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sabato 18 marzo 2017
giovedì 16 marzo 2017
Cinematografo dell'alpino: Moonlight: L’Oscar e lo Scuro. La storia, non a lieto fine, di un buon film...
Moonlight è un prodotto di riconosciuti meriti ma quell’oscar puzza e lo fa puzzare. Eccovi la spiegazione.
Ci sono premiazioni che, come suggerisce il termine stesso del termine, “premiano” le qualità di un determinato lavoro, opera, così che si arrivi a un riconoscimento meritato; poi però ci sono anche delle premiazioni che paradossalmente sono delle vere e proprie pugnalate: macigni che devi portare e di cui soprattutto devi esserne all'altezza. Perché? Perché ciò che spesso caratterizza un premio è, oltre all'ambito su cui si focalizza, il suo prestigio, quella fama che lo ha sempre circondato. Se poi il premio in questione è un Oscar, e peggio ancora è quello per “il miglior film”, questo vuol dire che ti sei preso un bel “fardello” tolkieniano che peserà sul giudizio del tuo lavoro nel corso degli anni a venire. La seconda situazione accade spesso e volentieri quando ti danno il merito per qualcosa che infondo non sei riuscito a fare: quando il risultato di un determinato lavoro (in questo ci riferiamo ai film, visto che parliamo di Oscar) è ben lontano dal valore effettivo di quel premio.
Questa è, detta così in sintesi, la storia di Moonlight. Per precisare, non la sua storia come trama di un film, ma intesa come un percorso, rapidissimo, che lo ha visto consacrato a un oscar che proprio non meritava o, per meglio dire, non era proprio il suo ambito. Ma andiamo per gradi...
Tanto per cominciare, va tenuto a chiarire che la pellicola di Barry Jenkins ha una sua qualità, con pregi notevoli e lavoro meticoloso, soprattutto sulla scenografia e il montaggio (che sono stati in questo caso “giustamente” premiati con l’oscar anche questi); gli interpreti sono pochi ma decisamente buoni, anche perché devono sostenere dei ruoli che nonostante le apparenze non sono molto facili.
La trama è molto semplice ed è divisa in tre sequenze (come accade nell’originale opera teatrale a cui il film si rifà) che narrano la vita del protagonista durante l’infanzia, l’adolescenza e infine l’età adulta: Chiron, soprannominato “Piccolo”, è un bambino afroamericano spesso bersaglio delle angherie dei bulli del quartiere e sopporta oltretutto la noncuranza della madre, Paula, una donna alcolizzata e tossicodipendente. Viene accolto a un certo punto dallo spacciatore Juan e dalla moglie Teresa che lo trattano come se fosse un loro figlio; tuttavia il bambino non riuscirà mai ad aprirsi fino infondo con loro. Nell’adolescenza (II° atto), Chiron sentirà ancora di più amplificati i suoi problemi, a cui si aggiunge anche la questione di una sua presunta omosessualità (già affibbiatagli durante l’infanzia …)che crea ancora più distanza tra lui e i suoi compagni. Juan è morto (non viene specificato come) e Teresa, nonostante le amorevoli attenzioni che ha per lui, non riesce ad avere ancora confidenza da parte del ragazzo. Chiron tuttavia trova un iniziale conforto nel rapporto amore/amicizia con un suo amico di infanzia, Kevin, che però lo tradirà per non perdere la stima dei bulli della scuola. Picchiato a sangue proprio da Kevin, Chiron sfogherà la sua rabbia repressa contro uno dei compagni di classe che lo maltrattava colpendolo con una sedia. Si arriva poi all’atto finale: ora Chiron è un muscolosissimo spacciatore, tatuato con denti d’oro finti e pistola che vive ad Atlanta. In questa occasione troverà la possibilità di confrontarsi con la madre e con il vecchio amico Kevin. Finale a sorpresa...
Una storia in parte già vista, contornata da quelli che poi sono i luoghi comuni dell’America underground con i suoi uomini afroamericani tosti e nerboruti, i bulli di quartiere, le madri in crisi e la discriminazione per chi è diverso, il desiderio di uscire da una realtà segnata da violenza e dolore. Un minestrone bello pieno e già visto (citiamo solo “8 Mile” di Eminem; le situazioni sono più o meno le stesse). Inoltre la narrazione è un vero e proprio nodo: da un lato si apprezza la sobrietà con cui vengono affrontate le vicende del protagonista, ma spesso è anche troppo fredda e distaccata, e questo può creare anche fastidio. Si apprezza in parte però proprio come questa sobrietà riesca a dipingere con molto realismo alcune delle tematiche legate: ad esempio la questione dell’omosessualità di Chiron non viene romanzata, e vale così anche per quello che concerne il rapporto con Kevin (è uno dei grandi pregi del film quello di non essere un banale “Love Wins”). Restano però irrisolte alcune questioni della vicenda (questo dovuto in parte proprio all’opera teatrale originale)molto importanti, in modo da dare spazio ad una chiarezza necessaria proprio per lo sviluppo dei fatti: la morte di un personaggio molto importante come Juan rimane un mistero; l’amicizia tra Chirom e Kevin negli anni dell’infanzia, rappresentata solo in qualche breve flashback non particolarmente esplicativo; il percorso con cui il protagonista prende coscienza della sua omosessualità, visto che se è vero che è descritta da un lato in modo sincero dal punto di vista dei sentimenti dall’altro pecca di spazi vuoti che non la chiarificano fino infondo (si potrebbe arrivare benissimo alla fine del film pensando che questa, l’omosessualità, fosse solo un pretesto degli aggressori di Chiron, una delle tante prese in giro). Invece è bellissimo il messaggio che il film vuole trasmettere, cosa che gli riesce abbastanza bene: ci racconta di un personaggio che sin dalla sua tenera età tiene dentro di se la durezza di chi da solo vuole sopportare e portare i pesi che la vita chiede, ma che ha già dentro il seme di chi vuole semplicemente abbandonarsi all’abbraccio di qualcuno che sappia semplicemente volergli bene; la lotta tra queste due pulsioni si snoda attraverso la maggior parte delle scene per vedere poi proprio Chiron abbandonarsi alla seconda. È affascinante vederlo vulnerabile e desideroso proprio quando è adulto: i suoi muscoli, la sua enorme stazza e l’aria da violento sono il risultato dei dolori mai superati e della rabbia esplosa, ma queste tuttavia non riescono possederlo totalmente, e si ritrova così pronto a lasciarsi andare in un abbraccio finale.
Di pregevole fattura sono le interpretazioni degli attori: bravissimo Mahershala Ali nel ruolo di Juan perché riesce proprio a trasmettere quel senso di paternità che voleva trasmettere il suo personaggio a Chiron, vince infatti un meritato oscar come “migliore attore non protagonista”; molto bravo è anche Trevante Rhodes a cui tocca la parte più importante del film, cioè l’età adulta del protagonista: sa esprimere bene le due nature di Chiron nella fase finale.
Insomma è un film che ha tanto da dire, nel bene e nel male, e sicuramente non può essere annoverato come uno dei tanti, anche quando sbaglia qualcosa, perché tiene la capacità di saper esprimere bene le sue idee intrinseche. Però quell’oscar...!!
Alla fine è proprio l’oscar ciò che lo “rovina” nel vero senso del termine. Perché Moonlight la stazza del miglior film proprio non la ha: gli manca quel qualcosa in più, quel tocco di classe che invece tengono capolavori come La La Land, Manchester by the Sea o il cruento La Battaglia di Hacksaw Ridge del grande Mel Gibson. Moonlight manca di quella forza comunicativa che fa da spartiacque tra un buon film e un capolavoro: come è stato detto prima, le sue idee le sa trasmettere e lo fa anche molto bene, ma riesce a trasmettere solo quelle e nulla di più; ed inoltre quando potrebbe toccare picchi di potenza espressiva si accontenta della sua narrazione senza prendersi carico dei rischi che il pubblico spesso ti chiede (cosa che invece sa fare Manchester by the Sea, ma di lui ne parleremo un’altra volta...).
E allora l’oscar perché? Ed ecco il triste epilogo: una storia che parla di un ragazzo povero, afroamericano e omosessuale sono un banchetto prelibato per un’Accademy che, nell’era del cattivo Trump, non può fare a meno di essere troppo, schifosamente “politicamente corretta”. Dopo le accuse di assenza di persone di colore negli oscar precedenti, bisognava dare la dimostrazione (ancora...!?) di essere un popolo migliore ed il migliore di tutti. Gli americani, come la Accademy degli oscar, non possono essere razzisti, omofobi e borghesi. È un imperativo categorico, soprattutto ora che c’è Trump! Ma chissà perché c’è lui...
Così viene però alla fine, e verrà così negli anni, ricordato Moonlight: un film che ha vinto l’oscar come miglior film non per le sue doti, non per il personaggio meraviglioso di Chiron, ma perché l’America deve restare il paese dei più buoni e dei più tolleranti.
Speriamo che la medesima sorte non tocchi a “La Bella e La Bestia” di Emma Watson...
Ci sono premiazioni che, come suggerisce il termine stesso del termine, “premiano” le qualità di un determinato lavoro, opera, così che si arrivi a un riconoscimento meritato; poi però ci sono anche delle premiazioni che paradossalmente sono delle vere e proprie pugnalate: macigni che devi portare e di cui soprattutto devi esserne all'altezza. Perché? Perché ciò che spesso caratterizza un premio è, oltre all'ambito su cui si focalizza, il suo prestigio, quella fama che lo ha sempre circondato. Se poi il premio in questione è un Oscar, e peggio ancora è quello per “il miglior film”, questo vuol dire che ti sei preso un bel “fardello” tolkieniano che peserà sul giudizio del tuo lavoro nel corso degli anni a venire. La seconda situazione accade spesso e volentieri quando ti danno il merito per qualcosa che infondo non sei riuscito a fare: quando il risultato di un determinato lavoro (in questo ci riferiamo ai film, visto che parliamo di Oscar) è ben lontano dal valore effettivo di quel premio.
Questa è, detta così in sintesi, la storia di Moonlight. Per precisare, non la sua storia come trama di un film, ma intesa come un percorso, rapidissimo, che lo ha visto consacrato a un oscar che proprio non meritava o, per meglio dire, non era proprio il suo ambito. Ma andiamo per gradi...
Tanto per cominciare, va tenuto a chiarire che la pellicola di Barry Jenkins ha una sua qualità, con pregi notevoli e lavoro meticoloso, soprattutto sulla scenografia e il montaggio (che sono stati in questo caso “giustamente” premiati con l’oscar anche questi); gli interpreti sono pochi ma decisamente buoni, anche perché devono sostenere dei ruoli che nonostante le apparenze non sono molto facili.
La trama è molto semplice ed è divisa in tre sequenze (come accade nell’originale opera teatrale a cui il film si rifà) che narrano la vita del protagonista durante l’infanzia, l’adolescenza e infine l’età adulta: Chiron, soprannominato “Piccolo”, è un bambino afroamericano spesso bersaglio delle angherie dei bulli del quartiere e sopporta oltretutto la noncuranza della madre, Paula, una donna alcolizzata e tossicodipendente. Viene accolto a un certo punto dallo spacciatore Juan e dalla moglie Teresa che lo trattano come se fosse un loro figlio; tuttavia il bambino non riuscirà mai ad aprirsi fino infondo con loro. Nell’adolescenza (II° atto), Chiron sentirà ancora di più amplificati i suoi problemi, a cui si aggiunge anche la questione di una sua presunta omosessualità (già affibbiatagli durante l’infanzia …)che crea ancora più distanza tra lui e i suoi compagni. Juan è morto (non viene specificato come) e Teresa, nonostante le amorevoli attenzioni che ha per lui, non riesce ad avere ancora confidenza da parte del ragazzo. Chiron tuttavia trova un iniziale conforto nel rapporto amore/amicizia con un suo amico di infanzia, Kevin, che però lo tradirà per non perdere la stima dei bulli della scuola. Picchiato a sangue proprio da Kevin, Chiron sfogherà la sua rabbia repressa contro uno dei compagni di classe che lo maltrattava colpendolo con una sedia. Si arriva poi all’atto finale: ora Chiron è un muscolosissimo spacciatore, tatuato con denti d’oro finti e pistola che vive ad Atlanta. In questa occasione troverà la possibilità di confrontarsi con la madre e con il vecchio amico Kevin. Finale a sorpresa...
Una storia in parte già vista, contornata da quelli che poi sono i luoghi comuni dell’America underground con i suoi uomini afroamericani tosti e nerboruti, i bulli di quartiere, le madri in crisi e la discriminazione per chi è diverso, il desiderio di uscire da una realtà segnata da violenza e dolore. Un minestrone bello pieno e già visto (citiamo solo “8 Mile” di Eminem; le situazioni sono più o meno le stesse). Inoltre la narrazione è un vero e proprio nodo: da un lato si apprezza la sobrietà con cui vengono affrontate le vicende del protagonista, ma spesso è anche troppo fredda e distaccata, e questo può creare anche fastidio. Si apprezza in parte però proprio come questa sobrietà riesca a dipingere con molto realismo alcune delle tematiche legate: ad esempio la questione dell’omosessualità di Chiron non viene romanzata, e vale così anche per quello che concerne il rapporto con Kevin (è uno dei grandi pregi del film quello di non essere un banale “Love Wins”). Restano però irrisolte alcune questioni della vicenda (questo dovuto in parte proprio all’opera teatrale originale)molto importanti, in modo da dare spazio ad una chiarezza necessaria proprio per lo sviluppo dei fatti: la morte di un personaggio molto importante come Juan rimane un mistero; l’amicizia tra Chirom e Kevin negli anni dell’infanzia, rappresentata solo in qualche breve flashback non particolarmente esplicativo; il percorso con cui il protagonista prende coscienza della sua omosessualità, visto che se è vero che è descritta da un lato in modo sincero dal punto di vista dei sentimenti dall’altro pecca di spazi vuoti che non la chiarificano fino infondo (si potrebbe arrivare benissimo alla fine del film pensando che questa, l’omosessualità, fosse solo un pretesto degli aggressori di Chiron, una delle tante prese in giro). Invece è bellissimo il messaggio che il film vuole trasmettere, cosa che gli riesce abbastanza bene: ci racconta di un personaggio che sin dalla sua tenera età tiene dentro di se la durezza di chi da solo vuole sopportare e portare i pesi che la vita chiede, ma che ha già dentro il seme di chi vuole semplicemente abbandonarsi all’abbraccio di qualcuno che sappia semplicemente volergli bene; la lotta tra queste due pulsioni si snoda attraverso la maggior parte delle scene per vedere poi proprio Chiron abbandonarsi alla seconda. È affascinante vederlo vulnerabile e desideroso proprio quando è adulto: i suoi muscoli, la sua enorme stazza e l’aria da violento sono il risultato dei dolori mai superati e della rabbia esplosa, ma queste tuttavia non riescono possederlo totalmente, e si ritrova così pronto a lasciarsi andare in un abbraccio finale.
Di pregevole fattura sono le interpretazioni degli attori: bravissimo Mahershala Ali nel ruolo di Juan perché riesce proprio a trasmettere quel senso di paternità che voleva trasmettere il suo personaggio a Chiron, vince infatti un meritato oscar come “migliore attore non protagonista”; molto bravo è anche Trevante Rhodes a cui tocca la parte più importante del film, cioè l’età adulta del protagonista: sa esprimere bene le due nature di Chiron nella fase finale.
Insomma è un film che ha tanto da dire, nel bene e nel male, e sicuramente non può essere annoverato come uno dei tanti, anche quando sbaglia qualcosa, perché tiene la capacità di saper esprimere bene le sue idee intrinseche. Però quell’oscar...!!
Alla fine è proprio l’oscar ciò che lo “rovina” nel vero senso del termine. Perché Moonlight la stazza del miglior film proprio non la ha: gli manca quel qualcosa in più, quel tocco di classe che invece tengono capolavori come La La Land, Manchester by the Sea o il cruento La Battaglia di Hacksaw Ridge del grande Mel Gibson. Moonlight manca di quella forza comunicativa che fa da spartiacque tra un buon film e un capolavoro: come è stato detto prima, le sue idee le sa trasmettere e lo fa anche molto bene, ma riesce a trasmettere solo quelle e nulla di più; ed inoltre quando potrebbe toccare picchi di potenza espressiva si accontenta della sua narrazione senza prendersi carico dei rischi che il pubblico spesso ti chiede (cosa che invece sa fare Manchester by the Sea, ma di lui ne parleremo un’altra volta...).
E allora l’oscar perché? Ed ecco il triste epilogo: una storia che parla di un ragazzo povero, afroamericano e omosessuale sono un banchetto prelibato per un’Accademy che, nell’era del cattivo Trump, non può fare a meno di essere troppo, schifosamente “politicamente corretta”. Dopo le accuse di assenza di persone di colore negli oscar precedenti, bisognava dare la dimostrazione (ancora...!?) di essere un popolo migliore ed il migliore di tutti. Gli americani, come la Accademy degli oscar, non possono essere razzisti, omofobi e borghesi. È un imperativo categorico, soprattutto ora che c’è Trump! Ma chissà perché c’è lui...
Così viene però alla fine, e verrà così negli anni, ricordato Moonlight: un film che ha vinto l’oscar come miglior film non per le sue doti, non per il personaggio meraviglioso di Chiron, ma perché l’America deve restare il paese dei più buoni e dei più tolleranti.
Speriamo che la medesima sorte non tocchi a “La Bella e La Bestia” di Emma Watson...
Antonello Di Nunno
Cappellano militare: La povertà
Il problema non sono i vestiti, ma la porta.
Ciò che devi amministrare bene è la porta del tuo cuore, quella ferita che incide nel profondo la tua vita con il segno della mancanza: per tanto o poco che tu abbia, lascerai entrare così a fondo l'unica cosa che conta?
La povertà che sta fuori di te (povero), così come la povertà che è in te (desiderio), non sono altro che la memoria di quell'unica goccia che fa traboccare di gioia vera il vaso della tua storia.
È doloroso ricordarsi di aver tanta sete, da desiderare una semplice goccia e forse è per questo che la nostra porta si chiude così spesso alla povertà. Ma attenzione: Dio è lontano dagli occhi di chi tiene il povero lontano dal cuore.
Ciò che devi amministrare bene è la porta del tuo cuore, quella ferita che incide nel profondo la tua vita con il segno della mancanza: per tanto o poco che tu abbia, lascerai entrare così a fondo l'unica cosa che conta?
La povertà che sta fuori di te (povero), così come la povertà che è in te (desiderio), non sono altro che la memoria di quell'unica goccia che fa traboccare di gioia vera il vaso della tua storia.
È doloroso ricordarsi di aver tanta sete, da desiderare una semplice goccia e forse è per questo che la nostra porta si chiude così spesso alla povertà. Ma attenzione: Dio è lontano dagli occhi di chi tiene il povero lontano dal cuore.
Don Carlo Pizzocaro
mercoledì 15 marzo 2017
Cappellano militare: La passione
Appassionato non è chi conquista, ma chi si consegna.
La passione ti buca le mani perché tu non trattenga nulla e ti perfora i piedi perché tu non scelga la strada. La passione ti inchioda nel punto esatto in cui, incrociandosi con lo sguardo del Padre, la tua volontà si perde tutta in LUI.
Forse è per questo che il segreto per vivere è trovare qualcuno [Qualcuno?] per cui valga la pena morire. Non è pazzia, ma semplice passaggio, da "io" a "TU": è Pasqua.
La passione ti buca le mani perché tu non trattenga nulla e ti perfora i piedi perché tu non scelga la strada. La passione ti inchioda nel punto esatto in cui, incrociandosi con lo sguardo del Padre, la tua volontà si perde tutta in LUI.
Forse è per questo che il segreto per vivere è trovare qualcuno [Qualcuno?] per cui valga la pena morire. Non è pazzia, ma semplice passaggio, da "io" a "TU": è Pasqua.
Don Carlo Pizzocaro
martedì 14 marzo 2017
Cappellano militare: Carta, inchiostro e penna
Come si scrive il Vangelo?
Tu sei la carta, quindi servono inchiostro (Verità) e penna (Carità). Ma, si sa, inchiostro e penna possono "ammalarsi".
Ci può essere una Verità muta: ciò che è più profondo, diventa definitivamente sepolto. Ci può essere una Carità vuota: ciò che è più accessibile, diventa superficiale.
Il Vangelo ti è dato perché si scriva nella carta che sei: grida con amore e ama veramente.
Tu sei la carta, quindi servono inchiostro (Verità) e penna (Carità). Ma, si sa, inchiostro e penna possono "ammalarsi".
Ci può essere una Verità muta: ciò che è più profondo, diventa definitivamente sepolto. Ci può essere una Carità vuota: ciò che è più accessibile, diventa superficiale.
Il Vangelo ti è dato perché si scriva nella carta che sei: grida con amore e ama veramente.
Don Carlo Pizzocaro
lunedì 13 marzo 2017
Cappellano militare: L'obbedienza
Ci è promesso molto: una vita a misura del Padre e a questa promessa si può rispondere solo con l'obbedienza.
Ob-audire, cioè avere ben ferma la "ragione" per cui valga la pena di "ascoltare con i piedi" (=seguire); una ragione che non è semplice risposta o segno, ma orientamento della vita intera (ob=perché/di fronte a).
Cosa fa un bambino, se non chiedere continuamente "perché"? È impossibile frenare questa sua radicale domanda di vita: non chiede nulla, ma di tutto vuole la ragione. Egli vuole sapere "perché" vivere, non "di che" vivere.
Dio si chiama "Ob": beato chi non ha smesso di invocare il Suo Nome ogni istante.
Ob-audire, cioè avere ben ferma la "ragione" per cui valga la pena di "ascoltare con i piedi" (=seguire); una ragione che non è semplice risposta o segno, ma orientamento della vita intera (ob=perché/di fronte a).
Cosa fa un bambino, se non chiedere continuamente "perché"? È impossibile frenare questa sua radicale domanda di vita: non chiede nulla, ma di tutto vuole la ragione. Egli vuole sapere "perché" vivere, non "di che" vivere.
Dio si chiama "Ob": beato chi non ha smesso di invocare il Suo Nome ogni istante.
Don Carlo Pizzocaro