicato insieme il valore di quel gesto, quindi faticato e fatto sacrifici per potervi partecipare, l’incidenza effettiva di una testimonianza pubblica pur nella libertà dall’esito, ma innegabile sotto tanti aspetti – anche se poi abbiamo perso in Parlamento –, la scoperta di una fratellanza – questa proprio una novità – con tanti uomini di buona volontà e realtà cattoliche diverse, con cui ci siamo trovati compagni di strada e con cui il lavoro è anche proseguito (per esempio, con il tentativo – trovandoci insieme – di arrivare a un giudizio comune e a muoverci unitariamente in vista delle prossime elezioni amministrative). Quindi è nata anche un’operatività. La scoperta dunque – come insegna Perché la Chiesa – che l’unità dei cristiani – il mettersi insieme – non è un dover-essere, ma un inevitabile «dato di fatto comunitario» (Perché la Chiesa, p. 93). Mi ha colpito questa espressione di don Giussani. Da questi fatti, quindi, è passato nella mia esperienza il nostro giudizio storico sulla situazione sociale e la percezione – umile, ma indubitabile – di aver portato un contributo buono a tutti i fratelli uomini, anche a quanti ci osteggiano.

Ti ringrazio del contributo, perché – come ci eravamo detti quando parlammo di questa vicenda – si tratta di sfidare l’esperienza di ciascuno a verificare il proprio tentativo. E quello che hai raccontato è una parte del tentativo che stai facendo. Prendere sul serio questo ti ha fatto fare un cammino, un percorso. Ma tu adesso devi continuare questa verifica, perché questi sono i passi che hai fatto, e dovremo verificare nel tempo che cosa è successo da allora, perché questa è solo una parte della vicenda. Perché? Perché la questione è che – malgrado tu abbia fatto questo passo – nella società italiana c’è un tipo di mentalità che continua a dilagare e che non si lascia bloccare da un Family Day. Perciò dobbiamo vedere se, oltre questo tuo contributo, c’è un modo di porsi che possa sfidare la mentalità degli altri. Nel prossimo futuro potremo verificare anche questo. Dunque, l’unica cosa che posso fare è incoraggiarvi a una verifica serrata, come dicevo prima. Perché queste sono esemplificazioni del cammino che uno ha fatto, dell’esperienza che uno ha fatto. Come il figliol prodigo ha fatto la propria esperienza, come ciascuno fa la propria esperienza, così ciascuno deve verificare fino in fondo quale esperienza fa, per poter trarre tutte le conseguenze. Ti ringrazio per questo, perché lanci tutti noi a verificare come ciascuno si è posto davanti a una sfida come questa. Qualcuno può aver pensato che non occorresse andare Roma, ma senza aver fatto alcun tipo di verifica, e per questo motivo non ha seguito di più di chi è andato. Vale a dire: la questione è se ciascuno, per il punto del cammino in cui è – a partire da ciò che percepisce come risposta adeguata al bisogno che ci troviamo davanti –, ha fatto il percorso che deve fare. Poi ci aiuteremo reciprocamente a guardare che cosa dice l’esperienza, che cosa ognuno di noi impara dal percorso fatto. Solo così – se non vediamo in contrapposizione l’esperienza dell’uno e quella dell’altro – potremo veramente guadagnare insieme una chiarezza, una capacità di affrontare la situazione, le sfide – oggi sono queste, domani saranno altre, dopodomani altre ancora –, condividendo l’esperienza personale, senza chiuderci nell’autoreferenzialità, di un tipo o di un altro, per poterci ascoltare ed essere aperti a quel che la realtà ci dirà. Perché la realtà non smette mai di parlare. Per questo io vi incoraggio a non chiudervi ciascuno nel proprio tentativo, ma ad ascoltarvi a vicenda. Perché non abbiamo in tasca la strategia giusta! Il nostro è un tentativo, come altri hanno fatto i loro tentativi. La questione è se noi tutti siamo tesi a rispondere di più alla sfida che abbiamo davanti, perché in tante occasioni abbiamo visto che cosa produce: si accende una piccola luce per aprire l’orizzonte, che a volte non si scardina solo con una legge giusta, perché abbiamo visto in passato che c’erano leggi stupende, perfette, molto più belle di quanto si potesse pensare, ma esse non hanno impedito l’avanzare e il dilagare di una mentalità scardinante. Che cosa ci dice questo? Non censuriamo le domande. Non incastriamoci, rimanendo ciascuno nella propria posizione. Perché non abbiamo la risposta in tasca. Ci conviene ascoltarci, condividere l’esperienza, essendo disponibili proprio alla verifica del tentativo che ciascuno fa. Grazie.

Alla Scuola di comunità del 17 febbraio non ho partecipato per motivi familiari. Ho letto gli appunti. All’inizio don Giussani parlava dell’episodio del pellegrino antico. Don Giussani immagina che se duemila anni fa un pellegrino a Gerusalemme avesse visto queste persone che andavano al tempio un giorno, poi il giorno seguente...

È l’immagine del Portico di Salomone.

Ecco, sì, il Portico di Salomone. Dice Giussani: cosa avrebbe pensato quel pellegrino antico? La risposta è che erano i seguaci di Gesù. Poi (e adesso torniamo ai giorni nostri e arrivo a me) hai domandato: se vedesse noi un pellegrino contemporaneo che cosa potrebbe pensare di CL, dei suoi partecipanti? Parlo a livello personale: se vedesse me, comincerebbe a storcere il naso e non si farebbe un ottimo giudizio. Ma io persevero! Perché? Dopo dieci anni di frequentazione, non noto in me un miglioramento. Arranco. Un giorno mi sento un «apostolo», un altro giorno mi sento un «traditore».
Questa è la tua sanità! Vuol dire che non ti sei montato la testa! Riconosciamo i nostri limiti.

Li riconosco, sì, ma mi arrabbio con me stesso tutti i giorni. Poi ne fa le spese anche mia moglie, perché mi vede sempre arrabbiato, ma questo è un altro discorso che dovrei risolvere personalmente. Bonariamente, eh?!

Assolutamente. Non abbiamo dubbi.

Però mi rimane un cruccio personale: mi arrabbio con me stesso.

Per questo il Papa ha indetto “per te” l’Anno della Misericordia! Il Papa afferma che c’è speranza per tutti. Anche per chi non migliora, come te e come me. Capisci? Anche per quelli che non provano alcuna disperazione. O che non Lo vedono come piacerebbe loro vederLo. Non devi misurare. Mi dà sempre molta pace quando Giussani dice: «A un certo punto stavo dicendo che la vita cresce lentamente, che non si vede crescere la vita... [...] La vita cresce, ma non la vedi crescere. Tutti erano lì con la faccia un po’ stranita, non capivano. “Ma come, non capite questa cosa qui? Fuori tutti!” Allora li ho portati fuori e c'era una bellissima aiola di tulipani olandesi ancora non del tutto fioriti. “Fissate questi fiori: sono vivi o morti?” “Vivi.” “Se sono vivi si muovono, la vita si muove. Fissateli bene: quando li vedete muovere ditemelo.” Sono stati lì... e io sono andato via! Eran là sconcertati e io sono tornato dopo due minuti, un minuto e mezzo, e ho detto: “Potrei lasciarvi qui tutto il giorno di oggi e domani, diventereste delle cariatidi, ma non potreste mai vedere la vita venir su, eppure vien su”» (Si può vivere così?, Bur, Milano 2009, p. 109). Se ti fermi a vedere se l’erba del tuo giardino cresce o no, la vedi crescere? No. Ma se ritorni dopo un po’, la vedi cresciuta. Allora, aspetta. Perché la vita continua a crescere! Anche se a volte non possiamo misurarla nell’istante.

Volevo riprendere la domanda del nostro amico ingegnere. Mi colpisce – non essendo più così giovane – che, andando avanti nella vita, io subisca molto violentemente una tentazione. Riconosco che è una tentazione del demonio, però molte volte mi sembra veramente ragionevole. Riguarda il fatto su cui tu hai insistito molto negli anni: di non accontentarsi, perché il desiderio è ciò che muove la vita e che fa crescere.

Sei d’accordo o no?

Ho dei dubbi. È come essere andato in mare aperto, e il demonio mi tenta e mi dice: «Vedi, tu hai desiderato tanto, però questo desiderio non ti ha fatto sposare, non ti ha fatto fare questo, non ti ha fatto fare quello... Di nulla ti sei accontentato». È come essere in mare aperto, come Colombo che andava alla ricerca dell’America. Sei in mare aperto, non vedi ancora l’America, non vedi più la Spagna e allora il demonio mi tenta e mi sembra ragionevole, in certi momenti. Poi uno si ferma, si va a confessare...

Questa è una domanda su cui tornate spesso! Dite che non vi accontentate, no? Ma questo, secondo te, vuol dire che il desiderio viene meno o che il desiderio continua a essere vivo in te?

Il desiderio continua a essere vivo.

Allora, scusa. Ma questo...

Scusa. Posso? Quel che mi colpisce è che nella mia vita ci sono stati dei momenti nei quali Gesù mi ha riempito: tu lo dicevi prima, cioè che uno ci sta non solo perché il desiderio aumenta, ma perché comunque tu vedi che Gesù abbraccia questo desiderio. Invece molte volte, magari, uno si chiede: ma che cosa vuole da me il Signore? Tu hai fatto spesso l’esempio di Abramo. Tra quando è stata fatta la promessa ad Abramo e quando Dio l’ha mantenuta sono passati venticinque anni. Può anche essere che uno debba aspettare tanto, però in questa attesa, in questo attraversare il mare, ogni tanto mi manca la terra sotto i piedi, o meglio l’acqua sotto lo scafo.

Capisco che a volte ci incastriamo in tale questione, perché sembra che il desiderio della vita non si compia, che la promessa che Dio ci ha fatto non si compia. Ma al tempo stesso ci sorprendiamo perché non ci accontentiamo più, non diventiamo scettici, ci sorprendiamo di desiderare ancora, tant’è vero che la questione ci urge. Ma noi non ci capacitiamo del fatto che il mantenere vivo questo desiderio è la modalità con cui Dio compie la promessa. Perché l’alternativa sarebbe quella di essere un sasso o scettico. Io faccio sempre questo esempio, perché non ne trovo un altro più efficace. Che uno si innamori e che abbia sempre più nostalgia della persona cara, è il segno che ha trovato la risposta o è il segno di una non risposta? Dobbiamo pensare a questo. Perché noi, in fondo, abbiamo un’immagine strana del compimento del desiderio: se Dio compie il desiderio, vuol dire che io non desidero più; se lo compie, il fatto che lo compia vuol dire che non ho più il desiderio, l’ha compiuto talmente, sono così soddisfatto, che non desidero più. Se così fosse, vorrebbe dire che Cristo sarebbe venuto a fare il contrario di quel che ha dichiarato. Giussani afferma che Cristo non è venuto solamente a rispondere al nostro desiderio, ma a ridestare costantemente il nostro desiderio. Perché può ridestarlo? Perché chi ti fa innamorare può ridestare di più il tuo desiderio? Perché non l’hai trovata o perché l’hai trovata? Io dico: meno male che il Mistero non ci ascolta! Perché se ci ascoltasse e si avverasse in noi quel che pensiamo di desiderare, alla fine sarebbe come se il compimento del desiderio in noi fosse l’encefalogramma piatto. Non so se ci conviene. Ciò che Gesù introduce nella vita non è un appiattimento del desiderio, ma un dramma: non è che io non abbia più il desiderio, io ho più desiderio di prima! Ma so che questo desiderio non lo posso gestire, non lo posso scavalcare, non lo posso trascurare, perché mi è dato per cercarLo, giorno e notte. Come la nostalgia che uno sente per la persona amata: gli è data non per trascurarla, ma per cercarla giorno e notte. Quando uno prende il tram e va a casa, quando sta passeggiando, quando è da solo, quando prende l’aereo. È perché tutto diventi occasione di un rapporto. Se la vita non è questo, che cos’è? Il fatto che Dio abbia risposto al mio desiderio non significa che non ho più bisogno di nulla. Cosa sarebbe una mattina in cui non avessi il desiderio di cercarLo ancora? Di fronte a questa questione c’è in noi come un cortocircuito, tale per cui Cristo, per compiere la promessa, deve esaudire l’immagine che abbiamo in testa noi, in modo che non ci tocchi più di desiderare. Sarebbe il compimento del desiderio del bicchiere: è vuoto, e quando io lo riempio non entra una sola goccia in più. Non entra più niente, non desidera più, non ha bisogno più di altro. Ma una vita così diventa un problema enorme nella nostra società, come stanno rilevando alcuni acuti osservatori della realtà. Leggevo di recente un testo: «Il problema del nostro tempo è la mancanza di mancanza». Non l’eccesso di mancanza, ma la mancanza di mancanza! Tanti uomini testimoniano che ormai non avvertono più il desiderio, e questo fa affondare la loro vita. Meno male che non è così per tutti! Perché il giorno in cui vincesse questa mentalità, questa posizione, non ci sarebbe cosa più triste: alzarsi la mattina senza la mancanza di qualcosa, la mancanza della persona amata, la mancanza (in fondo) di Cristo! Allora il cristianesimo sarebbe ridotto semplicemente a una “droga” per annientare e seppellire qualsiasi desiderio emergente. Col che avrebbe avuto ragione Marx. Tutti i “maestri del sospetto” avrebbero ragione. Invece non hanno ragione! È il contrario! Il cristianesimo, quando accade, è il contrario. Non è qualcosa che appiattisce tutto, ma che esalta tutto! Se non fosse così, perché varrebbe la pena essere cristiani? Di “droghe” ce ne sono diverse. La vera sfida è cosa ridesta costantemente il desiderio, soprattutto a partire da una certa età. Quando uno è più giovane, è come in amore: quando uno incontra l’amore, è facile avere questo rapporto. Quando uno diventa più vecchio, il problema è che ci sia ancora il desiderio. Che resti ancora qualche traccia di desiderio. Che possa alzarmi al mattino con tutta la grinta che avevo quando ero giovane: questo è il problema del vivere. Vale a dire: non perdere la vita vivendo. Se non fosse così, che interesse avrebbe? Ma soprattutto: che cosa ci aspetterebbe nella vita eterna? L’eterna noia? L’eterno torpore? Il nulla? No – come dice don Giussani –, la vita eterna è soddisfare una sete continua. Meno male che ho la sete, perché il giorno in cui non ho più sete non posso gustarmi il bere. Il compiersi della vita è forse nel non gustare più il bere, nel perdere la sete? Siamo matti?!

Racconto l’esperienza che ho fatto durante un fine settimana al mare, così come l’ho scritta a un amico: «Bellezza, obbedienza e letizia: le ho viste tutte e tre in questi due giorni. Devo ringraziare e ringraziarti per la semplicità e la lealtà con cui ci hai guidati. Questo è l’amico vero. Questa è l’amicizia vera. Va oltre la simpatia. O, meglio, parte da questa e la supera. Perché quella va e viene, a seconda del momento e di come gira. Gli amici veri guardano insieme verso lo stesso obiettivo chiaro: non può che essere Gesù. Mi hanno colpita i bambini. Ce n’erano tanti e molti anche piccoli. Eppure, come sono stati attenti. Dalla preghiera, al video, alle parole, ai giochi e ai canti. Con i miei figli praticamente non ci sono stata. E forse un tempo avrei avuto la preoccupazione di non averli guardati abbastanza. E invece mi rendo conto che la cosa importante è che loro abbiano seguito e partecipato a tutte le proposte che sono state fatte. Tanto sono guardati da Lui, da chi conta davvero. Ciò che più si può desiderare è la fede per me e per loro. Sarebbe stato bello piantarsi lì con una tenda, come volevano fare i discepoli sul Monte Tabor. È bella la convivenza fraterna, però non ci si può stare per sempre. E allora dico che il bello è proprio portarsi a casa la bellezza e la letizia di questi giorni a scuola, al lavoro, ovunque, perché sta lì il bello della vita, la nostra vocazione, dove rispondiamo all’Autore ultimo di tutto questo. Questa percezione ce l’ho ora, perché l’opera del Mistero è davvero misteriosa! La fatica che ho fatto negli ultimi mesi nello stare dentro la mia famiglia, il pensiero di stare da sola o che stando da un’altra parte e con qualcun altro avrei potuto stare meglio, mi fa domandare il senso delle cose e di quel che faccio. E allora Dio – che la sa lunga – ti prende proprio attraverso il tuo peccato. Sì, perché è proprio un peccato, un dispiacere non voler rispondere alla propria vocazione, ciò a cui sei chiamato. E ci sono due strade: o te ne vai e cerchi altrove la tua felicità, ma in fondo sai che lì per lì sei soddisfatta e poi crolla tutto di nuovo, oppure ci stai e rispondi, perché la promessa è troppo grande e ti vuoi fidare. Guarda caso c’è la Chiesa che ti sostiene, ma non ti giustifica. Ed è lì per te. Ti vai a confessare e attraverso il prete che hai davanti, attraverso l’umanità, incontri la misericordia in persona. Provi ad andare a Messa con un impeto diverso (non con la pesantezza di chi pensa che quell’oretta sia una perdita di tempo), fino a quando non puoi farne a meno. E provi e tocchi con mano che quel gesto ti fa conquistare tutta la giornata. A un certo punto, il marito che ti sembrava solo fastidioso e pretenzioso e i figli che ti fanno stancare sono il mezzo attraverso cui Dio si fa cercare e non puoi più fare a meno di quel fastidio e di quella stanchezza. Mentre cerchi l’effimero e allo stesso tempo chiedi perdono, ti rendi conto che il desiderio infinito che hai è proprio rispondere al bene di tuo marito e dei tuoi figli. Lì dove sei, non da un’altra parte. E si arriva ad avere una percezione nuova della realtà, degli altri e di sé, che, una volta provata, una volta convertita, non ci si può riconvertire al prima. E si è portati a un livello a cui pretendi di tendere ogni istante, e lo chiedi in ogni cosa che fai, perché hai la consapevolezza che non sta nelle tue capacità o incapacità. Infine ringrazi di tutto: delle cose piacevoli e di ciò che ti sembra ostile, e intuisci che basta mettersi gli occhiali che Gesù ti offre ed è tutto straordinariamente evidente e naturale, come quando a Torino c’è il sole e le montagne, che sono sempre state lì dietro la nebbia, una mattina ti travolgono».

Grazie, perché questo è un esempio del seguire, del seguire facendo esperienza, verificando un’ipotesi dove niente è escluso: l’esperienza di una bellezza, il tornare a casa e sentirsi da sola, vedere tutto attraverso quella ferita che resta, e non vedi più tuo marito e i tuoi figli con gli occhi con cui li hai visti altre volte, e anche attraverso il peccato il Mistero ti chiama. Questo è ciò che il Papa ci sta dicendo. Niente è escluso in questo Anno della Misericordia, niente. Anche attraverso le fatiche che facciamo, gli errori, gli sbagli c’è una speranza. E uno comincia a rendersene conto, perché è il momento della grande decisione: o me ne vado o aspetto che risponda. E allora percepisci la Chiesa, pur con i limiti che tutti vediamo, come l’unica realtà che ci sostiene. Che bellezza poter riscoprire, nella Scuola di comunità che stiamo facendo, tutta la preferenza di Cristo, sentire che – malgrado tutta la nostra povertà, la nostra testardaggine, la nostra resistenza – ancora ci sceglie, ancora ci chiama, ancora ci attira. Per noi questo è un compimento della promessa? È la modalità con cui il Mistero continua a preferirci, ad attrarci e a sceglierci: attraverso questa realtà con tutti i limiti che sappiamo. Attraversando tutto ciò uno si rende conto che non vorrebbe essere da un’altra parte. È come se tutti dovessimo percorrere la strada del figliol prodigo, è come se ciascuno dovesse passare attraverso le difficoltà con il marito o con i figli per poter riscoprire il dono che sono. Il cammino che facciamo, amici, è per riscoprire questo costantemente. Se uno non lo fa, potrà forse restare – come il figlio grande –, ma a disagio, in fondo pensando che l’hanno preso in giro. Invece, che uno possa ammettere, possa riscoprire, attraversando tutte le difficoltà, che non gli piacerebbe essere da un’altra parte dice della rivoluzione, del cambiamento di sguardo sulla realtà che prima avevamo percepito in un modo parziale e che ora percepiamo in un modo giusto. Perché non è che il Mistero non ci dia i segni, ma tante volte noi li percepiamo come ostili e avversi. E se dobbiamo fare questa strada, se ci conviene seguire, se ci conviene vivere la sequela attraverso l’esperienza per riscoprirlo, come hai fatto tu, è solo affinché uno si trovi di nuovo a casa. E se Dio corre il rischio della nostra libertà è perché uno ritorni a casa come figlio. Non fatevi problemi, non abbiate paura del rischio, delle difficoltà, del fatto che uno segua una forma e un altro un’altra. Il problema è fare una strada per riscoprire dov’è il posto in cui uno vorrebbe restare sempre, per riscoprirlo in continuazione. Qual è il problema? Darlo per scontato. Perché allora non ci godiamo la vita e ci lamentiamo di come stanno le cose. Invece, quando uno ha fatto veramente un’esperienza e lo ha riscoperto tutto, non è che all’improvviso non vedesse più i limiti che c’erano. Non è che quando è tornato il figliol prodigo non vedesse i limiti. Ma quel che prevale è la gratitudine di essere a casa, di avere un luogo per sé, del fatto che il Mistero abbia ancora pietà di lui e gli offra un luogo tale che non desidererebbe essere da un’altra parte. Questa è la possibilità che ciascuno di noi ha, qualsiasi sia il punto in cui si trova. Amici, siamo insieme solo per questo: perché ciascuno possa riscoprire per sé il posto in cui è collocato, non come una palla al piede, non come un luogo soffocante, ma come il luogo dove uno veramente vorrebbe restare per sempre. Che novità ha introdotto Cristo! Non perché ci risparmia il cammino, ma perché ce lo fa scoprire tutto, con una diversità che, quando uno la sente raccontare così come ce l’hai raccontata tu, non può che dire: è vero! È vero, perché tu – che l’hai attraversato tutto – non te lo saresti potuto immaginare prima. È come uno che, a un certo punto, si arrende all’evidenza che emerge nell’esperienza ed esclama: questa è la corrispondenza che cercavo costantemente! È una scoperta. Non abbiamo bisogno di effetti speciali. Abbiamo bisogno solo di renderci conto che tutto è per noi. Arrivederci a tutti. Grazie.

Gardino.Ringrazio di cuore Julián, perché penso che questa sera sia proprio un momento di grazia che il Signore ci concede soprattutto per questo: penso che lo sguardo che lui questa sera ha avuto sulla realtà, su di sé e su di noi, sia, nell’esperienza che abbiamo fatto tutti, uno sguardo che desideriamo. Per me è stato questo: lo sguardo di un amico e lo sguardo di un padre. Penso che la grazia di stare due ore con lui stasera chiami ciascuno di noi a una responsabilità, ossia ad aiutarci ad avere l’uno verso l’altro questo sguardo, perché siamo insieme per questo. E allora mi sembra che sia proprio un dono enorme, perché come Dio ci tratta è la cosa più desiderabile. Io sento questa grande responsabilità: se ci guardiamo così, che cosa grande è lo stare insieme! Se ci trattiamo così, che cosa grande è lo stare insieme!

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