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sabato 13 maggio 2017
mercoledì 10 maggio 2017
Cappellano militare: Il vetraio
Siamo tutti a bottega di un grande Mastro vetraio, tutti a scuola di trasparenza: il vetraio lascia sparire il suo nome nella luce con la quale edifica cattedrali.
È arte umile e casta quella che non si lascia ingannare dall'illusione che il vetro possa brillare maggiormente quando trattenga la luce.
È un lasciar passare l'Altro, non per indifferenza, ma per scelta radicale: nessun vetro, nel cuore del Maestro, vale quanto la Luce. Infiniti frammenti brillano per l'arte di chi, con cuore e occhi limpidi, si fa servo del Sole.
È arte umile e casta quella che non si lascia ingannare dall'illusione che il vetro possa brillare maggiormente quando trattenga la luce.
È un lasciar passare l'Altro, non per indifferenza, ma per scelta radicale: nessun vetro, nel cuore del Maestro, vale quanto la Luce. Infiniti frammenti brillano per l'arte di chi, con cuore e occhi limpidi, si fa servo del Sole.
Don Carlo Pizzocaro
Lettera dal fronte: «La gloria di Dio è l’uomo vivente»: considerazioni teologiche sulla cultura della vita/02
Secondo
appuntamento della nostra piccola rubrica di riflessione teologica
sulla cultura della vita e la cultura della morte in vista della
Marcia
per la Vita
che si terrà a Roma il 20 Maggio 2017.
Attenzione:
gli articoli contengono argomenti ed espressioni tipicamente
cattolici =)
Col primo articolo di questa rubrica abbiamo iniziato un lungo cammino di approfondimento teologico sulla cultura della vita e la cultura della morte in vista del più grande evento pro-life italiano, la Marcia per la Vita 2017, cercando di capire meglio – pur essendo coscienti dei nostri limiti e difetti – il perché la Chiesa Cattolica fin dalla sua fondazione difenda e promuova la vita dal concepimento fino alla morte naturale. Abbiamo preso avvio dal I Libro della Bibbia, il Genesi, analizzando il giudizio che Dio dà alla creatura che, tra le innumerevoli da lui create, compresi gli Angeli, ha scelto per essere sua gloria; oggi cercheremo di capire meglio cosa ha significato per tutta l'umanità l'Incarnazione di Nostro Signore Gesù Cristo, vale a dire cosa ha comportato l'irrompere reale, storico, fattuale, carnale dell'infinito nel finito creaturale che era stato ferito dal peccato originale. Parliamo oggi dell'Incarnazione perché, nei nostri articoli, abbiamo privilegiato l'andamento cronologico della Storia della Salvezza così come Dio ce l'ha voluta rivelare: le prossime puntate, dedicate tutte al mistero di Cristo e della Chiesa, Suo Mistico Corpo, verteranno pertanto a) sul matrimonio, in quanto Cristo ha voluto istituire il sacramento del matrimonio agli albori della sua predicazione, cioè al momento della sua manifestazione in Cana di Galilea; b) sulla Passione – Morte – Risurrezione – Ascensione al Cielo di Cristo; seguiranno due approfondimenti dedicati alla cultura della morte.
«Nella pienezza del tempo» l'arcangelo Gabriele fu inviato da Dio alla Vergine Maria per chiederle se accettava di essere, per opera dello Spirito Santo, la Madre del Figlio Eterno del Padre: quel 25 marzo in Paradiso non si pensava che a questo in quanto il divino decreto eterno che avrebbe salvato dall'inferno tutta l'umanità, aprendole il cielo serrato a causa del peccato originale, aveva bisogno della libera risposta di una fanciulla di circa 15 anni, residente a Nazareth, uno sperduto villaggio della Galilea. Già l'incipit della narrazione, «nella pienezza del tempo», è foriera di innumerevoli riflessioni ed approfondimenti teologici ed antropologici: basterebbe solo pensare al fatto che l'Incarnazione non è avvenuta né un attimo prima né un attimo dopo, non in un momento casuale ma in un momento di pienezza benché mancasse all'epoca ogni conforto tecnologico che noi riteniamo indispensabile per poter dire di vivere pienamente la nostra vita. Riflettiamo mai sulla gravità e sull'importanza di queste quattro (dicesi 4) parole? Eppure dovremmo farlo perché a partire da quella pienezza del tempo noi abbiamo ricevuto grazia su grazia; per Dio infatti ogni singolo secondo del tempo da lui creato, anche quando non c'erano uomini sulla terra, ha un valore elevatissimo: con l'Incarnazione, rivolta essenzialmente agli uomini (benché abbia riguardato tutta la creazione, compresi gli angeli decaduti che – non dovremmo dimenticarlo mai!!! – sono sottomessi per la loro stessa natura al creatore di tutte le cose), hanno capito definitivamente che non esiste più né il tempo ciclico, tipico delle culture pagane ma anche delle concezioni moderne che osannano l'oroscopo, né il caso (Darwin non sarebbe d'accordo ma peggio per lui) in quanto ogni cosa è stata fatta in vista di Cristo, vero centro e signore della storia.
Nulla è fatto a caso in quanto Dio si prende cura di ciascuno di noi in ogni singolo secondo della nostra vita, compreso il nostro sonno, continuamente quanto misteriosamente. Ma, attenzione, Dio riesce anche a “gerarchizzare” il tempo in quanto vede ogni cosa ricapitolata in Cristo: come infatti ogni cosa è stata fatta/creata per mezzo di Cristo, così ogni cosa torna al Padre per mezzo di Cristo. Ma se Cristo non si fosse incarnato il piano della salvezza sarebbe stato, per così dire, monco: come ha giustamente affermato Sant'Agostino, infatti, non ci sarebbe nessun vantaggio per noi ad essere nati se Cristo non ci avesse redenti. Il semplice affermare che il tempo è, per la sua stessa natura, una dimensione quantitativa su cui prevale tuttavia la dimensione qualitativa ma indipendente dai nostri moderni pareri di valutazione della qualità della vita, ci porta a concludere che agli occhi di Dio, e dunque della Chiesa, un embrione appena creato e poi misteriosamente abortito naturalmente (anche nei casi in cui i genitori non se ne sono accorti) sia identico, tranne che per la mancata ricezione dei sacramenti, ad una persona morta centenaria.
C'è di più. La dignificazione dell'uomo fin dal suo concepimento, infatti, oltre che per le considerazioni fatte in precedenza, passa e dipende dall'Incarnazione di Cristo. Qui è opportuno ricordare un principio già espresso nel I articolo di questa rubrica: la grazia nulla toglie alla natura ma, anzi, la eleva: oltre alle verità rivelate (incomprensibili per sola ragione, sebbene se ne possa assaporare e considerare la loro ragionevolezza) ci sono infatti alcune verità naturali, valide per tutti gli uomini, che però assumono una connotazione diversa, elevata per l'appunto, se viste con gli occhi della fede. Le riflessioni sull'Incarnazione sono moltissime tra cui un aspetto che oggigiorno, in tempi in cui si esalta la determinazione del singolo, non mi sembra venga messo in giusta evidenza: il semplice fatto di aver accettato la libera scelta di una fanciulla, ci fa capire quanto Dio rispetti ed ami l'uomo in quanto ha messo nelle sue mani (anzi: per essere più precisi nelle mani di una donna) la condizione imprescindibile alla redenzione della medesima umanità. Ma c'è di più. Molto di più. E grandissimi Santi prima delle misere parole del sottoscritto si sono posti queste domande che ancora oggi affascinano ogni credente: una fra tutte, cosa ha significato l'Incarnazione? Come anche: cur Deus Homo? Perché Dio si è fatto uomo?
Cos'è l'Incarnazione? Cosa ha comportato il fatto che l'Essere perfettissimo e immenso (perché non dimentichiamolo: Gesù Cristo era-è-sarà sempre il Figlio di Dio, II Persona della Santissima Trinità e dunque Dio come il Padre e lo Spirito Santo: io e il Padre siamo una cosa sola) abbia deciso di entrare nel tempo, nello spazio, nel dolore, ed in ogni aspetto dell'umana vita? Ci fermiamo mai a pensare al fatto che Cristo, assumendo la natura umana, ha assunto ogni singolo aspetto di essa per poterla interamente redimere? Pensiamo mai al fatto che tutto ciò che è stato assunto è stato redento, e che dunque ciò che non sarebbe stato assunto non sarebbe stato redento? Non si tratta di giochi lessicali o di questioni teologiche di lana caprina (come si suol dire, ma erroneamente: disquisire sul sesso degli angeli) bensì di una realtà con cui ciascuno di noi ha a che fare ogni giorno in quanto appartenenti al genere umano: se Cristo infatti non avesse redento l'intera umanità (e quindi anche la natura umana nella sua interezza) avrebbe compiuto un atto imperfetto rendendo vana l'intera Redenzione e non permettendoci di entrare in Paradiso!
L'Incarnazione di Cristo è (stata) un fatto reale, un avvenimento come sottolineato da Mons. Giussani e ribadito Benedetto XVI in diverse occasioni del suo Magistero, talmente reale da aver preso carne e sangue. Sebbene sia un linguaggio a noi poco usuale, è lecito dire che: Iddio si sia fatto embrione; è vissuto nel segreto del seno della Vergine Maria per 9 mesi; è nato (sebbene con un parto miracoloso che ha preservato la Verginità di Maria); ha avuto fame e sete; ha avuto bisogno del cambio dei pannolini come tutti i bambini; ha giocato e riso; ha pianto e sofferto; ha camminato ed è caduto; ha lavorato e pregato; etc. Come accennato sopra, non c'è nulla di propriamente umano che Gesù Cristo non abbia fatto né vissuto giacché, come afferma genialmente San Gregorio Nazianzeno «ciò che non è stato assunto, non è stato guarito».
Il Figlio, Verbo Eterno del Padre, per mezzo dell'Incarnazione per opera dello Spirito Santo, ha assunto la natura umana alla sua persona divina nella sua interezza, fuorché nel peccato1 per poter ricondurre l'umanità, come anche la creazione, redenta, al Padre per mezzo del sacrificio della croce che ha espiato sia il peccato originale che tutti i peccati degli uomini da Adamo fino alla fine dei tempi. Senza Incarnazione non ci sarebbe stata Resurrezione: senza Presepe non ci sarebbe stato il Golgota2.
L'Incarnazione non va vista solamente dal punto di vista dell'assunzione della natura umana da parte di Cristo, ma anche dal punto di vista dell'uomo: se Dio nobilita l'umanità, vuol dire che l'umanità guadagna una nuova dignità. Ma in cosa consiste questo mirabile scambio di doni (come recita il Prefazio della Messa della Notte di Natale)? Nel fatto che Gesù Cristo da ricco che era, si fece povero per arricchire noi con la sua povertà (cfr. 2Cor 8,9). E per capire nel miglior modo possibile questo profondo mistero, conviene riportare per intero il Canone 460 del Catechismo della Chiesa Cattolica:
Il Verbo si è fatto carne perché diventassimo «partecipi della natura divina» (2 Pt 1,4): «Infatti, questo è il motivo per cui il Verbo si è fatto uomo, e il Figlio di Dio, Figlio dell'uomo: perché l'uomo, entrando in comunione con il Verbo e ricevendo così la filiazione divina, diventasse figlio di Dio»3. «Infatti il Figlio di Dio si è fatto uomo per farci Dio»4. «Unigenitus [...] Dei Filius, Suae divinitatis volens nos esse participes, naturam nostram assumpsit, ut homines deos faceret factus homo – L'unigenito [...] Figlio di Dio, volendo che noi fossimo partecipi della sua divinità, assunse la nostra natura, affinché, fatto uomo, facesse gli uomini dei»5.Dal momento che Dio si è incarnato, ogni cosa propriamente umana è stata elevata ancor di più del già essere stata creata ad immagine e somiglianza di Dio: è stato nobilitato il suo corpo e la sua ragione ma non dobbiamo avere paura di dire che sono state nobilitate anche le sue feci come anche il suo seme in quanto, non smetteremo mai di ripeterlo, tutto ciò che non fosse stato assunto non sarebbe stato redento. Cristo dunque ha redento, nobilitandolo, il riso6 e la tristezza, la gioia ed il dolore, il mangiare ed il bere, il dormire e il camminare, l'essere embrione come l'essere cadavere7, l'avere una famiglia ed il lavoro, il giocare ed il predicare, e così via.
Benché feriti dal peccato, siamo dunque nobili. E lo siamo, per così dire, per diritto e per conquista: per diritto in quanto Dio non ha mai ritirato la sua benedizione dall'uomo; per conquista perché Cristo ci ha comprati a caro prezzo. L'Incarnazione, primo atto della Redenzione, mette insieme queste due caratteristiche che noi dovremmo sempre cercare di comprendere quanto più possibile ricordandoci inoltre che noi siamo dei anche perché, se viviamo in grazia, inabita in noi la Santissima Trinità: non rattristiamo dunque lo Spirito Santo che è in noi e ringraziamo continuamente Dio per la sua infinita misericordia giacché quando eravamo ancora peccatori ha chiesto alla Vergine di essere Madre del Verbo Incarnato.
Guardiamo a Maria, «umile ed alta più che creatura», per poter contemplare, come ha fatto lei stessa durante tutta la vita di Cristo, la profondità e la grandezza del mistero della natura umana che il Figlio ha unito alla sua Persona per mezzo dell'Incarnazione.
Francesco Del Giudice
_________________
1- È bene ricordare, in questi tempi in cui dilagano espressioni
semi-ariane, che Cristo ha 2 Nature, l'umana e la divina, distinte
ma non confuse tra loro, unite indissolubilmente per l'Incarnazione
(unione ipostatica: stesso discorso vale per le volontà)
nell'unica Persona Divina di Cristo: per questo egli è vero uomo
e vero Dio. Anticipando il prossimo articolo, conviene notare che
l'unione ipostatica non si è conclusa con la Redenzione ma
perdura tutt'oggi: dopo la Resurrezione infatti Cristo non ha
abbandonato il suo corpo, ma l'ha riavuto/ripreso già glorificato
(cosa che per gli uomini di tutti i tempi avverrà nell'ultimo
giorno, al momento della sua seconda venuta. Notiamo inoltre che il
corpo risorto di Cristo è il suo vero corpo, come afferma la
liturgia pasquale, ed è si glorioso (può non usare le porte per
entrare in una stanza, scompare e riappare, etc) ma è altresì un
vero e proprio corpo tant'è che Cristo dopo la Resurrezione ha
avuto fame ( scegliendo anche cosa-dove-con chi mangiare mostrando
anche gusto ed appetito: Gesù stesso ad esempio prepara da mangiare
per se e per i discepoli, segno anche carnale di fame), ha camminato
con i discepoli di Emmaus e gli Apostoli che lo hanno potuto
toccare, etc.
2- In molte rappresentazioni presepiali, come anche in diversi dipinti sulla Natività o la Santa Famiglia, sono presenti elementi che rimandano alla Passione, a volte addirittura delle croci. La cosa, che a prima vista potrebbe essere erronea, è invece una verità di fede profonda: Cristo, in quanto Dio, sapeva benissimo fin dall'Incarnazione che avrebbe patito il supplizio della Croce. Sant'Alfonso Maria dÈ Liguori ha mirabilmente espresso questa verità nell'ultima, come anche sconosciuta oggigiorno, strofa del Tu scendi dalle Stelle: «Tu dormi o Ninno mio, ma intanto il Core / Non dorme no, ma veglia tutte l'ore: / Deh mio bello e puro Agnello, / A che pensi dimmi Tu? / O Ammore immenso, / “A morire per te”, rispondi, io penso».
La moderna cristologia, meglio conosciuta con il nome di cristologia dal basso, invero, propone una lettura antitetica a quanto da noi affermato poc'anzi in ossequio al Magistero bi millenario della Chiesa: in poche parole, per questa teoria ampiamente diffusa e propagandata persino nei seminari pontifici, Gesù non sapeva di essere Dio e ciò che noi leggiamo nei Vangeli sono una (ri)lettura post-pasquale della vita di Gesù, periodo in cui egli prende sempre più coscienza del suo essere Dio.
3- Sant'Ireneo di Lione, Adversus haereses, 3, 19, 1: SC 211, 374 (PG 7, 939).
4- Sant'Atanasio di Alessandria, De Incarnatione, 54, 3: SC 199, 458 (PG 25, 192).
5- San Tommaso d'Aquino, Officium de festo corporis Christi, Ad Matutinas, In primo Nocturno, Lectio 1: Opera omnia, v. 29 (Parigi 1876) p. 336.
6- È molto interessante notare come per i santi, l'allegria è sinonimo di beatitudine: San Giovanni Bosco spiegava ai suoi giovani che «noi facciamo consistere la santità nello stare sempre allegri»; San Tommaso d'Aquino ha scritto sull'eutrapelia, vale a dire la buona allegria, ed è noto il titolo di un'opera di Chesterton, la cui Causa di Canonizzazione è in corso, La serietà non è una virtù.
7- Ci sia permessa questa terminologia molto semplice.
2- In molte rappresentazioni presepiali, come anche in diversi dipinti sulla Natività o la Santa Famiglia, sono presenti elementi che rimandano alla Passione, a volte addirittura delle croci. La cosa, che a prima vista potrebbe essere erronea, è invece una verità di fede profonda: Cristo, in quanto Dio, sapeva benissimo fin dall'Incarnazione che avrebbe patito il supplizio della Croce. Sant'Alfonso Maria dÈ Liguori ha mirabilmente espresso questa verità nell'ultima, come anche sconosciuta oggigiorno, strofa del Tu scendi dalle Stelle: «Tu dormi o Ninno mio, ma intanto il Core / Non dorme no, ma veglia tutte l'ore: / Deh mio bello e puro Agnello, / A che pensi dimmi Tu? / O Ammore immenso, / “A morire per te”, rispondi, io penso».
La moderna cristologia, meglio conosciuta con il nome di cristologia dal basso, invero, propone una lettura antitetica a quanto da noi affermato poc'anzi in ossequio al Magistero bi millenario della Chiesa: in poche parole, per questa teoria ampiamente diffusa e propagandata persino nei seminari pontifici, Gesù non sapeva di essere Dio e ciò che noi leggiamo nei Vangeli sono una (ri)lettura post-pasquale della vita di Gesù, periodo in cui egli prende sempre più coscienza del suo essere Dio.
3- Sant'Ireneo di Lione, Adversus haereses, 3, 19, 1: SC 211, 374 (PG 7, 939).
4- Sant'Atanasio di Alessandria, De Incarnatione, 54, 3: SC 199, 458 (PG 25, 192).
5- San Tommaso d'Aquino, Officium de festo corporis Christi, Ad Matutinas, In primo Nocturno, Lectio 1: Opera omnia, v. 29 (Parigi 1876) p. 336.
6- È molto interessante notare come per i santi, l'allegria è sinonimo di beatitudine: San Giovanni Bosco spiegava ai suoi giovani che «noi facciamo consistere la santità nello stare sempre allegri»; San Tommaso d'Aquino ha scritto sull'eutrapelia, vale a dire la buona allegria, ed è noto il titolo di un'opera di Chesterton, la cui Causa di Canonizzazione è in corso, La serietà non è una virtù.
7- Ci sia permessa questa terminologia molto semplice.
martedì 9 maggio 2017
Cappellano militare: Non Lo si può fermare
Due atteggiamenti opposti: LUI cammina, loro provano a fermarLo. Sarà così sino alla fine: LUI camminerà verso il Calvario, loro Lo inchioderanno; ma LUI spaccherà le pietre per dire che no, non Lo si può fermare.
Perché è facile avere un Dio che fissi là, dove puoi tenerLo sotto controllo. Ma LUI cammina, corre, traccia strade sempre nuove, sempre rinnovatrici.
Chi si ferma è perché si accontenta dello spuntino sicuro; chi cammina è perché osa credere nella sazietà, promessa nella fragranza del Pane.
Perché è facile avere un Dio che fissi là, dove puoi tenerLo sotto controllo. Ma LUI cammina, corre, traccia strade sempre nuove, sempre rinnovatrici.
Chi si ferma è perché si accontenta dello spuntino sicuro; chi cammina è perché osa credere nella sazietà, promessa nella fragranza del Pane.
Don Carlo Pizzocaro
domenica 7 maggio 2017
Lettera dal fronte: Dacci oggi la nostra eresia quotidiana/03: Liturgia vo cercando, che si cara…
Carissimi
amici e lettori, ben trovati! Ho avuto bisogno di un lungo periodo di
pausa forzata dal computer ma nel frattempo non ho smesso di
raccogliere e di valutare tutte le eresie che quotidianamente si
trovano sotto gli occhi dei fedeli cattolici. Riprendiamo oggi la
nostra rubrica che, come sicuramente ricorderete, si era attestata al
II appuntamento. Oggi parleremo delle eresie legate alla Pasqua ma
partendo da un punto di vista particolare, vale a dire quello
liturgico. Perché dobbiamo parlare di liturgia e non di teologia?
Perché parlando di liturgia si parla – eccome! – di teologia e
quindi sbagliare liturgia significa avere idee sbagliate in teologia.
E questo per almeno due motivi: il primo è che la liturgia «è
fonte e culmine della vita cristiana»
(da essa tutto parte, e ad essa tutto torna); il secondo è
cristallizzato in una legge antichissima della Chiesa, ribadita anche
nell’ultima edizione del Catechismo, «Lex
Orandi, Lex Credendi»,
per cui i fedeli sono tenuti a credere e professare tutto ciò che la
Chiesa celebra in tutte le sue pratiche liturgiche. Con uno slogan,
potremmo correttamente dire che chi
sbaglia teologia, sbaglierà liturgia
ma anche il contrario visto che, soprattutto dal punto di vista dei
fedeli laici, la liturgia ha
un carattere profondamente pedagogico nonché mistagogico
(che ci introduce/conduce al mistero).
Cosa c’entra però tutto questo con la Pasqua? Un discorso del genere non si può applicare a tutte le celebrazioni liturgiche, siano esse celebrate in Tempi Forti come in Tempo Ordinario? In linea di principio l’obiezione è corretta, giacché ogni singolo mistero celebrato racchiude in sé tutta la Rivelazione (in una Messa votiva per la Madonna, ad esempio, si celebreranno anche i misteri di Cristo e della Chiesa e non solamente i misteri della Vergine) tuttavia, sempre secondo l’insegnamento bimillenario della Chiesa, proclamato solennemente nell’Annuncio del Giorno di Pasqua nel giorno dell’Epifania, il Triduo Pasquale è «il centro dell’anno liturgico»: valutare quindi la qualità liturgica delle celebrazioni pasquali significa conoscere il grado di ortodossia e di amore per le anime delle persone che le celebrano, siano essi sacerdoti come laici (i quali, ad esempio, potrebbero recitare quotidianamente, senza sacerdote, comunitariamente quanto singolarmente, la Liturgia delle Ore).
Ma a questo punto, penso siano necessarie due precisazioni: 1) non è in discussione la devozione delle celebrazioni, nonché del celebrante, poiché essa può dipendere anche da circostanze contingenti (un sacerdote che celebra una messa con un mal di testa atroce non potrà avere la stessa condizione psicofisica di un novello sacerdote che celebra la sua Prima Messa) e pertanto parliamo di cose che ci sembrano oggettive in quanto pubbliche, reiterate ed anche giustificate da chi le pratica; 2) facciamo riferimento essenzialmente al Rito Romano Nuovo (NO), che seguo abitualmente ancora oggi, dopo cioè la restaurazione del Rito Romano Antico (VO): non ho nulla contro il VO, semplicemente preferisco (mi si passi il termine) il NO e non so, pertanto, se alcuni problemi riscontrati in alcuni passi della Liturgia del Triduo nelle rubriche (cioè le esplicazioni, scritte in rosso, da cui il nome, sul modo di celebrare la liturgia) siano presenti nel VO: fedele al Motu Proprio Summorum Pontificum non voglio metterli né in contrapposizione né a paragone (quasi fosse una gara) tra di essi, ma semplicemente parlare di alcune piccole cose che non tornano nella lettura delle rubriche del Messale di Paolo VI (la cui validità – attenzione! – non intendo minimamente mettere in discussione neanche come ipotesi).
Perché sottolineo il fatto che mi riferisco alle rubriche? Perché esse sono spesso percepite come semplici annotazioni a margine ma invece, dovendo esplicitare la corretta celebrazione, sono di capitale importanza. Il Messale di Paolo VI ne presenta poche, spesso uguali ad altre presenti già esplicitate, ed a volte non riguardano – ahimé – la completa celebrazione ma solamente alcuni momenti particolari: le formule su cui è bene riflettere, e che sono ripetute fino allo sfinimento nella lettura del Messale, rientrano tra i permessi e le eccezioni. In pratica le rubriche del Messale di Paolo VI rendono, nei fatti, moltissime cose sempre omettibili oppure a discrezione del sacerdote e della comunità in cui i misteri si celebrano. Basta una lettura delle rubriche generali per toccare con mano che le forme verbali «si può / si possono» sono usate a iosa, lasciando il lettore abbastanza sorpreso in quanto da almeno 500 anni, cioè dal Concilio di Trento, ma anche da molto prima, la Chiesa aveva intrapreso la strada dell’uniformità liturgica (con obbligo di praticare le rubriche) per poter meglio sottolineare il carattere dell’unico sacrificio di Cristo, evitando prassi liturgiche discutibili e permettendo anche ai fedeli di nazionalità diverse, ma appartenenti tutti al medesimo rito latino, di poter individuare facilmente la medesima celebrazione eucaristica in ogni parte del mondo. Il Messale attuale fa a volte riferimento alle usanze locali, come anche alla prassi e pochissime volte alla tradizione: non si tratta di problemi di traduzione in quanto la forma tipica latina usa spesso e volentieri il termine mos che, per quanto lo si voglia ancorare ad un concetto di patrimonio antico da conservare, è essenzialmente diverso dalla traditio di cui parla il Catechismo.
Partendo da queste rubriche, in particolare dai permessi per le omissioni, buona parte del clero che ha vissuto l’immediato post-Concilio Vaticano II ha stravolto e continua a stravolgere le usanze locali e la medesima liturgica. Che cosa è successo e succede tutt’ora infatti? Essendo i ministri ordinati coloro che presiedono ogni assemblea liturgica, cominciando dal Vescovo, il quale è «il liturgo della Diocesi», ancora oggi è ovvio che siano essi ad occuparsi della preparazione e dello svolgimento delle celebrazioni: questa cosa, tuttavia, la dobbiamo immaginare ancor più ingigantita se rapportata agli anni ’60 e ’70 quando, cioè, il Messale di Paolo VI si andò diffondendo in tutta la Chiesa latina. All’epoca, come è facile sia sapere dai protagonisti che intuire dai risultati che sono sotto i nostri occhi, il clero applicò in lungo e largo il concetto «si può omettere» andando a modificare e far morire quelle che erano «le usanze locali», vero e proprio patrimonio della Chiesa e, dunque, parte della tradizione in quanto, benché si trattasse solo di elementi fattuali e pratici, avevano la loro ragione ultima in verità di fede.
Facciamo un esempio: se si chiedesse al fedele della strada qual è il colore dei paramenti liturgici per la celebrazione del rito delle esequie – sono sicuro – quello risponderebbe senza problemi: il viola! Ma così in verità non è poiché né il Concilio né il Papa hanno abrogato (cioè dichiarato non più applicabile né valido) il colore nero: la rubrica del Messale infatti dice che «il colore nero si può usare, dove è prassi consueta, nelle Messe per i defunti». Cosa ha fatto, e continua a fare, il clero degli anni post-conciliari invece? Ha buttato nelle cassapanche delle sacrestie (o nei cassonetti nei peggiori casi) i paramenti neri comprandone viola anche dove la prassi concreta era il nero: i musei diocesani e parrocchiali sono testimonianze inequivocabili di questa prassi che è stata calpestata in favore di una non ben chiara innovazione liturgica.
Con questo piccolo esempio è facile capire come, partendo dalla lettura fantasiosa di una rubrica (di per sé problematica – non lo nego – come detto poc'anzi in quanto utilizza il termine prassi e non tradizione che rimanderebbe invece al patrimonio secolare della fede trasmessa dagli Apostoli) si è instaurata una nuova usanza che i fedeli hanno tuttavia percepito come una nuova prassi seguita all’abrogazione della legge precedente, cioè l’utilizzo del colore nero. E questo solo per un colore liturgico che, benché importante (tutto il patrimonio della Chiesa è importante in quanto nemmeno uno iota passerà) non è di fondamentale importanza in quanto non intacca, almeno apertamente, nessuna verità di fede. Il medesimo discorso si può fare per l’uso e la presenza delle balaustre, dei paliotti, del baldacchino vescovile posto sopra le Cattedre, e vale anche per l’esposizione e l’uso delle basiliche (grandi ombrelli indicanti il carattere basilicale di una determinata chiesa), per l’utilizzo del pulpito per la proclamazione della Parola di Dio e dell’omelia, etc.
Ma ci sono casi ancora più gravi che rimandano a delle vere e proprie verità di fede presenti in particolare nel Triduo Pasquale tra cui, secondo il sottoscritto, spicca il caso del Preconio Pasquale, vale a dire l’inno di esultanza da proclamare/cantare a conclusione della liturgia del fuoco nella Veglia Pasquale, madre di tutte le Veglie, e della proclamazione della Sequenza di Pasqua nella Messa del Giorno e dell’Ottava. Secondo le norme attuali, alcuni passaggi del Preconio, riportati tra parentesi quadre di colore rosso nelle edizioni dei Messali, possono essere omessi anche se non viene riportato il motivo: cosa cambia infatti se la Veglia Pasquale dura 3 minuti in più o di meno a seconda se si canta tutto il Preconio? E perché mai dovremmo avere la pretesa di accorciare ciò che i Santi hanno scritto e la Tradizione trasmesso? Che potere si ha dinanzi a secoli di storia che ci stanno a guardare (giacché abbiamo più passato alle spalle di quanto futuro pensiamo di avere dinanzi a noi)? Ed inoltre, siamo sicuri che i passi che si possono omettere non siano di capitale importanza e di alto livello mistagogico? Una delle strofe incriminate infatti è quella dove si afferma il fatto che non c’è «nessun vantaggio per noi ad essere nati se Cristo non ci avesse redenti»: siamo proprio sicuri che si tratta di un passaggio secondario e non, invece, una profondissima riflessione di teologia benché composta da si e no 15 parole? Eppure è facoltativa, come lo sono alcune strofe del Te Deum ma – addirittura! – anche la recita completa dei nomi dei santi (tra cui gli Apostoli) e delle sante nel Canone Romano.
Un’altra assurdità, riportata nel Lezionario Festivo per i Tempi Forti (cosa che mi porta a pensare/sperare che si tratti solo di un’anomalia italiana, in quanto i Lezionari sono curati ed approvati dalle Conferenze Episcopali Nazionali) riguarda la Sequenza di Pasqua, il celebre Victimae Paschali Laudes. Sarà bene spendere qualche parolina di più su questo particolare inno perché se celebrato adeguatamente potrebbe essere fonte di profondo rinnovamento e di approfondimenti teologici inimmaginabili: d’altro canto come potrebbe essere diversamente, trattandosi del patrimonio e della tradizione della Chiesa? Orbene: stando alla rubrica del Lezionario1, il povero Victimae Paschali – udite udite! – è obbligatorio solo la Domenica di Pasqua (alla cosiddetta Messa del Giorno in quanto la Veglia ha una struttura liturgica differente) ed è facoltativo nell’Ottava che, com’è noto, presenta la stessa-identica-medesima (è bene sottolinearlo) liturgia della Messa del Giorno di Pasqua in quanto prosecuzione del giorno festivo per eccellenza, tant’è che è presente sia a Natale che a Pasqua. Attenzione, però: la Messa dell’Ottava è identica a quella di Pasqua in tutto tranne nella proclamazione della Sequenza. Per i Vescovi italiani, come anche per molti parroci, infatti, questa cosa è logica ma per il sottoscritto tutto il contrario almeno per due motivi: 1) come è possibile celebrare il mistero pasquale senza la proclamazione della lode alla Vittima Pasquale? 2) che senso ha parlare di celebrazione della stessa-identica-medesima liturgia per 8 giorni se si può omettere una parte di essa? Questa cosa è sconvolgente e la si può capire, ahimè!, solamente se partiamo da una profonda quanto orribile eresia: non è più chiaro cosa sia la Resurrezione di Cristo. E penso di poter trovare le ragioni di questa mia forte affermazione nella lettura della traduzione ufficiale della medesima sequenza su cui è bene riflettere.
I problemi, neanche a dirlo, nascono fin dalla prima strofa, in quanto la traduzione italiana compie un volo che avrebbe fatto impallidire anche Pindaro: anziché, come dovrebbe essere, tradurre con «Alla Vittima Pasquale i cristiani immolino / innalzino la propria lode»2, il Lezionario presenta la seguente traduzione: «Alla Vittima Pasquale si innalzi oggi il sacrificio di lode» spostando il soggetto da tutti i cristiani che devono celebrare il sacrificio di Cristo (e quindi tutta la Chiesa, militante-purgante-trionfante, presente interamente quanto misteriosamente in ogni singola celebrazione liturgica della Chiesa, in particolare nella Santa Messa) ai singoli fedeli riuniti in un determinato momento, vale a dire l’assemblea per la celebrazione pasquale, cosa che giustifica la presenza dell’oggi nella traduzione. Si tratta di qualcosa di sconcertante in quanto, nella prassi, passa l’idea che la lode sia solo dei viventi e, vieppiù, solamente dei presenti a quella determinata Messa, cosa che, però, è smentita categoricamente dall’Apostolo che afferma che «nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi in cielo, sulla terra e sottoterra». Ma i nostri Vescovi sbagliano anche nella successiva strofe in quanto, anziché tradurre con «l’Agnello ha redento le pecore, Cristo l’Innocente / l’Innocente Cristo ha riconciliato al Padre i peccatori»3 traducono con «l'Agnello ha redento il suo gregge, l'Innocente ha riconciliato noi peccatori col Padre». Vedendole così non sembra nulla di fondamentale, in quanto manca solamente il nome Cristo ma così non è in quanto non è chiaro chi sia la Vittima Pasquale né tanto meno chi è l’Agnello o l’Innocente: in pratica ci si vergogna di chiamare per nome proprio il nostro Salvatore, cioè Cristo. Una dimenticanza del genere non è cosa di poco conto in quanto intacca un punto cardine della nostra fede: Cristo, e solo lui, ha redento l’umanità riconducendola la Padre. Le altre strofe non presentano nessun problema finché non si arriva alla fine in quanto, misteriosamente, non si vuol dire che Cristo è risorto dai morti4 dal momento che ci si è rifiutati di tradurre il «a mortuis» e lasciando un generico «risorto»: ma per affermare la corretta traduzione dobbiamo essere sicuri che Cristo sia risorto, ma come possiamo esserne certi se la resurrezione di Cristo è reale ma non storica, come vuole la teologia contemporanea?
Infatti io non vedo altra spiegazione che la seguente: i traduttori, con evidenti problemi di ortodossia, approfittano di una parte mobile della Celebrazione Eucaristica (in quanto non è presente tutto l’anno) per poter insinuare dei piccoli dubbi rispetto al mistero pasquale contraddicendo invece ciò che il Messale ripete in continuazione nello stesso giorno, vale a dire il fatto che «in questo giorno […] Cristo è risorto nel suo vero corpo».
Ma le cose da dire sul triduo sarebbero ancora di più, e riguardano sia le rubriche che la prassi di alcuni sacerdoti che, ad esempio, il Venerdì Santo si rifiutano di suonare le campane a morto mantenendole accese e funzionanti come se fosse un giorno qualsiasi per tutto Sabato Santo; che durante la Veglia di Pasqua si rifiutano categoricamente di inserire i grani di incenso nel cero, o di proclamare tutte le letture previste come se ci si trovasse sotto un bombardamento; ma ci sono anche parroci che benedicono un cero pasquale che poi, dopo Pentecoste, verrà tagliato per farne candele per l’altare andando a ripescare, in caso di battesimi o funerali, qualche vecchio cero con il contenitore per la cera liquida (facendo respirare le traballanti risorse economiche della Chiesa); ci sono Vescovi (tra cui il mio) che il Giovedì Santo arrivano tardi per la Celebrazione, predicano eresie per 25 minuti ma poi non utilizzano il Canone Romano durante la Consacrazione per poter velocizzare la celebrazione (in questo aiutati dal Messale che non ne vieta l’uso, neanche in quel giorno solenne); ci sono Vescovi che anticipano la Messa Crismale al mercoledì pomeriggio (togliendo ai fedeli di tutte le sue parrocchie la possibilità di andare a Messa quel pomeriggio) perché il Giovedì mattina i sacerdoti hanno da fare; ma c’è anche chi toglie i tappeti per la realizzazione di un Concerto ma li lascia per tutta la Quaresima; oppure chi organizza concerti di Pasqua (con tanto di canti di Alleluja, Regina Coeli, chi ne ha più ne metta) in Quaresima e finanche nella Domenica delle Palme; ho conosciuto un sacerdote, fresco di Licenza in Liturgia, che nelle diverse settimane della Quaresima ha fumigato la sua parrocchia una volta con aceto e incenso, un’altra volta con aloe e mirra, e così via, per poter continuare a rendere l’aula liturgica un luogo sano e adeguatamente idoneo a trasmettere un senso di pace e serenità; etc etc.
Il panorama delle aberrazioni liturgiche pasquali è molto ricco in quanto è altrettanto ricco il patrimonio della fede e della tradizione liturgica della Chiesa: e non potrebbe essere diversamente in quanto la Pasqua è la festa di Cristo, vincitore sul peccato e sulla morte, che ci ha aperto le porte del Paradiso benché non meritassimo neanche di poterlo chiamare Signore e Dio nostro.
Le rubriche del Messale presentano dei problemi, è vero, ma la fantasia liturgica dei sacerdoti e dei Vescovi non sembra avere freno: mi auguro che la nuova edizione del Messale, attesa da anni ed invocata a destra e a manca da tutti gli addetti ai lavori, curi maggiormente questi aspetti riconoscendo gli errori prodotti in 50 anni ed abbandonando il criterio della prassi in favore di quello della tradizione: in molti storceranno il naso, ma la Chiesa non dovrebbe curarsi di diventare mondana, bensì di evangelizzare il Mondo.
Cosa c’entra però tutto questo con la Pasqua? Un discorso del genere non si può applicare a tutte le celebrazioni liturgiche, siano esse celebrate in Tempi Forti come in Tempo Ordinario? In linea di principio l’obiezione è corretta, giacché ogni singolo mistero celebrato racchiude in sé tutta la Rivelazione (in una Messa votiva per la Madonna, ad esempio, si celebreranno anche i misteri di Cristo e della Chiesa e non solamente i misteri della Vergine) tuttavia, sempre secondo l’insegnamento bimillenario della Chiesa, proclamato solennemente nell’Annuncio del Giorno di Pasqua nel giorno dell’Epifania, il Triduo Pasquale è «il centro dell’anno liturgico»: valutare quindi la qualità liturgica delle celebrazioni pasquali significa conoscere il grado di ortodossia e di amore per le anime delle persone che le celebrano, siano essi sacerdoti come laici (i quali, ad esempio, potrebbero recitare quotidianamente, senza sacerdote, comunitariamente quanto singolarmente, la Liturgia delle Ore).
Ma a questo punto, penso siano necessarie due precisazioni: 1) non è in discussione la devozione delle celebrazioni, nonché del celebrante, poiché essa può dipendere anche da circostanze contingenti (un sacerdote che celebra una messa con un mal di testa atroce non potrà avere la stessa condizione psicofisica di un novello sacerdote che celebra la sua Prima Messa) e pertanto parliamo di cose che ci sembrano oggettive in quanto pubbliche, reiterate ed anche giustificate da chi le pratica; 2) facciamo riferimento essenzialmente al Rito Romano Nuovo (NO), che seguo abitualmente ancora oggi, dopo cioè la restaurazione del Rito Romano Antico (VO): non ho nulla contro il VO, semplicemente preferisco (mi si passi il termine) il NO e non so, pertanto, se alcuni problemi riscontrati in alcuni passi della Liturgia del Triduo nelle rubriche (cioè le esplicazioni, scritte in rosso, da cui il nome, sul modo di celebrare la liturgia) siano presenti nel VO: fedele al Motu Proprio Summorum Pontificum non voglio metterli né in contrapposizione né a paragone (quasi fosse una gara) tra di essi, ma semplicemente parlare di alcune piccole cose che non tornano nella lettura delle rubriche del Messale di Paolo VI (la cui validità – attenzione! – non intendo minimamente mettere in discussione neanche come ipotesi).
Perché sottolineo il fatto che mi riferisco alle rubriche? Perché esse sono spesso percepite come semplici annotazioni a margine ma invece, dovendo esplicitare la corretta celebrazione, sono di capitale importanza. Il Messale di Paolo VI ne presenta poche, spesso uguali ad altre presenti già esplicitate, ed a volte non riguardano – ahimé – la completa celebrazione ma solamente alcuni momenti particolari: le formule su cui è bene riflettere, e che sono ripetute fino allo sfinimento nella lettura del Messale, rientrano tra i permessi e le eccezioni. In pratica le rubriche del Messale di Paolo VI rendono, nei fatti, moltissime cose sempre omettibili oppure a discrezione del sacerdote e della comunità in cui i misteri si celebrano. Basta una lettura delle rubriche generali per toccare con mano che le forme verbali «si può / si possono» sono usate a iosa, lasciando il lettore abbastanza sorpreso in quanto da almeno 500 anni, cioè dal Concilio di Trento, ma anche da molto prima, la Chiesa aveva intrapreso la strada dell’uniformità liturgica (con obbligo di praticare le rubriche) per poter meglio sottolineare il carattere dell’unico sacrificio di Cristo, evitando prassi liturgiche discutibili e permettendo anche ai fedeli di nazionalità diverse, ma appartenenti tutti al medesimo rito latino, di poter individuare facilmente la medesima celebrazione eucaristica in ogni parte del mondo. Il Messale attuale fa a volte riferimento alle usanze locali, come anche alla prassi e pochissime volte alla tradizione: non si tratta di problemi di traduzione in quanto la forma tipica latina usa spesso e volentieri il termine mos che, per quanto lo si voglia ancorare ad un concetto di patrimonio antico da conservare, è essenzialmente diverso dalla traditio di cui parla il Catechismo.
Partendo da queste rubriche, in particolare dai permessi per le omissioni, buona parte del clero che ha vissuto l’immediato post-Concilio Vaticano II ha stravolto e continua a stravolgere le usanze locali e la medesima liturgica. Che cosa è successo e succede tutt’ora infatti? Essendo i ministri ordinati coloro che presiedono ogni assemblea liturgica, cominciando dal Vescovo, il quale è «il liturgo della Diocesi», ancora oggi è ovvio che siano essi ad occuparsi della preparazione e dello svolgimento delle celebrazioni: questa cosa, tuttavia, la dobbiamo immaginare ancor più ingigantita se rapportata agli anni ’60 e ’70 quando, cioè, il Messale di Paolo VI si andò diffondendo in tutta la Chiesa latina. All’epoca, come è facile sia sapere dai protagonisti che intuire dai risultati che sono sotto i nostri occhi, il clero applicò in lungo e largo il concetto «si può omettere» andando a modificare e far morire quelle che erano «le usanze locali», vero e proprio patrimonio della Chiesa e, dunque, parte della tradizione in quanto, benché si trattasse solo di elementi fattuali e pratici, avevano la loro ragione ultima in verità di fede.
Facciamo un esempio: se si chiedesse al fedele della strada qual è il colore dei paramenti liturgici per la celebrazione del rito delle esequie – sono sicuro – quello risponderebbe senza problemi: il viola! Ma così in verità non è poiché né il Concilio né il Papa hanno abrogato (cioè dichiarato non più applicabile né valido) il colore nero: la rubrica del Messale infatti dice che «il colore nero si può usare, dove è prassi consueta, nelle Messe per i defunti». Cosa ha fatto, e continua a fare, il clero degli anni post-conciliari invece? Ha buttato nelle cassapanche delle sacrestie (o nei cassonetti nei peggiori casi) i paramenti neri comprandone viola anche dove la prassi concreta era il nero: i musei diocesani e parrocchiali sono testimonianze inequivocabili di questa prassi che è stata calpestata in favore di una non ben chiara innovazione liturgica.
Con questo piccolo esempio è facile capire come, partendo dalla lettura fantasiosa di una rubrica (di per sé problematica – non lo nego – come detto poc'anzi in quanto utilizza il termine prassi e non tradizione che rimanderebbe invece al patrimonio secolare della fede trasmessa dagli Apostoli) si è instaurata una nuova usanza che i fedeli hanno tuttavia percepito come una nuova prassi seguita all’abrogazione della legge precedente, cioè l’utilizzo del colore nero. E questo solo per un colore liturgico che, benché importante (tutto il patrimonio della Chiesa è importante in quanto nemmeno uno iota passerà) non è di fondamentale importanza in quanto non intacca, almeno apertamente, nessuna verità di fede. Il medesimo discorso si può fare per l’uso e la presenza delle balaustre, dei paliotti, del baldacchino vescovile posto sopra le Cattedre, e vale anche per l’esposizione e l’uso delle basiliche (grandi ombrelli indicanti il carattere basilicale di una determinata chiesa), per l’utilizzo del pulpito per la proclamazione della Parola di Dio e dell’omelia, etc.
Ma ci sono casi ancora più gravi che rimandano a delle vere e proprie verità di fede presenti in particolare nel Triduo Pasquale tra cui, secondo il sottoscritto, spicca il caso del Preconio Pasquale, vale a dire l’inno di esultanza da proclamare/cantare a conclusione della liturgia del fuoco nella Veglia Pasquale, madre di tutte le Veglie, e della proclamazione della Sequenza di Pasqua nella Messa del Giorno e dell’Ottava. Secondo le norme attuali, alcuni passaggi del Preconio, riportati tra parentesi quadre di colore rosso nelle edizioni dei Messali, possono essere omessi anche se non viene riportato il motivo: cosa cambia infatti se la Veglia Pasquale dura 3 minuti in più o di meno a seconda se si canta tutto il Preconio? E perché mai dovremmo avere la pretesa di accorciare ciò che i Santi hanno scritto e la Tradizione trasmesso? Che potere si ha dinanzi a secoli di storia che ci stanno a guardare (giacché abbiamo più passato alle spalle di quanto futuro pensiamo di avere dinanzi a noi)? Ed inoltre, siamo sicuri che i passi che si possono omettere non siano di capitale importanza e di alto livello mistagogico? Una delle strofe incriminate infatti è quella dove si afferma il fatto che non c’è «nessun vantaggio per noi ad essere nati se Cristo non ci avesse redenti»: siamo proprio sicuri che si tratta di un passaggio secondario e non, invece, una profondissima riflessione di teologia benché composta da si e no 15 parole? Eppure è facoltativa, come lo sono alcune strofe del Te Deum ma – addirittura! – anche la recita completa dei nomi dei santi (tra cui gli Apostoli) e delle sante nel Canone Romano.
Un’altra assurdità, riportata nel Lezionario Festivo per i Tempi Forti (cosa che mi porta a pensare/sperare che si tratti solo di un’anomalia italiana, in quanto i Lezionari sono curati ed approvati dalle Conferenze Episcopali Nazionali) riguarda la Sequenza di Pasqua, il celebre Victimae Paschali Laudes. Sarà bene spendere qualche parolina di più su questo particolare inno perché se celebrato adeguatamente potrebbe essere fonte di profondo rinnovamento e di approfondimenti teologici inimmaginabili: d’altro canto come potrebbe essere diversamente, trattandosi del patrimonio e della tradizione della Chiesa? Orbene: stando alla rubrica del Lezionario1, il povero Victimae Paschali – udite udite! – è obbligatorio solo la Domenica di Pasqua (alla cosiddetta Messa del Giorno in quanto la Veglia ha una struttura liturgica differente) ed è facoltativo nell’Ottava che, com’è noto, presenta la stessa-identica-medesima (è bene sottolinearlo) liturgia della Messa del Giorno di Pasqua in quanto prosecuzione del giorno festivo per eccellenza, tant’è che è presente sia a Natale che a Pasqua. Attenzione, però: la Messa dell’Ottava è identica a quella di Pasqua in tutto tranne nella proclamazione della Sequenza. Per i Vescovi italiani, come anche per molti parroci, infatti, questa cosa è logica ma per il sottoscritto tutto il contrario almeno per due motivi: 1) come è possibile celebrare il mistero pasquale senza la proclamazione della lode alla Vittima Pasquale? 2) che senso ha parlare di celebrazione della stessa-identica-medesima liturgia per 8 giorni se si può omettere una parte di essa? Questa cosa è sconvolgente e la si può capire, ahimè!, solamente se partiamo da una profonda quanto orribile eresia: non è più chiaro cosa sia la Resurrezione di Cristo. E penso di poter trovare le ragioni di questa mia forte affermazione nella lettura della traduzione ufficiale della medesima sequenza su cui è bene riflettere.
I problemi, neanche a dirlo, nascono fin dalla prima strofa, in quanto la traduzione italiana compie un volo che avrebbe fatto impallidire anche Pindaro: anziché, come dovrebbe essere, tradurre con «Alla Vittima Pasquale i cristiani immolino / innalzino la propria lode»2, il Lezionario presenta la seguente traduzione: «Alla Vittima Pasquale si innalzi oggi il sacrificio di lode» spostando il soggetto da tutti i cristiani che devono celebrare il sacrificio di Cristo (e quindi tutta la Chiesa, militante-purgante-trionfante, presente interamente quanto misteriosamente in ogni singola celebrazione liturgica della Chiesa, in particolare nella Santa Messa) ai singoli fedeli riuniti in un determinato momento, vale a dire l’assemblea per la celebrazione pasquale, cosa che giustifica la presenza dell’oggi nella traduzione. Si tratta di qualcosa di sconcertante in quanto, nella prassi, passa l’idea che la lode sia solo dei viventi e, vieppiù, solamente dei presenti a quella determinata Messa, cosa che, però, è smentita categoricamente dall’Apostolo che afferma che «nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi in cielo, sulla terra e sottoterra». Ma i nostri Vescovi sbagliano anche nella successiva strofe in quanto, anziché tradurre con «l’Agnello ha redento le pecore, Cristo l’Innocente / l’Innocente Cristo ha riconciliato al Padre i peccatori»3 traducono con «l'Agnello ha redento il suo gregge, l'Innocente ha riconciliato noi peccatori col Padre». Vedendole così non sembra nulla di fondamentale, in quanto manca solamente il nome Cristo ma così non è in quanto non è chiaro chi sia la Vittima Pasquale né tanto meno chi è l’Agnello o l’Innocente: in pratica ci si vergogna di chiamare per nome proprio il nostro Salvatore, cioè Cristo. Una dimenticanza del genere non è cosa di poco conto in quanto intacca un punto cardine della nostra fede: Cristo, e solo lui, ha redento l’umanità riconducendola la Padre. Le altre strofe non presentano nessun problema finché non si arriva alla fine in quanto, misteriosamente, non si vuol dire che Cristo è risorto dai morti4 dal momento che ci si è rifiutati di tradurre il «a mortuis» e lasciando un generico «risorto»: ma per affermare la corretta traduzione dobbiamo essere sicuri che Cristo sia risorto, ma come possiamo esserne certi se la resurrezione di Cristo è reale ma non storica, come vuole la teologia contemporanea?
Infatti io non vedo altra spiegazione che la seguente: i traduttori, con evidenti problemi di ortodossia, approfittano di una parte mobile della Celebrazione Eucaristica (in quanto non è presente tutto l’anno) per poter insinuare dei piccoli dubbi rispetto al mistero pasquale contraddicendo invece ciò che il Messale ripete in continuazione nello stesso giorno, vale a dire il fatto che «in questo giorno […] Cristo è risorto nel suo vero corpo».
Ma le cose da dire sul triduo sarebbero ancora di più, e riguardano sia le rubriche che la prassi di alcuni sacerdoti che, ad esempio, il Venerdì Santo si rifiutano di suonare le campane a morto mantenendole accese e funzionanti come se fosse un giorno qualsiasi per tutto Sabato Santo; che durante la Veglia di Pasqua si rifiutano categoricamente di inserire i grani di incenso nel cero, o di proclamare tutte le letture previste come se ci si trovasse sotto un bombardamento; ma ci sono anche parroci che benedicono un cero pasquale che poi, dopo Pentecoste, verrà tagliato per farne candele per l’altare andando a ripescare, in caso di battesimi o funerali, qualche vecchio cero con il contenitore per la cera liquida (facendo respirare le traballanti risorse economiche della Chiesa); ci sono Vescovi (tra cui il mio) che il Giovedì Santo arrivano tardi per la Celebrazione, predicano eresie per 25 minuti ma poi non utilizzano il Canone Romano durante la Consacrazione per poter velocizzare la celebrazione (in questo aiutati dal Messale che non ne vieta l’uso, neanche in quel giorno solenne); ci sono Vescovi che anticipano la Messa Crismale al mercoledì pomeriggio (togliendo ai fedeli di tutte le sue parrocchie la possibilità di andare a Messa quel pomeriggio) perché il Giovedì mattina i sacerdoti hanno da fare; ma c’è anche chi toglie i tappeti per la realizzazione di un Concerto ma li lascia per tutta la Quaresima; oppure chi organizza concerti di Pasqua (con tanto di canti di Alleluja, Regina Coeli, chi ne ha più ne metta) in Quaresima e finanche nella Domenica delle Palme; ho conosciuto un sacerdote, fresco di Licenza in Liturgia, che nelle diverse settimane della Quaresima ha fumigato la sua parrocchia una volta con aceto e incenso, un’altra volta con aloe e mirra, e così via, per poter continuare a rendere l’aula liturgica un luogo sano e adeguatamente idoneo a trasmettere un senso di pace e serenità; etc etc.
Il panorama delle aberrazioni liturgiche pasquali è molto ricco in quanto è altrettanto ricco il patrimonio della fede e della tradizione liturgica della Chiesa: e non potrebbe essere diversamente in quanto la Pasqua è la festa di Cristo, vincitore sul peccato e sulla morte, che ci ha aperto le porte del Paradiso benché non meritassimo neanche di poterlo chiamare Signore e Dio nostro.
Le rubriche del Messale presentano dei problemi, è vero, ma la fantasia liturgica dei sacerdoti e dei Vescovi non sembra avere freno: mi auguro che la nuova edizione del Messale, attesa da anni ed invocata a destra e a manca da tutti gli addetti ai lavori, curi maggiormente questi aspetti riconoscendo gli errori prodotti in 50 anni ed abbandonando il criterio della prassi in favore di quello della tradizione: in molti storceranno il naso, ma la Chiesa non dovrebbe curarsi di diventare mondana, bensì di evangelizzare il Mondo.
Il
Cardinale del Sacco
_________________
1 «Solo
oggi [Messa
del Giorno di Pasqua, n.d.r.]
è
obbligatoria; nei giorni fra l'ottava è facoltativa».
2 Victimae paschali laudes immolent Christiani»
3 «Agnus redémit oves:redémit oves: Christus innocens Patri reconciliávit peccatóres».
4 «Scimus Christum surrexísse a mórtuis vere: tu nobis, victor Rex, miserére».
2 Victimae paschali laudes immolent Christiani»
3 «Agnus redémit oves:redémit oves: Christus innocens Patri reconciliávit peccatóres».
4 «Scimus Christum surrexísse a mórtuis vere: tu nobis, victor Rex, miserére».